Istoria delle guerre gottiche/Libro secondo/Capo X
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO X.
Giovanni, messo a ferro e fuoco il Piceno, occupa Arimino. — Riceve un messaggiere da Matasunta consorte di Vitige. Sconfitta de’ Gotti nell’abbandonare l’assedio di Roma.
I. Tra questo mezzo Belisario comandò scrivendo a Giovanni di eseguire gli ordini avuti; e questi pigliati seco duemila cavalieri, scorrazzando per lo largo e lo lungo il Piceno cominciò a predare dovunque avvenivasi, ed a condurre in ischiavitù la prole e le mogli de’ nemici. Fattoglisi di più innanzi Uliteo zio di Vitige1 alla testa d’un gottico esercito, lo vince ed uccide, sterminandone pressochè tutta la soldatesca; dopo la quale strage nessuno ebbe più ardimento di provocarlo a battaglia. Giunto ad Aussimo2 città vennegli avviso che le mura di lei racchiudevano ben debole presidio, ma vedutala fortificatissima ed inespugnabile, posto in non cale ogni pensiero d’assedio, proseguì oltre, né diversamente comportossi colla città di Urbino. Quindi calcò la via di Arimino3, lontana da Ravenna il viaggio d’un giorno, ed al suo avvicinare i Gotti quivi di guernigione, mal sicuri dei Romani che aveanvi fermata dimora, migrarono velocissimamente in Ravenna. Così Giovanni occupò Arimino lasciatisi da tergo i nemici di Aussimo e di Urbino, non perchè avesse dimenticato gli ordini di Belisario, o fosse addivenuto sconsigliatamente audace, avendovi a un tempo in lui coraggio e prudenza; ma sì bene opinava, ed il fatto venne a confermarlo, che i nemici al primo avviso del romano esercito in vicinanza di Ravenna, temendo guai per questa città, sarebbonsi levati dall’assedio di Roma. Nè male s’appose. Conciossiachè Vitige e la gente sua non appena divolgatasi l’entrata di questo duce in Arimino, cadendo in gravissimi timori sul conto di Ravenna, messo in balìa del fato tutto il resto, non differirono la partenza loro, come sono per dire, un solo istante: così la gloria di Giovanni, assai grande anche in prima, acquistò lustro maggiore. Egli, per natura d’animo coraggioso e prontissimo a cimentarsi ne’ pericoli, di per sè stesso metteva in opera i suoi piani, e non la cedeva ad alcun barbaro, vuoi pur soldato, nella continua tolleranza della fatica e di una frugalissima mensa: tale era Giovanni. Matasunta, volgendo a lei il discorso, moglie di Vitige, grandemente avversa al marito e addivenutagli mal suo grado consorte, non sì tosto riseppe l’arrivo di Giovanni in Arimino che, tripudiante per la contentezza, inviogli occultamente un messo incaricato di combinare le nozze tra loro, tantosto libererebbesi, per tradigione, del vivente marito.
II. Duravano tuttavia queste occulte mene della regina col duce, quando i Gotti udito il caso di Arimino, sofferendo gravissima diffalta di vittuaglia e prossimi alla fine dell’armistizio trimestrale, partitonsi avvegnachè di nulla sapevoli intorno agli spediti oratori. L’anno volgea di già al vernile equinozio, consumatosi tutto, unitamente ad altri nove giorni4, nell’assedio, allorchè i barbari abbruciate per intiero le proprie trincee batterono coi primi albori la ritirata. I Romani vedutane la fuga tenevansi tra due sul partito da prendere in quell’emergente, avendo qua e là spedito il maggior novero de’ cavalieri, come testè riferiva: nè credevansi di forze eguali alle copiosissime truppe nemiche. Belisario non di meno fe’ armare sue genti, pedoni e cavalieri, ed allorchè oltre la metà de’ Gotti ebbe valicato il ponte, uscì della porta Pinciana coll’esercito, dove si venne alle prese colla medesima ostinazione, che segnalato avea tutte le precedenti battaglie. E per verità al cominciar della pugna i barbari difendendosi coraggiosamente ebbero ed arrecarono altrui non poca strage. Imperciocchè volendo ciascheduno essere il primo a valicare il ponte, affoltatisi in angustissimo spazio v’incontrarono le più disastrose sciagure, avendo morte dalle armi proprie e da quelle della contraria fazione, senza ridire i molti che dal ponte cadevano giù nel Tevere; il resto precipitosamente raggiunse coloro che di già eran passati. In questa battaglia Longino isauro e Mundila, astati di Belisario, coprironsi di gloria, e l’ultimo potè cavarsela sano e salvo ucciso ch’ebbe quattro de’ barbari in singolar tenzone; ma l’altro, al cui valore soprattutto è uopo ascrivere la fuga de’ Gotti, vi giuntò la vita, lasciando grandissimo desiderio di sè alle armi romane.