Questo assalto, quanto egli perturbò il Duca e il resto di Italia, tanto rallegrò Firenze e Siena, parendo a questa di avere riavuta la sua libertà, e a quella di essere uscita di quelli pericoli che gli facieno temere di perderla. La quale opinione accrebbono le doglienze che il Duca fece nel partire da Siena, accusando la fortuna, che, con uno insperato e non ragionevole accidente, gli aveva tolto lo imperio di Toscana. Questo medesimo caso fece al Papa mutare consiglio; e dove prima non aveva mai voluto ascoltare alcuno oratore fiorentino, diventò in tanto più mite che gli udiva qualunque della universale pace gli ragionava: tanto che i Fiorentini furono certificati che, quando s’inclinassero a domandare perdono al Papa, che lo troverebbono. Non parve adunque di lasciare passare questa occasione; e mandorono al Pontefice dodici ambasciadori; i quali, poi che furono arrivati a Roma, il Papa, con diverse pratiche, prima che desse loro audienza gli intrattenne. Pure, alla fine, si fermò intra le parti come per lo avvenire si avesse a vivere, e quanto nella pace e quanto nella guerra per ciascuna di esse a contribuire. Vennono di poi gli ambasciadori a’ piedi del Pontefice, il quale, in mezzo dei suoi cardinali, con eccessiva pompa gli aspettava. Escusorono costoro le cose seguite, ora accusandone la necessità, ora la malignità d’altri, ora il furore popolare e la giusta ira sua; e come quelli sono infelici, che sono forzati o combattere o morire. E perché ogni cosa si doveva sopportare per fuggire la morte, avevono sopportato la guerra, gli interdetti, e le altre incommodità che si erano tirate dietro le passate cose, perché la loro republica fuggisse la servitù, la quale, suole essere la morte delle città libere. Non di meno, se, ancora che forzati, avessero commesso alcuno fallo, erano per tornare a menda; e confidavano nella clemenza sua, la quale, ad esemplo del Sommo Redentore, sarà per riceverli nelle sue pietosissime braccia. Alle quali scuse il Papa rispose con parole piene di superbia e di ira, rimproverando loro tutto quello che ne’ passati tempi avevono contro alla Chiesa commesso: non di meno, per conservare i precetti di Dio, era contento concedere loro quel perdono che domandavano; ma che faceva loro intendere come eglino avieno ad ubbidire; e quando eglino rompessero l’ubbidienza, quella libertà che sono stati per perdere ora, e’ perderebbono poi, e giustamente; perché coloro sono meritamente liberi, che nelle buone, non nelle cattive opere si esercitano; perché la libertà male usata offende se stessa e altri; e potere stimare poco Iddio e meno la Chiesa non è oficio di uomo libero, ma di sciolto e più al male che al bene inclinato; la cui correzione non solo a’ principi, ma a qualunque cristiano appartiene. Tale che delle cose passate si avevono a dolere di loro, che avevono con le cattive opere dato cagione alla guerra, e con le pessime nutritola, la quale si era spenta più per la benignità d’altri che per i meriti loro. Lessesi poi la formula dello accordo e della benedizione; alla quale il Papa aggiunse, fuori delle cose praticate e ferme che, se i Fiorentini volevono godere il frutto della benedizione, tenessero armate, di loro danari, quindici galee tutto quel tempo che il Turco combattesse il Regno. Dolfonsi assai gli oratori di questo peso, posto sopra allo accordo fatto; né poterono in alcuna parte, per alcuno mezzo o favore, e per alcuna doglienza, alleggerirlo. Ma tornati a Firenze, la Signoria, per fermare questa pace, mandò oratore al Papa messer Guidantonio Vespucci, che di poco tempo innanzi era tornato di Francia. Questi, per la sua prudenza, ridusse ogni cosa a termini sopportabili, e dal Pontefice molte grazie ottenne; il che fu segno di maggiore riconciliazione.