Istoria delle guerre gottiche/Libro secondo/Capo VII
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO VII.
Copia di vittuaglia rimontando il Tevere apporta abbondanza in Roma. — Abbandonato dai Gotti Porto, Centumcelle1 ed Albano entranvi i Romani. Belisario si fa’ beffe delle gottiche minacce; spedisce truppe nel Piceno, e promette guarnigione ai Milanesi.
I. Durante queste mene le navi degli Isauri giungono nel porto romano, e Giovanni co’ suoi perviene ad Ostia senza che uom de’ nemici s’opponesse loro o all’afferrare o al piantar del campo. Non di meno per vivere sicuri nella notte dalle nemiche scorrerie stabilirono cavare vicino al porto un’alta fossa e farvi continua guardia per turno: le truppe similmente di Giovanni s’attendarono, fortificando anch’esse il luogo col porvi all’intorno le carra. Dopo di che Belisario capitato intra le tenebre ad Ostia con cento cavalieri vi narra l’esito della fresca pugna e la tregua stabilita cogli avversarii; e così prima di tutto incoratili, comanda poscia loro di mettere a terra il carico e di trasferirsi prontamente a Roma. «Del resto, aggiungeva, sarà mia cura che tra via non abbiate ad incontrare pericolo di sorta»; quindi retrocedette co’ primi albori. Dileguatasi appena la notte Antonina chiamò a consiglio i duci per deliberare sul come tradurre nella città le vittuaglie portate. Ed in vero sembrava questa assai grave e malagevole impresa, tutti i buoi essendo rifiniti dalle precedenti fatiche e mezzo morti; non aveavi tampoco sicurezza nel trascorrere colle carra per auguste vie, nè poteano più valersi delle barche fluviatili come per lo innanzi, imperciocchè il sentiero a mano stanca del fiume, insidiato dai gottici presidii come scrivea, era intercluso affatto agli imperiali. In quello poi a destra presso alla ripa non v’ha orma di piede umano. Dato di piglio adunque ai palischelmi delle navi maggiori e munitili all’intorno con alte tavole, a fine di guarentirne i condottieri dalle offese delle nemiche saette, pongonvi sopra, giusta la capacità di ciascheduno, arcadori, nocchieri, e quanta mai salmeria vi cape; quindi fermi nella risoluzione di navigare a Roma pel Tevere attendono propizio vento, ed allo spirare di esso mettono alla vela soccorsi da parte dell’esercito in cammino lungo la destra del fiume: gl’Isauri intanto rimasi in gran numero presso del porto vegliano la salvezza delle navi. Nè per verità coloro duravano fatica ad essere trasportati laddove il fiume percorrendo tetto consentiva l’alzarsi delle vele, ma nelle sue svolte, ove appunto la corrente acquista maggior impeto, inutile riuscendo il vento a spigner oltre, i nocchieri ben bene sudavano per vincere co’ remi la veemenza dell’acqua. I barbari intanto seduti ne’ loro campi guardavansi dal ritardarli o pel timore del pericolo, o per ferma credenza ch’ e’ da questa via affaticherebbero indarno per condurre alla città vittuaglia comunque; soprattutto e’ non volevano essere accagionati di froda se temerariamente o sedotti da frivolo motivo distrutta avessero la speranza di tregua convalidata dalla promessa del condottiero. Laonde quanti erano a dimora nella città di Porto veduta la bene ordinata navigazione de’ Romani stavansi inoperosi lunge dal farvi contro, ed attoniti per cotanto ardire. Dopo che i marini a furia di simiglianti trasporti ebbero deposto in Roma tutto il carico delle navi a loro buon grado, volgendo l’anno di già al vernile solstizio, prestamente fecersi indietro colle navi; ed il resto della truppa entrò in Roma, ad eccezione di Paolo, rimaso con una schiera d’Isauri a presidiare Ostia.
II. Furono poscia da ambe le parti consegnati gli statichi dai Romani Zenone, dai Gotti Ulia uomo non ignobile, patteggiando insieme di cessare per tre mesi ogni maniera di offesa; intanto riverrebbero gli ambasciadori da Bizanzio colle imperiali determinazioni: che se una delle parti in questo intervallo osasse provocare l’altra con oltraggi, non si dovesse per ciò impedire agli inviati di restituirsi presso la gente loro: così gli oratori de’ Gotti accompagnati da romana scorta pigliarono la via di Bizanzio. Dopo di che il genero di Antonina, Ildigero, capitò dall’Africa conducendo gran novero di cavalieri, ed i Gotti di presidio nel castello di Porto brulli di annona, tant’era la romana severità nell’impedire al nemico di ritrarre dal mare il più lieve conforto di vittuaglia, ebbero da Vitige la permissione di abbandonarlo per tornare ne’ proprii campi, ed alla costoro andata entrovvi Paolo cogli Isauri a stanza in Ostia. Nè per altra cagione, vo’ dire la diffalta de’ cibi, i barbari sotto que’ dì levaronsi da Centumcelle marittima città della Tuscia, nobilissima, grande, assai popolosa, e lontana da Roma, all’occaso, dugento ottanta stadii. Fattivisi pertanto gl’imperiali molto accrebbero con essa le forze loro, e vie più ancora impossessandosi non altrimenti della città d’Albano, rimpetto alla parte orientale di Roma, evacuata di fresco per fame dal nemico. Mercè di che inviperito costui forte bramava di rompere gli accordi coll’apporre alla fazione contraria qualche frode; al qual uopo manda a Belisario oratori, i quali querelandosi di sofferti oltraggi in violamento della tregua, adducono che avendo Vitige chiamato la guarnigione di Porto a nuovi destini, funne di subito occupato il castello da Paolo e dagli Isauri; così pure fingono querelarsi della egual cosa per rispetto a Centomcelle ed Albano, aggiugnendo che non lascerebbero invendicato il torto se non venissero quanto prima restituiti loro i prefati luoghi. Ma il duce accommiatali con ironico riso e col nomare vano pretesto le udite doglianze, non avendovi chi ignorasse il vero motivo per cui ritrassersi da que’ luoghi; dopo di che vissero diffidenti gli uni degli altri. In processo di tempo Belisario vedendo Roma abbondante di truppe mandonne schiere ne’ dintorni a qualche distanza dalle mura, e spedì Giovanni figlio della sorella di Vitaliano a svernare cogli ottocento cavalieri da lui comandati presso Alba città del Piceno; e ve ne aggiunse altri quattrocento di quelli sotto Valeriano, aventi a capo il costui nipote, da parte di sorella, nomato Damiano, ed ottocento valentissimi suoi pavesai, datone il reggimento a due proprie lance Sutan ed Abigan, subordinando anch’esse in tutto e per tutto a Giovanni, il quale dovea rimanersi tranquillo sino a tanto che vedesse il nemico fedele agli accordi; ove poi questo rompesse la data fede e’ trascorrerebbe all’improvviso e di fretta con tutte le truppe l’agro Piceno, senza posa recandovisi in ogni luogo, e prevenendo colla sua velocità la fama stessa; nè v’incontrerebbe grande opposizione non avendovi colà quasi più uomini, condotti nel massimo lor numero alla volta di Roma dalla guerra: dovunque poi e’ s’avvenisse a nemica prole, femmine e danaro, metterebbe a sacco il tutto portando nella città prigioniere le donne ed i fanciulli, ma ben si guarderà dal recare il menomo danno ai Romani privi di stanza. Inoltre ove desse in luogo custodito da militare presidio, rafforzato perciò dall’arte e dalla mano, imprendane con ogni suo mezzo la espugnazione, ed impossessatosene vie meglio proceda; che se la difficoltà dell’impresa non v’acconsentisse, ritirerassi o farà ivi dimora, non dimenticando sovrastare gravissimo pericolo a chiunque passa innanzi, come le più fiate accade, trascurando le non vinte munizioni da tergo: attenderebbe quindi a difendere, se dai Gotti perseguitato, ed a conservare intero il bottino da partirsi in buona fede con tutto l’esercito, e ridendo aggiugnea: «Imperciocchè non vuole giustizia che mentre gli uni affaticano nel disperdere le pecchie, gli altri colle mani alla cintola godano il ricolto miele.» Dopo questi comandamenti fe’ partire Giovanni e le truppe.
III. Di que’ tempi Dazio vescovo di Milano ed alcuni ragguardevolissimi cittadini venuti a Roma chiedevano a Belisario un piccolo aiuto di truppe, dichiarandosi, ottenendole, in forze sufficienti per togliere di leggieri ai Gotti e restituire all’imperatore non pur Milano, ma con essa tutta la Liguria, nella quale ergesi la mentovata città posta quasi di mezzo tra Ravenna e le Alpi a fronte della Gallia; cosicchè da quinci e da quindi potrai giugnere a lei con otto giornate di spedito cammino. Milano è al disotto di Roma per grandezza, popolazione e ricchezze, ma primeggia sopra ogni altra città dell’Occidente. Il duce promise di render paghi lor voti, e passò in Roma il verno.
- ↑ Civitavecchia