Inferno monacale/Libro primo
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Ben furno ragionevoli le profetiche laccrime e le dolorose lamentationi con le quali Geremia si dolse delle future rovine della misera Gerusaleme. Però con non meno lacrimosi gemiti merita d’esser compiante l’infilicità compatibili di quelle anime che, non solo imprigionate in un corpo provano gli infortuni comuni a tutta l’humanità, ma hanno, per tormento loro particolare, la carcere d’un monastero in cui sono forzatamente et innocentemente condonate a patir etterno martir di pene che, per esser tale, a raggione può chiamarsi un Inferno. Se a quella mestissimamente compatendo eij disse: «Plorans ploravi in nocte et lacrime eius in maxillis eius, non est qui consuletur eam», di queste con medemi accenti dovrian esser esclamate le tormentose miserie! Piangono la notte, anzi continuamente stampano con le correnti lacrime su le guancie solchi dolorosi, né rittrovono chi voglia o possa consolarle. Chi sa, forse Geremia previdde, molti seculi antecipati, gli eminenti precipicij che sovrastano alla Gerusalemme di tante anime e s’affisse del’eror universale, accenando ciò che era per sucedere in esterminio di quelle infelici che, fatte monache senza esser chiamate da Dio, son prive d’ogni bene e bersaglio d’ogni mala fortuna e che, doppo tanti patimenti e sciagure, haveranno forse un più doloroso e sfortunato fine.
L’avaritia e tirania de’ padrii con la semplicità, ingnoranza et obedienza intempestiva delle figlie partoriscono queste conseguenze deplorabili!
E perché non tutte sono poste nell’Inferno de’ viventi da una istessa causa - così diverse son le maniere con che restano inganate, poi ché la malitia de gli huomeni non lascia fraude che non esserciti in questo maneggio -, quelle monache forzate anco esse che, invecchiate, sono vicine a finir con la vitta i tormenti temporali, usano ogni arte a sotisfatione de’ parenti per rapir l’anime dell’innocenti e semplice giovanitte et unirsele ne’ cruccij della Religione, incontando et intreciando le più favolose menzognie che da niun famoso e perito poeta siano mai state machinate. Ben sano queste che «Solacium est miseris socios habere penarum»: quella medessima stanza, che elle per la tirannia paterna provano un esecrabile Inferno, vien da loro descritta piena di delicie di Paradiso. Sano con tali arte mentire che, mascherando da verità la bugia, imittano sino il perfido sesso virile e fanno apparire che fuori de’ chiostri non si trovi felicità e, con lusinghe accomodate alla età delle fanciulle, dolcemente l’invitano a quel visco al quale, apligliate l’incaute, mai più in etterno vagliono a liberarsi. Alle bambine di poca ettà fingono luochi solacevoli e poco differenti dal Paradiso Terestre, sino inganandole con far veder loro albori su’ quali, havendo inestati confetti e frutti di zuccaro, la pueril semplicità si dà a credere che gli horti d’ monasteri produccono dolcezze e soavità.
E pure ne’ nostri giardini non è abondanza d’altro che di spine, di tribulationi et infelicità!
Alle più provette promettono alettamento di gioco, disoblighi da lavori e lautezza de cibij. Alle giovanne più matture promettono gran libertà, ma per l’ingresso predican loro vaghezze de’ abitationi, comodi d’ stanze e mense laute. Cose che poi altro non han di vero che la sola impresion fatta dalla falsa rellatione di quelle vecchie, le quali preferiscono le promesse de’ mentitori congionti e l’entrate d’una ben misera dotte al precipitio d’un’anima redenta dal preciosissimo Sangue di Christo et alla passion di mente e continuo tormento che consegue all’infelice, non coperte d’habiti religiosi, ma legate d’indissolubili catene.
Tali sono gli inganni tessuti da questi tiranni, avari di poco danaro, ma prodighi dell’altrui libertà, quali, in vecce di prudenti discorsi, dovrianno far spiegare alle destinate da loro ai chiostri le convenienze del loro debito e farle insegnar quelle virtù che doverebbero risciedere in una vera religiosa. Ma incontra posto, per allettarle, somministrano loro un orgolioso vento di superbia con dire: «Infelice colei che oserà di proferirsi contro una sola parola! Tua zia ti sarà più che madre...».
Invecce d’intimar loro un rigoroso silentio, le asseriscono che potranno gracciare a suo talento. Nan mancano provissioni di balli, canti, suoni, mascherate e colationi. E più tosto che obligar la loro memoria alle meditationi sopra le vitte de’ santi, i bagordi e feste da celebrarsi nella sollenità di San Giovanni e San Martino si raccordano come precetti irrefragabili. Dove che le semplicette, quando sperano di trovar un teatro di delitie, s’accorgano d’esser entrate in una cloaca d’immonditie et incomodità, non meno per la corporale che per la spiritual vitta.
O Dio, con quanta raggione ponno le misere inganate parlando con Sua Divina Maestà proferir quelle parole: «Naraverunt michi iniqui fabulationes, sed non lex tua»!
Le contention poi, che succedono fra gli agrafi padri delle malnate e le monache, sono inenarabili: rasembrano due cani arrabbiati di fame che combattono del cibo. L’uno tien ben ristretta la borsa, acciò nela celebracion de’ funerali della figlia, ch’ei brama di sepillire, né pur un sol danaro malamente si spenda. Le altre, ingenue, buona parte di loro vogliono s’aggiustarsi della dotte, ma però con avantaggio de’ parenti che, essendo tirani, in ogni conto vanno sminuendo il tutto, con eccesso che esse, per non perder anche il poco a la lor gratia, inssieme s’acchettano e riccevono ne’ loro congressi quelle tali che, se non son ben provedute di simulata adulatione per coprir i mondani pensieri che le tormentano, ponno prepararsi per esser getate in un’ardente fornace.
Ma questa non è una fornacce di Babilonia come quella di tre fanciulli, nella quale, benedicendo Iddio e protette dallo scudo della fede, accada di pottersi liberare da tante lingue infocate che, con fiamme di dettrattione e rimproveri, abbrucciano la repputatione e buona fama dell’innocente, ma involontaria religiosa! Ben ne parlava per esperienza il santo profetta che, offeso da lingue serpentine a queste non dessimili, conosceva quanto sia vero che non si trova riparo contro una mordace favella: «Quid detur tibi aut quid apponatur tibi ad linguam dolosam?». Dall’offesi di sì taglienti et infestanti rasori, tutta l’innocenza et integrità di Cristo non bastò a schermirsi!
Hora io qui non entro nelle colpe con che queste maschare religiose, fatte non da Dio ma da Diavoli humanati, aggravano l’altrui candore. Non discorro delle parole moteggiatrici nel definito affetto con che procuran di penetrare ne gli altrui occulti pensieri, non solo per nutrire la loro mente curiosa, ma anche per insidiar a suo tempo, già che è troppo coperta l’anima; anzi, operationi così vili sono imperscrutabili ad un animo sinciero. Gli anni, i lustri e i secoli intieri, queste astutte e malvaggie doppiezze, causate dalla sfacciataggine maschile, stanno nascoste all’ingenuità di chi vive con leggi natturali d’un genio purissimo et ignorante di quel’arte inhumana insegniata da Tiberio e che sarebbe neccessaria in queste diaboliche scole inventate da gli huomeni: «Qui nescit fingere, nescit vivere»!
Infelice colei che in cottesti luoghi effettivamente pronuncia con sincierità il suo sentimento! Chi non desimula, vien sempre traffitta da accutissime punture e la maggior parte di queste Sfingi sono di quelle de’ quali parlando Geremia disse: «In ore suo pacem cum amico loquitur et occulte ponit ei insidias».
Viene dal’avaritia degli huomeni consignata alle voracci fiame di quest’abisso di cui parlo, tall’una che non eccede l’anno nono di sua età onde non è poi maraviglia se, mentre così tenera e pura, resti ingannata e tradita e, per così dire, rimanga infelicemente legata dormendo. L’inobediente Giona per non adempire gli auspici divini, fattosi salva d’una nave, prucurava di fuggir l’essecutione de’ celesti comandi, quando il mar irritato, cangiata la calma in orrida tempesta e sollevato il piano dell’acque in altissimi monti d’onde superbe, mostrava voler vendicar lo sprezzo di quel profetta contro i precetti di Dio; i nocchieri, sopra presi da la grave e teribile tempesta, intesero, per oracolo celeste, che per assicurarsi era neccessario gettar nel mare il povero fugitivo che se ne stava dormendo nella più rettirata parte della nave: «Jonas descendit ad interiora navis et dormiebat sopore gravi»; non ostante che ci fosse a costoro ignotto peregrino, lo svegliorono et esposero ciò che per la comun salute era neccessario che essi operassero: non volsero all’improviso empiamente sepelirlo nell’onde, pottendo farlo, ma con amica pietade prima l’avisorno acciò quanto più improviso, tanto più tormentoso non gli risultasse il percepitio; fu ingoiato dall’imensa balena nel cui ventre pianse l’errore: ne ottenne il perdono. Quel’istesso mostro, che pareva diventato suo sepulcro, il condusse sano e salvo al porto et in quel loco assignatoli da Dio per la predicatione. Così trattorono rozzi e villani naviganti con un passaggiero incognito e vile, ma non così trattano i crudeli padri con loro innocentissime figliole! Non le destan prima di sepelirle fra gli orrori d’un tempestoso mare, anzi fra l’onde di una stigia pallude d’un monasterio - che tali mettamorfosi fanno le violenze - usano loro con quelle misere, ma più tosto le vanno aplicando soniferi per farle più gravamente addormentare e levar loro la vitta, onde all’improviso, anzi ingresso di quelle porte, non vedono scritto a lugubri carattari:
- «Per me si va nella città dolente,
- per me si va nell’etterno dolore,
- per me si va tra la perduta gente».
Quivi incarcerate non in chiostro santo e religioso, ma nelle viscere de l’interessata balena che non mai le vomita, non arrivano al porto della destinata gloria, ma restan sommerse fra le disperationi cagionatale dai padri sceleratissimi, et in vecce d’immendarsi di quelle poche legerezze comesse nella pueritia, avanzandosi nei maneggi e traffichi del mondo, diventan peggiori e s’incaminano nell’offesa del loro mal volentier accetato Sposo. Prima inganate da’ suoi più cari e poi da sé medessime, stimano giusto e leccito il viver con poca decenza religiosa e non tantosto si destano dal letargo che si ritrovan nel ventre d’un chimerico e sozzo animale e, se ben alle volontarie rasembra tabernacolo del Signore, queste, sul primo aprir degli occhi, spalancano anche la bocca nelle maladitioni contr’alle prime cause de’ suoi etterni danni. Onde, per isfogo di lor ragionevoli passioni, raccontan l’una all’altra le lor disaventure e tall’una, che avrà letto libri poco convenienti a religiosa, raconta alle compagne ciò che l’è capitato sotto a gli occhi. Anzi soviemmi d’haver in tal proposito udito recitar quella stanza del veridico Boiardo:
- «Un’altro sotto nome di severo,
- ma con effetto di avaro e forfante
- metteranne una frotta in monastero
- e vorrà che per forza elle sian sante:
- in cambio di dir salmi et altri canti
- biastemaran padre, madre e Celo e santi».
Ad alcune non ancora generate - o essecrabile crudeltà paterna! - vien da’ genitori assignato il monasterio per habitatione, onde, non così tosto nate, odono intonarsi all’orecchie il nome di monacha anche prima che ’l sappino profferire. Inventione diabolica, tradimento accorto e perfidi inngani che insegniano alle misserelle inocenti e semplici ad esprimer con lingua balbetante quel nome che a suo luogo e tempo è da loro così fervidamente abborrito! Queste, in tal guisa allevate, sempre con speciosi tittoli e vocaboli di religione e di religiose tottalmente dannosi, a credere che Iddio le voglia tali e per tali l’habbia segniate, né s’accorgono che non sono state poste al mondo dissimili dalle maritate, ma che queste sono astutie inventate per inganarle. Così poscia pare che di propria volontà s’inducano a quell’ingresso et elettion di vitta che nel tempo della perfetta cognitione è da loro abborita et odiata in paragon di morte. Ben poi tardi s’avedono che «erraverunt in cogitationibus suis»!
Apunto non disimili da’ danati all’Inferno, quando non è più tempo di pentirsi, si stupiscono di sé medeme ed inquiette e smaniose agiatano fra inremediabili dolori; anzi, pazzamente incapacci che possa darsi una perpetuità di stanza, pare loro che quello che è pur troppo reale verità, sia un sognio dal quale, però, le mall’accorte non mai in etterno si destano.
Alcuna, rimasta sotto la cura de’ frattelli, per liberarsi da’ disgusti che la oprimono e per fugir la fattica di far con esso loro l’officio di vil serva, proferisse un sì sforzato e prende un volontario essiglio dal mondo; ma con che core lo dica Dio che è lo scrutatore dell’amare passioni d’animi così travagliati! Concorrono per necessità, non per volontà, essendone tal’una, ben ché rare, di spiriti vivi e di pensieri sollevati a dar consenso alla funebre sentenza che le condana a star sottoposte alle voglie altrui e fa di mestiero che fingan elettione propria quello che è sforzo dell’altrui tiranica dispositione, la temeraria crudeltà d’huomeni inhumani; e non mancano insino di quelle che vengano chiuse con violenza dalla barbarie de’ loro stessi padri, quali non arrosiscono a servirsi di gridi e di minaccie; e con tutto che le figliole, spinte a forza ne’ chiostri, facciano gagliarda resistenza e si respingano nei seni de’ propri non so s’io dica genitori o carnefici, dalla cui impietà superate con lagrime e lamenti publici e private, restano a lagnarsi e movono Iddio a risentirsi di tal’ingiustitia con i castighi che fulmina nelle case dei malvaggij.
Pur dovriano quelle voci che arrivano al Celo penetrar l’orecchie de’ superiori obligati a sovenir i giustamente offesi, non ché a sollevar gli inocentemente traditi. Ma la diversità de gli interessi è quella che causa tanti disordini nel mondo!
Si fingano questi tali per massima che i figlioli sian tenuti a star sotto posti in ogni affare all’obidienza de’ padri. Inganevoli et inganati che sono! «Mentita est iniquitas eorum».
Devono obedirsi i genitori nelle cose lecite e giuste e non nell’irragionevoli; oltre che nell’operationi nostre spettante al movimento interno della volontà, non è tenuta la creatura obedire ad altri che al suo Creatore. E così il padre non deve e non può maritar quella figlia che vol esser vergine; né essa è tenuta adderir alla di lui determinatione e sforzo, sì come non può violentarla a monacarsi senza il concorso della di lei libera voluntà. Il prencipe non ha pottenza così superiore che possa far violenza all’interna elettione di quel gran filosofo: «errat» dice «si quis existimat servitutem in totum hominem discendere; pars nam melior exempta est, corpora obvia sunt et adescritta dominis, mens est sui iuris». E costoro, infelici d’anima e di corpo, ancora prettendono, per alimentar la loro ambitione, per Ragion di stato et honore mondano, di poter legitimamente tormentar in perpetua carcere l’innocenza delle lor figlie. Non punto pensano - sceleratti! - quanto siano veri i sentimenti spiegati dal poeta Terenzio in questi versi:
- «Che non è cosa per facil che sia
- che difficile molto non riesca
- se farla contro voglia l’hom s’invia».
Non può già l’humana mente immaginarsi maggior sceleragine di quella che comettono questi padri, che fan quasi l’offitio di Caronto nel traghettar le lor figlie a quelle rive oscure alle quale può ragionelvomente darsi titolo d’Inferno per le serate monache, poi ché vien dinegato lo sperarne mai più l’uscita. Se l’Evangelio dice che «In Inferno nulla est redentio» et che «Ibi erit fletus et stridor dentium» queste son conditioni che rendono poco dissimile il monastero dagli abbissi infernali. Non mai può sperarsene la liberatione e ’l fonte dell’amarissime lacrime dell’infelici è tanto abbondante che dà sembiante di stanza de’ danati a quel loco ove sono miseramente condenate. Sì come chiaramente dallo Spirito Santo il monastero le riesce Paradiso, la cella un Celo, ivi non manca lo stridor de’ denti nelle mormorationi e risse che fra loro occorrano, oltre all’impreccationi contro ai congiunti che cagionorono, contro superiori che permissero e sino contro gli istessi elementi che senz’alterarsi furono presenti a così execrando sagrilegio. In vedendosi legate in doppi lacci di rigori e dal foro ecclesiastico e dal laico, a guisa di furibonde fere rattenute da nodi indissolubili si van disperatamente ravolgendo et affanando fra quei muri senza rittrare altro frutto che d’un tormentosissimo cordoglio. Ponno ben ragionevolmente rivolte a Dio gridare: «Libera me quia egenus et pauper sum et cor meum conturbatum est intra me», ma non giovano queste voci! In quel giorno funesto che nascano forzatamente alla religione e moiono a quei mondani piaceri che non hanno mai assagiati, si volgono mille e mille volte indietro a remirar le paterne case, hora a queste, hor’a quell’altra parte rivolgendosi. Contorcendosi dano con gli interni movimenti a conoscer l’inquietudine che internamente l’affligie.
Misere sventurate, non venute per altro alla luce del mondo che per star sempre, ancorché innocenti, fra le prigioni!
Al secolo sono state, a guisa di tante Danae, ricchiuse nelle stanze dove altri non puote vederle che, come si suol dire, l’occhio del Sole; e poscia passan ad una carcere più penosa, onde si van rivolgendo indietro, per ché stimerebbero bona fortuna che avvenisse loro come alla moglie di Lot il trasformarsi in una statua di sale, ma per ché non sono uditi i lor giusti lamenti vanno meste, a guisa di condenate al supplitio preparato loro da chi meno il dovrebbe, cioè da’ suoi parenti più cari. Entrano finalmente in quella porta che apre le strade per trapassar al Celo ed all’Inferno, le quali, acciò i fideli defonti non le calchino giornalmente, serra.
Iivi dentro sospinte dall’avaritia de’ padri, la trovano anche ne’ chiostri - in quelle monache, però, che son forzate anch’esse -, accompagnata dall’interesse, da cui non mai va disgiunta, sì che bisognia che se armino come la bella Psiche, se vogliono essere introdotte nella casa della - da lor abominata - religione, fa de’ bisognio che portino i danari in bocca, cioè la dotte, per pagar la nave che le riceve, che è il monastero; habbino pur provedutte le mani di foccacie melate per pascere i mostri trifauci d’abisso, per ché, se vanno scompagnate da presenti, provano i morsi di qualche cagnia interesata come gl’huomeni che han più faccie che Argo non haveva occhi. Ben possono nel mestissimo ingiegno con energia appassionata e con canto lugubre e mortale dolorosamente dire: «Circundederunt me carnes multi concilio malviantium ossedit me», poi ché quivi incontrano mille disprezzi et, all’interessate inventioni de’ parenti e congionti, son seguacci le derisioni e mottegiamenti contro quelle sfortunate, per ché, coperte anche della veste dell’innocenza, non s’accorgano a qual vitta infelice trapassano!
Sento quivi da alcuno con tacito rimprovero contradirmi dicendo: «Con quanta instabilità, anzi contrarietà, costei discorre! Nella Tirania Patterna con lodi eccesive esaltò il sesso donesco et hora di quando in quando va biasmando le monache che pur son donne...».
Io nol niego, ma né anche si puotte negar che la tirania de gli huomeni sia così aspra a soffrirsi da quelle che a viva forza restano chiuse ne’ monasterij proprij che, di begnine, tacite e care che erano per lor natura, a torto irritate et offese, non divengono sdegnose et inviperite e perdano le natturali e proprie qualità, essendo lor dinegato l’operare secondo la general inclinatione.
Elle son degne di scusa, ma indegni ne sette voi, come causa prencipale de’ loro eccessi!
Non interompiamo però il determinato discorso, ma seguitiamo l’incominciato camino. Mi soviene che in legendo un autore di stima grande trovai che egli con una gentil comparatione assimiglia il mondo ad una scena i cui istrioni sono i mortali et io non voglio partirmi dalla costui veracce oppinione, conoscendo che pur troppo tutte l’humane attioni altro non sono che rapresentationi che, per lo più, finiscono in una misserabile catastrofe. Nelle scene comiche il tutto è finto, sono finti i palazzi, finte le compagnie e finti i personaggi, né in loro ci ha di verità che un’inganevole sembianza. Il mondo pure è una scena piena d’inganni, ma li chiostri e l’habbitanti in essi, per le maligne prettensioni de gli huomeni che si fan lecito riempirli di donne tradite più d’ogni altra parte del’universo, rappresentano un teatro in cui si reccitan funestissime tragiedie poi ché il fine di molte dell’imprigionate è il perdere forsi l’anima che è di prezzo tale che non trova equivalente da pareggiarselle, mentre ha meritato d’esser comprata col tesoro immenso del Sangue di Cristo. In queste scene ogni cosa è finto e il tutto è apparente e non reale per le forzate monache. Intendete: altro non v’ha che cerimonie externee. L’obidienza è solo imaginaria e per una certa imitatione dell’esser citata da’ santi che formoron le vere regole, le quali paiono osservate, ben ché siano distanti da’ conventuali, per ché ogni una di tali religiose vive a sua voglia con scandolo delle buone. Il silentio v’è sol dipinto o scritto per elle ne’ cori, reffettori e dormitori. Quivi ne’ loro trattari non mancano niuna dimostratione apparente per fingere l’imittatione del fondatore, ma tutto è vanità, prospettiva ed ombra che ingannna l’occhio di chi mira la scorza, senza penetrar il midollo, per ché, s’effettuano forzatamente in qualche cosa la regola per non potter far di meno, non vi concorre la volontà.
Vediamo un poco con che arte e maniera la nova comica monucha forzatta vien introdotta nella tragiedia della religione sotto nome di sora: prima che se li recida la chioma e che le se proferisca formidabil sentenza di non uscir mai più dall’etternità d’un intricato laberinto, succedono contrasti e discordie circa la dotte che se le deve consignare; si discorre della spesa in travestirla di lana et effettuar i soliti riti e cerimonie necessarie. Quei genitori che, nel maritar una figlia - sirocchia dell’insidiata e mal condotta - non hebbero riguardo a verun dispendio, in aggiunta d’una dotte esorbitante di multiplicar decine di migliaia di scudi, scialaquano in ogni occorenza per fare che la novella sposa pompeggi fra gl’ori e fra le gemme. Non v’è artefice o mercadante che non si veda porre in iscompiglio le drapperie più fine dalla costoro ardenza et aggravarsi l’arche della lor professione. Le sete ed i colori per contessere le vesti sono chiamati dalla Siria e da Melibeo. Il veluto, la felpa che non è d’opera più che humana è stimato indegno di coprir quelle membra che pur sono uscite da quel medemo ventre di dove naque l’altra sfortunata che, al suo dispetto coperta d’una veste lugubre e semplice ed accompagnata da novecento a mile e dugento - secondo l’uso de’ luoghi misserabili - ducati, o ver cento alle più ricche, con cinquanta di provissione all’anno per alimento, sente rimproverarsi dal genitore e parenti l’eccessiva e soverchia spesa. Nel riscuottere per questa povera annual provisione, l’abbandonate stillano sudori di sangue per ché, oltre l’esser trascurato il tempo, viene stentatamente in più volte sborsata. E tall’una, che spera e confida in qualche monacha conoscente, resta da lei, per interesse publico del monastero, defraudata del suo particolar soccorso; e pur quella stessa, che mal tratta questa in simili affari, oppera diversamente per benefficio di quelle che a lei sono di sangue congionte.
O miserie, o tormenti veramente d’Inferno per quelle infelici che, senza niun altra provissione che quella poca dote, povere nelle ricchezze de’ travagli, vien a forza sigilate ne’ chiostri!
Una poca veste di lana, bianca o nero tinta in bruno, vien lor consignata da’ crudi genitori appunto per ché sia proporcionata a coprirsi di bruno in quell’ultimo oscuro giorno in che restano sepelite in un convento. Né di ciò contenta la tirania di costoro, mormoran de’ santi per ché ne gli ordeni sotto posti alle lor regole non determinorono che le religiosse dovessero esser vestite di peli di camelli, come usavano gli antichi eremitani. Se dalla costoro scelerata volontà s’havesse liberamente a dipendere, stimarebbero bene che le frondi dell’alboro che coprirno i nostri primi padri, per non ispendere un sol denaro, servissero di vestiti alle monache o che, a guisa di Sant’Honofrio, non si coprisero d’altro velo che de’ peli dati loro dalla nattura o, come la bella discepola amante, che non portassero altro manto che i proprij capelli - quando non havessero trovata inventione di troncarglierli dalla testa in contrasegnio della perpetua schiavitudine alla quale le condannano. E pur anche sospirano prima di risolversi a queste mecchaniche spese!
Così, aggiustate le determinationi, le monache, chiamate dall’abadessa e dalla campanella, si riducono in un capitolo, più per conformarsi al solito del’uso che per immitatione di quel Santo Pastore che unisce la greggia da lui teneramente amata e di cui ella è ministra. Quivi si propone la fanciulla che deve monacharsi e, per sodisfar agli impii parenti, prima d’ogni altra cosa si espongono i bisogni del monastero, prima di ’l discorrer de’ diffetti e dell’inclinatione della giovanne et essaminare i di lei mancamenti e s’ella sia per riuscire con profitto nella vitta religiosa, come vogliono i fondatori delle vere regole. Alla fine vien ballottata da tutte con parole, acclamata et accettata dalle monache nel loro ordine, post posto il zelo della religione e lo scopo della salute di quell’anima che pur dovrebbe anteporsi ad ogni altra cosa. Non s’ha riguardo al pianto di taluna che con le lagrime dà segno d’entrar involontariamente in quel numero. L’applicatione di tali congregatione, fatte claustrale degli interessi humani, non s’estende a considerare il genio baldanzoso e la nascita vile di qualch’altra di queste tali, non compatisce alla semplicità di quelle che, tenerelle d’ettà, non han cognitione bastevole per ellegersi più una vitta che un’altra; anzi, s’affrettano a imbavararle prima che s’accorgano d’essere imprigionate.
O che inganno!
E pur queste haverebbero bisognio d’andar trasferendo di giorno in giorno le determinationi del lor consenso, come facceva Simonide, interogato quale e che cosa fosse Dio, che ciò ad esse con vantaggio sopra di lui accaderebbe, per ché egli più s’aplicava meno intendeva, e queste con l’applicatione verrebbero a sapere qual fosse lo stato monacale nel quale cecamente vanno ad inviluparsi. Se una di queste sfortunate mostra d’assentire col consenso al farsi religiosa è un’voce proferita dalla bocca, ma l’intelletto non anche matturo copera con la parte elettiva alla determinatione onde, in un medemo tempo, ella inganna se stessa e li superiori e quello che più importa, in un certo modo, lo stesso Dio, senza sua colpa. Pitagora era solito all’apparir del sole in Oriente di pregar i dei che gli concedessero la cognitione del suo proprio genio et ad una tenera giovinetta sul nascente giorno dell’ettà sua vien tolto il pregar il Dio de’ Dei per ché le indrizzi il talento alla cognitione della propria abbilità et inclinatione, ma si vole che operi conforme non al proprio ma all’altrui ingiustissimo genio, e che, senza lume di ragione, si ponga a caminar per le strade di Dio che da San Paulo, tromba dell’Spirito Santo, furono giudicate investigabili: «Quam incomprensibilia sunt iudicia Eius et investigabiles vias Eius!».
Ben proveranno nel giorno dell’Universal Giuditio i prelati e deputati ad assistere a tali funtioni - se non le convenisse meglio titolo di fintioni - i tormentosi rimproveri della loro consienza circa questi particolari! Alhora molti havrano da pentirsi d’haver in questo modo chiusi gl’occhi sopra questi interessi per la sola Raggion di stato, ch’è una scena inganatrice che adormenta gli occhi de’ più savij, un’ombra infernale, una contrafatta chimera del Diavolo, un mostro nemico, anzi destruttore delle buone e sante operationi, un’infamissima magia machinata dall’ambitione che riempie gli oridi sepolchri de’ chiostri di misere ed innocenti donne!
Ma torniamo alla tradita fanciulla che, già accettata fra le monache, per altrui violenza non per propria volontà, si spoglia d’ogni adornamento, entra in angusta e povera tonicella, s’addatta al fianco rozza centura di cuoio e con la scufia in testa - che all’uso di questa patria nell’altre donne è un lugubre contrasegnio della morte da’ cari mariti - dà prencipio a’ suoi infausti imenei, si copre di quella veste che vien deta il primo habito. Ciò essequito, eccola sotto posta all’obedienza che ad esse riescono di maggior carica di quella che s’impone al dorso de’ dromedarij. Ogn’una, sia di stirpe o volgar o nobile, è posta ai più vili esercitij et alle più imonde funtioni.
Ah che se fosse lor proprio moto et elettione pottrebbero anche esse lietamente cantare con quel’angiolette del Paradiso monachale:
- «Tanto è ’l bene che aspetto
- che ogni pena in diletto».
Sariano pur dolci et amabili le fattiche e, fra gli essercitij d’una santa umiltà, che non mai abastanza è lodata, provarebbero gusti e consolationi di Celo; ma, astrette dalla tirannia e superbia de’ padri e parenti ad operare contro la lor volontà, ben si può considerare da chi ha intelletto s’elle possano esser capacci di quel merito conceduto solo a chi travaglia e volontaria patisce.
E poi vi persuadete, o genitori, d’haver da schivar i giusti fulmini etterni mentr’usate tanta crudeltà contro le vostre figliole e sete, senz’alcun loco o merito e demerito, fra di loro partiali?!
Volete che una viva fra gli agi e pompe del mondo e che l’altre stiano miseramente chiuse fra mille stenti et infelicità?!
Con che core credete voi che tal’una di queste veda l’altra sorella che, destinata a sposo carnale, pompeggia nelle delitie e trionfa, per così dire, tra mille lussi e grandezze?!
Questa, non tantosto chiuso il mattrimonio e sparsene la fama, depone ogni semplicità d’habito e s’adorna d’ogni vanità; non si tralascia foggia moderna per rinfrascarla; il crine si sbiondeggia, s’innanella; gli ori, le gemme son chiamati ad arricchire la costei belezza e se la consegna insino un maestro perito che l’insegni i modi del carrolare, acciò in lei né anche i moti siano senz’arte per attrahere a suo tempo gl’occhi e l’anima de’ riguardanti. L’altra infelice, priva della chioma donatale dalla nattura, fra quatro cenci di povera lana, vien venduta per ischiava senza sperar di mai più liberarsi. Quella, ne’ guardi brillanti e lascivi, dà segno dell’alegrezza del core. Questa, con lacrime a forza rittenute, non solo racchiude in seno l’amarezze, ma imprime nell’animo di chi la mira la mestitia. Quella esce di soggettione. Questa entra in prigione. Se per sorte tal un padre di poca levattura cava di monastero l’afflitta, sotto nome di condurla a’ solazzi, e lascia che ella veda i tripudij e bagordi del mondo, come molti fanno, ad altro ciò non le riesce se non a contristarla per vedersene private e le cose vedute le restano impresse nella memoria per un etterno tormento et apunto divengano i Tantali dell’Inferno monachale, mentre hanno presenti l’acque senza potterne gustare una minima stilla, onde restano maggiormente accese di quella sete che l’affligie per tutta la loro vitta. Ad altre poi, che non mai escano di casa, con prettesto che non sij decente a figlia honorata andar vagando, vengono date ad intendere mille bugie: si fa lor credere che le pietre volino, che poca differenza sia fra un horto piccolo et una gran villa, che tutte le cose, senza veruna diferenza, siano simili una all’altra e che insomma tutto il mondo sia ristretto nella similitudine di quelle poche che elle vedono; e se pur le fanno capitare in qualche chiesa, studiando che siano quell’hore nelle quali da verun son frequentate. Et infine con queste meschine non si tratta se non con inganni e frodi di modo che, o nell’un o nell’altra maniera, sono sempre tradite e mal trattate dagli empi padrij, che in tal occorenza prucuran d’essercitar con ogni pottere il lor avaro talento, e tutto ciò che in tutta la vitta hanno imparato d’economico e d’arte di rispiarmo vien da loro effetuato nel vestir d’habbito religioso le figliole.
Le madri, anche esse per compiacer al marito, concorrono con ogni studio e sforzo in stiracchiare le spese e pesano il tutto alla sottile sopra la statera dell’ingiustitia per potter poscia più prodigamente scialaquar il benefficio delle destinate a nozze mondane.
Non si trova già legge per la quale habbiano più ragionevoli pretensioni le maritate che le monacate sopra le case de’ loro parenti, essendo e l’un e l’altra legittime, né ponno arogarsi più quelle che queste; ma l’ingiusta partialità de’ genitori determina a suo piacere contro ogni raggione: la di costoro malvagità è tale e tanta che genera meraviglia e compassione in chi la considera. Si può sentire più partiale e sproporcionato affetto mentre che ’l merito, le ragioni e prettensioni sono eguali et indiferenti nelle figliole?!
Si trova talhora in qualche una di queste diaboliche habitationi quatro o cinque femine tutte generate d’un istesso seme - per quanto appare - e partorite da un solo ventre, cadauna delle quali sarà vogliosa di goder i lumi di questo celo e niuna di loro può disponer del suo volere e libero arbitrio per ché è forzata a dipendere del suo volere dalle paterne e interessate determinationi. I padri e frattelli, che sono giudici ingiusti, parte per non scaricar gli scrigni di tesoro e privar di comodi superflui le case loro, trattane una sola, condanano tutte le altre al perpettuo laberinto d’un chiostro; et altri le sepeliscono tutte e per prolongar quanto più sia possibile il privarsi dell’amate ricchezze, vogliono che l’ultima uscita alla luce resti al goderla, non havendo risguardo ai privilegij della primogenitura che, sino nel Testamento Vecchio vien dicchiarata per meritevole di qualche vantagiosa conditione. Esaù che, astretto dalla fame, vendè al frattello la primogenitura per una scudella di lente meritò dall’Appostolo nome di profano quando, scrivendo agli Ebrei, disse: «Aut profanus ut Esaù, qui propter unam escam vendidit primituia sua». Segno questo espresso che è molto degna d’essere stimata la conditione. Questa fu la cagione per la quale, nel parto di Tamar, la levatrice legò con un fil roso il braccio di Zaran, per ché fosse conosciuta la di costui superiorità sopra l’altro frattello. Non mi mancarebbero altre prove per dinotare che i primi nati devensi tener in pregio sopra gli altri, ma ad altro fine si gira la mia penna et a me basta ciò: l’haver tocato così di passaggio per accenar l’humane barbarie di questi tirani che io descrivo e la, pur troppo contra suo costume stabile, ma iniqua fortuna dell’imprigionate dal costoro inganno, che non instabile, varia e diversa, come da’ poeti vien descritta, ma costante e perpetua riesce a queste la sorte, essendo il loro stato impermutabile a qual si voglia accento, sì come stimo che chi la descrisse ciecca e sorda a gli altrui preghi ragionasse della fortuna delle sore inganate, alle cui esclamationi non mai si rende mutabile. Non mai doppo le nubi attendon serenità: varian pur le stagioni e gli anni le loro vicende!
Da ciò a lor nascano mille pensieri di disperationi e, s’elle mancassero a farsi schermo con la prudenza, impazziriano. Di loro si può ben dire:
- «Felici quei che son così prudenti
- che san col tempo accomodar la vitta».
Immaginati qual torbidi pensieri stiano confusi in quei cori c’han veduto giudicarsi con tanta ingiustitia! Vedono la sorella, a lor infima d’età e sovente di merito, nottar in un mar di piacere e gusti e la scuoprano dovitiosa di comodi e di tutto ciò di buono che può e sa dare il mondo ed indi rivolgono la consideratione a se stesse e si vedono trattate con tanta differenza, sepolte prima d’esser morte, ricche di dissaggi ed astrette a servire a pare e pattire.
Non è lingua o penna bastevole a narar l’interne passioni che agittano il lor animo! Diccono con Geremia: «Quis salit capitiones aquam et oculis meis fontem lacrimarum?».
I padri e congionti, doppo haverle trattate peggio che da serve, proseguono in affligerle sentendo ancora gli agiustamenti della dotte, prucurando di restringer le spese di vestimenti, banchetti e musiche neccessarie; e le madri coprono a queste durezze per tema del marito, il quale vole vantaggiare et avanzare in pro’ della priviligiata da maritarsi. Scielgono le più grosse e ruvide tele per le camise delle sventurate che sovvente non riescono di bastevole longhezza e le maniche sono a tal’una diverse dal rimanente, per potter poscia con prodiga mano adoprarsi che le prime spoglie destinate al maritaggio siano di finissimi bissi d’Olanda, adornate di punti in aria e guarnite de’ più ingeniosi lavori che mandi la Fiandra a questi nostri lidi: due sole di queste pottriano stare di prezo in equilibrio a tutti i mobili et altre cose della monacata!
Il vestito delle più infime parti non che altro è ricco di ricami a cui sucedono legami pomposi d’oro che stringono alla gamba il superbo e serico cotturno, la superba e gentilissima calzetta, che più e più vagliono intieri tesori le pianelle, guanti, fiocchi, stringhe della destinata a sposo tereno. Le più preciose perle dell’Oriente son chiamate ad adornarle il collo; i grossi e lucidi diamanti fioriscono in forma di rosa per cingerle le dita; gl’ori sottilmente lavorati da industre mano le pendano dall’orecchie e non v’è lusso, delitia o dispendio superfluo che non concorra alle di costei stisfationi o grandeze; si vegono su le mense cibi poco inferiori a gli apprestati nelle cene di Cleopatra. Ma per il contrario la condenata alla tomba d’un chiostro è necessitata a coprirsi la gamba di rozza rassa et adatarsi al piedi un zoccolo di legnio mal vestito di cuoio e cingersi al collo un bavaro così nemico della ricchezza che la priva d’tesori donatoli dalla nattura; esercita le mani intorno esercitij vili et imonde schifezze, è bisogniosa insino d’un infelice ago, o spila e, fra poveri cenci, va mendicando insino il suo proprio valere per valersene, ma essendole anegato o prolongato il dargliele, resta a penare fra’ suoi dissaggi.
O qual parcialità ingiustissima! Ben si può dir a questi tali padri e parenti: «O pleni omni dolo et omni falaccia! Filij diaboli! Inimici omnis iustitiae!»
Quanto però son scarsi i tenacci nel’esborso di ciò che hanno promesso, sono altretanto prodighi di promesse per condur l’infelici all’ingresso di quella porta dalla quale mai più si concede loro l’uscita:
- «Lor promesse di fe’ come son vote!»
«Omnis homo mendax» sono tutti gli homeni mendaci in ogni occorenza, ma quando si tratta di assasinare una di queste misere son più di mai bugiardi e mentitori. Promettono fornimenti di cella magnifici e sontuosi, tutto ciò che han di bello e gentile in casa le dicono: «Sarà tutto tuo».
Poi si riducono a due casse delle più tarlate, apportando per iscusa che non è dovere lo sfornir le camere, ma che poscia ne faran fabricare ad eccelenti maestri. E così d’ogn’altra cosa avviene, ma tutte le loro speranze finiscono nel rimaner elle tradite dalle bugie di costoro, quali, non contenti di tanta crudeltà, irridono anche l’infilicità di quelle mal condotte.
Almeno questi perfidi non nutrissero con falaci promesse la loro aspettatione e si raccordassero che Plutarco dice che ’l mentir è vitio abominevole, servile, indegno di perdono e che merita esser da tutti odiato! L’Eccelentissimo dice «Noli amare mendacium», diede precetto che «Pacta semper et promissa servanda sunt, quia nec vi nec dolo male facta sunt».
Ma non è meraviglia che così poco stimino il vitio dell’inganare coloro che sono l’idea d’ogni impietà!
Preparano per lettiera quatro pezzi d’alboro più in forma di cattaleto che d’altro, a colei che vogliono sepilir viva; si sospira sino il nolo di quella gioia che serve a dar contrasegno all’infelice che ella va nella sepoltura e gli avari maladetti làgnarsi di quel poco danaro per ché studian tutti i vantaggi che si ponno imparar nelle scuole d’una sordida tenacità. Se le destina il più duro e rozzo letto di casa con ogni concernenza più vile, dicendo che a religiosa sposa di Cristo non son decenti gli agi superflui o adobamenti vani; ma poscia, con questi scrupoli inoportuni e diabolici, non havranno riguardo, in altra occorenza, d’usurparsi i beni della Chiesa. Sono simili a Dionigio che, fingendo di far stima del’honor del dio Esculapio, gli levò la barba d’oro con dire simulatamente che era vergognioso che ’l padre Apolo fosse sbarbato e che egli, che era il figliolo, paresse vecchio. Così questi hipocriti posseduti dal Diavolo mostrano zelo del culto di Dio e concorrono a prucurare che nella religione sia usata una parsimonia estrema, non volendo accorgersi che la povertà deve esser abbracciata dalle religiose volontarie, non dalle violentati dalla loro tiranide.
Ah che non sono partiali della santità et osservanza della religione!
E i loro fini non sono giusti per ché, se fossero tali, saprebbero anche che non è lecito ai mondani l’ussar lusi superbi e più de’ povere pomposi; e così per la figliola o sorella maritata non si prepararebbero lettiera di finissimo argento, coperte di trabacche cariche d’oro, si lascariano le tapezzarie soverchiamente industriose con tant’altr’superfluità di gentilezze, odori, giardini, gondole, livree, musiche, comedie e mille sensualità quasi oscene che s’inventano per appagare e sattolare ogni brama e sentimento di colei che è destinata alle lascivie; e se ben poi sovente, per flagello di Dio, questi piacceri e grandezze finiscono in breve spatio di giorni, non è per questo che dal partialissimo padre non siano procurate ad ogni pottere per lunghezza di tempo alla troppo amata figliola. Quando si tratta di maritar una di queste tali, non si tralascia diligenza in cercare se vi sono suocera, cugnata o altre che possano impedirle l’assoluta patronanza: la bramano sola acciò sia signora del tutto e non habbia di che contendere con altre donne pretendenti. Alla monacha, in contraposto, è necessario il sotto porsi con giuramento inviolabile al’obidienza e vien posta fra moltitudine di gente d’ogni conditione. Quella entra in una casa per dominatrice ad essercitar il comando sopra molte serve e diventa patrona degli haveri del consorte. Questa s’imprigiona in un monastero per esser comandata senza haver pur ardimento di replicar una sola parola. E Dio sa con che maniere e con che amore vien retta et alimentata!
Si studia con ogni aplicatione per ché quella vada a goder fra le ricchezze e si desia per genero un Mida, ma alla misera religiosa vien assegniata la Povertà per compagna indivisibile e per sicuro mezzo della sua salute, non havendo riguardo che la necessità è la più grave sciagura di tutti gl’infortunij del mondo: scaccia l’allegrezza e ’l riposo, fuga le virtù, cagiona che si trascuri l’honore ed è l’ultimo esterminio di ogni filicità e quiete. E pur gli scelerati gli fan far solenne voto, nella Chiesa di Dio, su pietra sacra, nelle mani d’un sacerdote, di perpetua povertà - abuso che cagiona infinità di mali e precipitij!
All’eletta ai piaceri del mondo si procura per isposo un giovanne amoroso, gentile, che, se non l’è di continuo a lato e non dà segni d’esser di lei ardentamente inamorato - ben ché ella fosse di conditioni odiose et una Gabrina di brutezza e vecchiezza -, si comincia a dubitare della posterità, a piangerla come malamente maritata od anche tal’hora s’arriva a trattare del divortio.
Quasi che tutta l’humana felicità di costei consista in quella sensualità di che privi l’altra, alla quale fai imporre severissime leggi di castità e vitta purissima sotto gravissime pene, di modo che l’è vietato il mirar sino la faccia dell’istesso virille e traditore! Anz’ella, per sottrarsi da così insipido e ristretto modo di vivere, stimarebbe fortuna il star ritirata nella propria casa, l’haver un eunucco per marito e riputarebbe a gratia singolare un poco di libertà, una sola serva, vitto e vestito, senza haver da sospirarlo e guadagniarselo con le proprie mani e lavorando, come al più delle monache avviene.
Io qui vorrei havere una voce che, a guisa di sonora tromba, rimbombasse in tutte l’orecchie di que’ felloni che, concorendo alla ruina di tante anime, può dirsi che mortalissimamente offendono Dio; ma non son proveduta d’inteletto bastevolmente svegliato e la penna è guidata dal mio solo chiribizzo senz’immaginabil lume di lettere né cognitione di scrivere... Rittorniamo perciò un passo adietro sul’incominciato viaggio: arrivato quel’infausto deputato giorno, l’innocente fanciulla, persuadendosi che, tal quale ella è di animo ingenuo e sincero, siano anche gli altri, prestando fede alle promesse de’ menzognieri parenti per ché ha inteso che:
- «Verba ligant homines, taurorum cornua a funes»,
si lascia, qual innocente agnelletto, condur al macello, né accorgendosi che «Aranearum tela, fiduccia Eius», fa quella funebre e irretratabile entrata e rinuncia affatto ad ogni passatempo, ben ché lecito. In questi primi ingressi, le semplici vergini sono accettate con faccia begnigna e ridente solo per interesse per la dote. Se qualche volta bramano ritrarre il piedi dalla soglia di quel’angoscioso Inferno per loro, si lagniano sino per invocar la morte che le libera, la trovano sorda; anzi, per maggior pena, vien loro prolongata la vitta, quando la maggior parte delle monache vive sino all’età decrepita per ché, nella longhezza, quelle che vi sono contro lor voglia, provino più grave il tormento, se però non vogliamo dire che la morte trascuri di rapirle; come quelle che, morendo ad ogni momento, ponno di continuo con verità dire:
- «Cotal pena è la mia, che morte aguaglia»
oltre che per gl’habiti e per la tristezza, paiano già morte, onde la Parca, tali credendole, allonga più del ragionevole il lor vivere. Di più, il vitto parco, il non muttar aria e l’esercitio continovo nell’obedienze rittarda loro la bramata e mille volte implorata morte.
Ma qui è di necessità, o lettore, che io t’aviso che ciò che sino ad hora ho discorso è uno scherzo in pareggio di quella tragedia che hora sono per dimostrarti su la scena di questi fogli, ove vedrai mille stratij d’animo di quelle, non sforzate dal fatto, violentate dal destino, mal condotte dalla sorte e condennate dalle stelle, (poi ché:
- «Fatto, fortuna, predestinatione,
- sorte, caso, ventura son di quelle
- cose che dan gran noia alle persone
- e vi si dicon su di gran novelle» ,
ma di figlie tirannicamente e violentemente esposte di padri che, quasi crudi e disamorevoli pastori, le lasciano in preda de’ voracci luppi che sono i Diavoli, i quali non cessan mai di tormentarle con la rimembranza de’ gli oblighi religiosi, con la privatione del mondo e parcialità in humana de’ padri e parenti. Il senso lo raccorda gli comodi lasciati, la carne fa l’offitio suo: finalmente le pene del’Inferno monachale, nelle quali deono viver e morire a loro dispetto, le cruciano eternamente.
Questo è il proemio della tragiedia e mestissima rapresentatione, la quale, non con finte apparenze, ma con reali existenze, fonda le riuscite della funestissima sua catastrofe non sopra una semplice, ma più volte replicata morte, poi ché alle monache è destinato il morire più d’una volta.
Entratta la fanciulla nella scena del monastero, già disposti i luochi e preparati li habiti, si viene alle prove se la rapresentante riesca e poi, con piacere degl’assistenti, si comincia ad intessere i primi fili della tragedia per condurli ad un misserabile fine. Anteccede all’atto primo del vestire una musica di campane che, con mestissimo rimbombo, dà segno della vicina e melanconica festa da celebrarsi; questo sono, a colei che non è avezza a comparire in questo teatro, promove l’alterationi dal più intimo del core che, senza esser ferito d’amore, arde.
Argomentisi da questi accidenti se ragionevolmente riesca dolorosa alla tradita la privatione del suo più caro ornamento!
Mira con occhio pietoso ma avelenato quelle che sono assistenti a così odiata fontione e che le stanno a lato per insegnarle atti che hano più del compassionevole e ridicolo che del cattolico e divotto.
Per non tediar fra tanto chi legge con la lungheza delle dicerie che sarebbero neccessarie per dicchiarar minutamente così pontuale e diligente opperatione, mi restringerò con brevità di parole a dire che, doppo haver ella cantati versi et altre infinitissime cerimonie, quel che rapresenta il vicario di Cristo, doppo havergliele consegniato per Isposo irrevocabile, l’obliga a non mai lasciarsi uscir di mano il salterio, onde quella mente, avezza et inclinata alle curiosità degl’Amadigi e de’ Floriselli, si sente aspramente trafligere in sentendo dirsi: «Non recedat psalterium de manibus tuis, aut legas, aut ores, aut rem faciendam labores»
Ma per ché qui si parla dell’assassinate e forzate dalla tirannia paterna, non dalle vocate dallo Spirito Santo, non ti dei scandelizar, o discretto lettore, anzi compatire imaginando i tormenti di quell’anima, se ben difficilmente ne può esser capace un inteletto separato dal’esperienza di così efficacci passioni.
Terminato tutto ciò che occorre ad imbavararla, ogni una delle monache si accinge per darle segnio di pace con un baccio, ciascuno di quei baci uscito da quelle bocche degenera in un acuto strale che vola a ferir modestamente le più reccondite viscere del cor della religiosa novizza, che con tal nome appunto, per lo spaccio d’un anno intiero, vien chiamata. Finiscono i complimenti, ma non i dolori de’ quali piena quel’anima travagliata, col canto su le labra e le lacrime sul core, verso le monache così dice:
- «E voi sorelle, hor al mio Dio veracce
- godianci ormai in soporosa pace».
E pur il tutto diversamente succede, per ché trovanno per elle la pace sbandita, l’amor di Dio finto e in vece di godimento rodimento di rancor, tribolazioni di mormorationi et inquietudini!
Arrivata la tragedia a questo termine, si muta la scena prima, rapresentante il tempio, in un monastero sopra la quale, a pregiuditio et esterminio dell’in felice, come a personaggio principale si raggira intorno la machina tutta del funesto drammatico: essercitan sue parti l’Interesse, la Fraude, la Simulatione, l’Hipocresia che passano fra loro dialoghi non intiligibili ad animi puri ed innocenti; l’Inganno e ’l Tradimento rappresentano al vivo l’offitio di consigliere; la Malignità e Superbia, travestite et ancompagniate da gli altri peccati, si fingono autorevoli ma malinconicose et atte ad ingannar con dolcezza ogni sentimento di chi si fida di loro apparenti larve; e tutti i mascherati recitan con eloquenza così diabbolicamente artificiosa che può rapir gli animi di coloro che sono ignari di così simulato e finto vivere. Non n’hanno colpa le povere sfortunate poi ché gli iniqui fabricano a forza questi luochi dove, sotto habitti mentiti, nascondono sino i parti loro delle sfingi e chimere mostruose. Sola la Virtù ne rimane esclusa con la Fede e Sincerità, per ché quivi non riescono a proposito e, se tentano di comparire per rappresentar la lor parte, vengono scacciate e deluse come quelle che non usan gettar la pietra e nasconder il braccio, come eccelentamente usan di fare le prime nominate recitratici; onde le disprezzate e mal vedute, per esser il numero del meno, restano scopo alle maligne saette di quegli accorti dicitori che han sempre la mira di dar nel segnio dell’altrui riputatione et di attribuir ad altri i loro proprij mancamenti. E l’assistenti, che sono Diavolo, Mondo e Carne, applaudono di continuo a queste tali, onde solo i diabolici comici restan con honore e la povera Virtù con le sue seguacci, cioè l’innamorate di Cristo, rimane conculcate e non conosciute.
O delizio essecrabile degl’homeni!
I perfidi interlocutori che han deposta la vergonia, come è solito de’ tali personaggi, vanno con la lingua satirica fingendo et inventando calunie et appunto all’uso de’ mercenarij comicci che attendono ingordamente all’uttile e s’affatticono solo intenti al guadagno, ai doni, o presenti con tall’interessata voracità che par che di loro cantasse il gentilissimo poeta toscano quando disse:
- «Et una lupa che di tutte brame
- sembrava carca nella sua magrezza
- che molte genti fe’ già viver grame».
Non mancano mai queste adulatricce e finte istrione, ma sforzate religiose, d’impiegar tutto il talento, importare con gratia i loro interessi e, per ché sono coperte di quegli habiti a forza, vivono alla secolaresca né se intendono punto ad osservare quello a chi l’anima non concorre. Se tal’una d’animo nobile diversamente tratta, caluniano quel generoso core con tittoli di superbo et artificioso nelle pretensioni di sovrastar all’altre. Non manca loro artificio per fengersi l’idea della liberalità e pure con ingordiggia attendono la novella religiosa, non per carità o zelo d’accrescere di serve al Signore, ma per ché il giorno festivo dell’ingresso è necessario che ’l di lei ancor ché avarissimo genitore banchetti tutto il monastero; e tall’una di queste tali, parlando sempre dell’involontarie, per quel puoco mangiare tralasciarebbe, per modo di dire, gli interessi di Dio. Attendono tal giornata con più desio che non fa un vero innamorato d’abboccarsi con l’adorata dama, la quale arrivata, paiono tanti Epuloni assistenti a quella mensa.
Se a questi tragici avvenimenti fosse decente il ridicolo, tali riuscirebbero i contrasti fra l’avaritia del padre della nova monacha e la gola di tal’una dell’insatiabili Arpie! Queste insantemente adimandano, quello ostinatamente nega.
Ah, che questi sono accidenti non solo sproportionati al riso, ma degni di lagrime di sangue!
Finalmente, doppo multiplicate contese, per la parte del’uno si riducce la cosa alla minor spesa possibile e per quella dell’altro bisognia carricar almeno le mense vili e mechaniche di qualche sorta di cibo.
Al loco che vien chiamato con nome di reffettorio, in qualche monastero sarebbe più proporcionato il nome di spelonca da ladri. Quivi, dato il segno della campanella due volti, introdotta la novizza che più morta che viva e più portata dalle ministre che da proprij piedi vi giunge, per honorarla, doppo haver l’abadessa benedetta la mensa, vien comandata ad assidersi per questa prima volta appresso di essa, ma, imbrogliata fra gl’involti di quelle a lei nove e noiose vesti, con la corona in testa, si può di lei dire ciò che ad altro proposito cantò il gran Tasso:
- «Cibo non prende già, ché di suo’ mali
- solo si pascie e sol di pianto ha sete».
Quivi una monaca legge una regola in alta voce, essendo l’ordinario ogni giorno di sentirsi nell’hora destinata al mangiar una lettura tal volta e per il più che annoia per ché della morte, del’Inferno, di vermini e piaghe si sente a trattare. Due cellerarie compariscono con le vivande et imbadigioni, molto diverse da quelle che superbamente fumano su le mense nelle nozze della costei sorella rimasa a trionfar fra le delitie di sposalitio mondano: ivi la coppia ha votato tutto il suo corno e sino i fumi vagliano tesori, ma quivi la penuria dispensa avaramente il vitto non per adherir alla delitia, ma per satisfar alla necessità; ivii Baco e Venere, esercitando lor antiche simpatie, gareggiano a cui più si deva la preminenza, ma la dea d’amore, ben sublimata, viene al primo seggio; quivi altrettanto non avviene, nol permettendo la severa et indegna partialità de’ genitori, fratelli e parenti.
E pure i puoco lauti conviti goduti dalle monache, quando ammettono qualch’una, paiano loro sontuosi e magnifici, essendo per ordinario il loro pranzo picciolissima portion di carne che, comprata in credenza, è della peggiore, oltre che si coce la sera e si magna la mattina. Né queste sono favole, ma ben veracci historie e non sia ingenio che, di soverchio speculativo, non presti intiera fede a’ miei veracci detti per ché me è notto trovarsi molto andar dicendo che le monache godono un perfetto buon tempo, possia che sono sempre invitate al pranso et alla cena dal suono di una campanella, senza esser tormentate da pensiero di provedere alla casa.
O degni mentitori, a’ quali sia saciata la fame da un sol sono di squilla! Non è già lor dinegato il passersi nell’istesso modo nelle proprie case?! Anzi, s’anche essi volesser vivere nell’istessa maniera o con l’istessa parsimonia, avanzarebbero più denari da scialaquar nell’enormità di vittij!
Pur troppo è necessario che ogni monacha proveda a se stessa et habbia quelle medeme cure che agravan padri e madri di famiglia: i vestiti si stracciano e fa di mestiere il rinovarli secondo il bisognio, non v’essendo niuna tanto perfetta in santità che conservi il proprio habito sino al fine della vitta - se brevemente non la termina - senza il dover sovenire ad altre mille neccessità che di continovo occorrono e spender annualmente nell’obedienza; oltre che, essendo impossibile il sostenersi in vitta con la prebenda - per riccha che sia - data dal monastero, è forza soccorer il corpo di cibi spendendo la mettà del suo in viaggi. E colei che non ha qualche entrata particolare, non vive che fra stenti e miserie: ben il prova la fanciulla quando, desta dal letargo cagionatole dall’infide promesse e speranze con le quali l’han legata et obligata i parenti, si accorge di non esser proveduta che di sola casa, di poco vino e pane. E pur la Bocca della Verità disse: «Non in solo pane vivit homo»!
Infinitissime minaccie me occorerebbero sopra di ciò: a maggior opportunità le riserbo. Né mancan fra tanto gravi, anzi ridicole, contese fra le disperate che, per minor tedio, anche tralascio. Ma s’io dicessi che tutte fossero così spropositade, saria forse tacciata di maledica lingua. E sì ti giuro, o lettore, che se ben ve ne è di prudenti, poche se ne può escludere. Sei necessitato a creder questa indifesa verità, mentre il numero delle forzate tanto superiore alle volontarie t’assicura che siano molte quelle che fan confussione.
Questi sono i preludi, anzi i prencipi de’ disgusti della nova velata, per ché sente sovente rimproverarsi da qualche indiscretta il mal trattamento intorno alla prima cena, di gran lunga inferior a quella di qualch’altra - tutto che però la rassembri più lauta di quella di Cleopatra. Non mai mancan oppossitioni in qual si sia delle sudette ad altre attioni, essendo il monastero un teatro pieno di diversi cervelli, anzi un grandissimo hospitale di pazzi, ripieno di gente tali non de altri che dalla tirania degli huomeni, s’havendo in fine la sfortunata giovane d’esser imprigionata nell’Inferno de’ viventi e di calcar una scena tragica con rapresentratici magligne che, sotto cortigianesca adulatione, cuoprono un vivere a lor modo, alle quali benissimo s’adatta quello che scrisse uno ad un cortigiano:
- «Homai sei cortigiano
- che è la seconda specie de’ ribaldi».
Così la missera non si ha a qual parte volgersi, scorgendo celo et elementi congiurati a’ suoi danni e, conoscendo che in simil stanza risiedono le pene infernali, può ben insieme con quel vivaccissimo ingegnio cantar piangendo le conditioni del loco in cui è condanatta senz’haver giamai erato:
- «Quivi sospiri e pianti et altri guai
- risuonano per l’aria senza stelle
- che al cominciar io già ne lacrimai.
- Diverse lingue, horribili favelle,
- parole di dolor, accenti d’ira,
- voci alte e fioche e suon di man con elle».
Il fine del primo libro del'Inferno monacale.