In questi tempi i Tedeschi avevono mosso guerra a’ Viniziani; e Boccolino da Osimo nella Marca aveva fatto ribellare Osimo al Papa, e presone la tirannide. Costui, dopo molti accidenti, fu contento, persuaso da Lorenzo de’ Medici, di rendere quella città al Pontefice; e ne venne a Firenze, dove, sotto la fede di Lorenzo, più tempo onoratissimamente visse, di poi andandone a Milano; dove, non trovando la medesima fede, fu da il signore Lodovico fatto morire. I Viniziani, assaliti da’ Tedeschi, furono, propinqui alla città di Trento, rotti, e il signore Ruberto da San Severino, loro capitano, morto. Dopo la quale perdita, i Viniziani, secondo l’ordine della fortuna loro, feciono uno accordo con i Tedeschi, non come perdenti, ma come vincitori: tanto fu per la loro republica onorevole. Nacquono ancora, in questi tempi, tumulti in Romagna, importantissimi. Francesco d’Orso, furlivese, era uomo di grande autorità in quella città: questi venne in sospetto al conte Girolamo, tal che più volte da il Conte fu minacciato, donde che, vivendo Francesco con timore grande, fu confortato da’ suoi amici e parenti di prevenire; e poi che temeva di essere morto da lui, ammazzasse prima quello, e fuggisse, con la morte d’altri, i pericoli suoi. Fatta adunque questa deliberazione, e fermo l’animo a questa impresa, elessono il tempo, il giorno del mercato di Furlì, perché, venendo in quel giorno in quella città assai del contado loro amici, pensorono sanza avergli a fare venire, potere della opera loro valersi. Era del mese di maggio, e la maggiore parte delli Italiani hanno per consuetudine di cenare di giorno. Pensorono i congiurati che l’ora commoda fusse, ad ammazzarlo, dopo la sua cena, nel qual tempo, cenando la sua famiglia, egli quasi restava in camera solo. Fatto questo pensiero, a quella ora deputata Francesco ne andò alle case del Conte, e lasciati i compagni nelle prime stanze, arrivato alla camera dove il Conte era, disse ad un suo cameriere che gli facesse intendere come gli voleva parlare. Fu Francesco intromesso, e trovato quello solo, dopo poche parole d’uno simulato ragionamento lo ammazzò; e chiamati i compagni, ancora il cameriere ammazzorono. Veniva a sorte il capitano della terra a parlare al Conte, e arrivato in sala con pochi dei suoi, fu ancora egli dagli ucciditori del Conte morto. Fatti questi omicidii, levato il romore grande, fu il capo del Conte fuori delle finestre gittato; e gridando Chiesa e Libertà, feciono armare tutto il popolo, il quale aveva in odio l’avarizia e crudeltà del Conte; e saccheggiate le sue case, la contessa Caterina e tutti i suoi figliuoli presono. Restava solo la fortezza a pigliarsi, volendo che questa loro impresa avesse felice fine. A che non volendo il castellano condescendere, pregorono la Contessa fusse contenta disporlo a darla. Il che ella promesse fare, quando eglino la lasciassero entrare in quella; e per pegno della fede ritenessero i suoi figliuoli. Credettono i congiurati alle sue parole, e permissonle l’entrarvi. La quale, come fu dentro, gli minacciò di morte e d’ogni qualità di supplizio in vendetta del marito; e minacciando quegli di ammazzargli i figliuoli, rispose come ella aveva seco il modo a rifarne degli altri. Sbigottiti per tanto i congiurati, veggendo come dal Papa non erano suvvenuti, e sentendo come il signore Lodovico, zio alla Contessa, mandava gente in suo aiuto, tolte delle sustanzie loro quello poterono portare, se ne andorono a Città di Castello. Onde che la Contessa, ripreso lo stato, la morte del marito con ogni generazione di crudeltà vendicò. I Fiorentini, intesa la morte del Conte, presono occasione di recuperare la rocca di Piancaldoli, stata loro dal Conte per lo adietro occupata. Dove mandate loro genti, quella con la morte del Cecca, architettore famosissimo, recuperorono.