Il ventre di Napoli/VI
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VI.
ANCORA IL LOTTO.
Il lotto ha una prima forma letteraria, rudimentale, analfabeta, fondata sulla tradizione orale come certe fiabe e certe leggende. Tutti i napoletani che non sanno leggere, vecchi, bimbi, donne, specialmente le donne, conoscono la smorfia ossia la Chiave dei sogni a memoria e ne fanno speditamente l’applicazione a qualunque sogno a qualunque cosa della vita reale. Avete sognato un morto? - quarantasette - ma parlava allora quarantotto - e piangeva - sessantacinque - il che vi ha fatto paura - novanta. Un giovinotto ha una coltellata da una donna? - diciassette, la disgrazia - diciotto, il sangue quarantuno, il coltello - novanta, il popolo. Cade una casseruola dal suo chiodo, ammala un bimbo, fugge un cavallo, compare un grosso sorcio: numeri, subito.
Tutti gli avvenimenti, grandi e piccoli, sono considerati come una misteriosa sorgente di guadagno. Muore una fanciulletta di tifo; la madre gioca i numeri, escono, ella esclama: m’ha fatte bbene pure murenne! Una moglie parla dell’amore che le portava suo marito che è morto; poi soggiunge malinconicamente, che se questo amore fosse stato grande, egli le sarebbe comparso in sogno, per darle i numeri; e se n’è scordato, è un ingrato, poichè lui lo sa che essa è poveretta e dovrebbe aiutarla.
Salvatore Daniele squarta la Gazzarra: biglietto; il popolo dice: chella è mmorta, mo, almeno ce refrescasse a nnuie che simmo vive. Salvatore Misdea ammazza sette soldati: biglietto. La legge ammazza Misdea: biglietto. Su le porte, nei bassi, alle cantonate, i numeri sono discussi da comitati e sottocomitati; il biglietto è stabilito. Non esce: avevano sbagliato, dovevano mettere questo numero e quest’altro, che sono usciti.
Questa scienza della smorfia è così profonda, così abituale, che per dare del pazzo a qualcuno si dice: è nu vintiroie (ventidue, matto), e crescendo man mano la collera, tutte le ingiurie avendo un numero relativo, si dicono in gergo del lotto. Una donna dà un pugno a un’altra, e le rompe la faccia; davanti al giudice, si scolpa, dicendo: m’ha chiammata sittantotto; il giudice deve prendere la smorfia e vedere a che corrisponde di oltraggioso quel numero.
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La cabala esiste più per le classi superiori che per le inferiori: ma essa vi discende. Certo, nel popolo non si comprano i numerosi giornali cabalistici, settimanali, dagli strani titoli: il vero amico, il tesoro, il fulmine, il rivelatore, il corno d’abbondanza, che costano dieci lire all’anno di abbonamento, compilati da una redazione ignota; nè il popolo corrisponde con quei professori di matematica che abitano al vico Nocelle, dodici, o a San Liborio, quarantaquattro, o vico Zuroli, tre, e che dànno, nelle quarte pagine, la fortuna a chi paga le dieci lire. Ma qualche cosa vi trapela: il tal signore sa i numeri, lo aspettano nella strada, gli mettono in mano un paio di lire e quello si contenta: è un piccolo affare.
L’assistito (dagli spiriti) è un cancro che rode le famiglie borghesi, un convulsionario pallido che mangia molto, che finge di avere o ha delle allucinazioni, che non lavora, che parla per enigmi, che fa credere a delle macerazioni crudeli e che vive alle spalle di coloro che lo venerano. Ma, dalla casa borghese, per mezzo della cameriera, del servo, della lavandaia, la reputazione dell’assistito arriva nel popolo: e l’assistito vi estende la sua azione mistica, fantastica, vi raccoglie dei guadagni piccoli, ma insperati, vi fa degli adepti e finisce per camminare nelle vie, circondato sempre da quattro cinque persone che lo corteggiano e studiano tutte le sue parole.
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Ma il grande aiutatore del popolo, la provvidenza del popolo, la sua fede, la sua credenza incrollabile, è il monaco. Il monaco sa i numeri: questo è il domma. Se non li dice, è perchè il Signore gli ha proibito di aiutare i peccatori; se li dice, e non escono, è perchè nel giuocatore è mancata la vera fede; se li dice e vengon fuori, la novella si spande in un minuto, il povero monaco resta afflitto da una popolarità pericolosa. È come l’artista che ha fatto un capolavoro: guai se non continua a farne, egli è perduto. Il monaco che ha solamente fatto prender un ambo, ha speranza di viver quieto: ma colui che ha dato tre numeri e sono usciti tutti tre, stia in guardia. Cercheranno di sedurlo in tutti i modi, coi doni, coi regali di denaro, con le offerte, con le messe, con le elemosine; lo faranno pregare dai bimbi, dalle donne, dalle nonne vecchie; l’aspetteranno in istrada, alla porta della chiesa, presso il confessionale, alla porta del convento; andranno a raccomandarsi a sua madre, a suo fratello, a sua zia; lo assedieranno mattina e sera; lo bastoneranno; lo sequestreranno, torturandolo; lo lascieranno morire di fame, perchè almeno in agonia dia i numeri. Sono cose accadute. Spesso per salvarsi, un monaco si fa mandare da un paese all’altro, dal suo superiore; scompare, il popolo dice che se lo ha portato via la Madonna.
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Il popolo napoletano giuoca per quanto più ha denaro. Per quanto sia povero, trova sempre sei soldi, mezza lira, al sabato, da giuocare; ricorre a tutti gli espedienti, inventa, cerca, finisce per trovare. La sua massima miseria non consiste nel dire, che non ha pranzato, consiste nel dire: Nun m'aggio potuto jucà manco nu viglietto; chi ascolta ne resta spaventato. Fra il venerdì sera e il sabato mattina, è tutto un agitarsi di gente che vuol giuocare e che non ha; gli operai si fanno anticipare una giornata, le serve rubano orrendamente sulla spesa, i mendicanti nelle vie crescono smisuratamente dal venerdì al sabato, quello che si può ancora vendere, si vende, quello che si può impegnare, s’impegna.
Anzitutto vi sono i biglietti popolari da giuocare, quelli che si giuocano sempre, perchè è una tradizione, perchè è un obbligo, perchè non se ne può fare a meno: l’ambo famoso, sei e ventidue; il terno famoso, cinque, ventotto e ottantuno; il terno della Madonna, otto, tredici e ottantaquattro. Questi terni, per fortuna del governo, non escono che ogni venti anni: quando è uscito, dopo moltissimi anni di attesa, l’ambo sei e ventidue, il governo ha pagato due milioni di piccole vincite, di cinque e di dieci lire l’una; e tutta Napoli si è coperta di tavolelle, vale a dire che tutti hanno pranzato o cenato con la vincita, per ricominciare a giuocare, la settimana dopo, con maggior ardore.
E ognuno ha il suo biglietto speciale, che gioca ogni settimana, da anni ed anni, con una fede che mai non crolla: un lustrascarpe ne giuocava uno da trent’anni e glielo aveva lasciato in eredità suo padre, morendo, insieme con la cassetta per lustrare: erano usciti degli ambi, tre o quattro volte, in trent’anni; il terno mai.
Un portinaio ne giuocò uno, per quarantacinque anni, senza prendere mai nulla: la prima settimana, che per un caso singolare, se ne scordò, il terno uscì — il portinaio morì di dolore.
E vi è sempre il biglietto del grande avvenimento, rissa o suicidio, revolverata o veleno; e infine vi è il biglietto cabalistico, quello strappato all’assistito al monaco.
Questi quattro biglietti bisogna giuocarli a ogni modo; rappresentano una media variabile da cinquanta centesimi a due lire la settimana. Quando il napoletano non ha più che due soldi, li va a giuocare al gioco piccolo o lotto clandestino.
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Per lo più le mezzane di questa grande frode, sono le donne. Una di queste, sudicia, lacera, porta in una lunga tasca, sotto la gonnella, un registro: viene il giocatore o la giocatrice, deposita due soldi e dice i numeri: in cambio ha un pezzetto di carta sporca dove sono scritti col lapis i numeri e la promessa, invariabile: uno scudo l’ambo, quaranta scudi il terno. La donna compie il suo giro nel quartiere, tutti la conoscono, tutti sanno che mestiere fa, tutti l’aspettano: denunziarla? Nessuno l’oserebbe, è una benefattrice.
Questi introiti sono larghi, naturalmente; a furia di due soldi si arriva a centinaia e centinaia di lire: i tenitori di gioco piccolo arricchiscono quasi tutti.
Alla Riviera s’incontrano degli equipaggi di ricchi borghesi, arrivati a quello col lotto clandestino; si conoscono perfettamente le persone ma esse non compaiono, hanno i loro agenti. Il popolano ha una cieca fede in questi tenitori di gioco piccolo: ma bene spesso, nel pomeriggio del sabato, se il tenitore ha da pagare molte vincite, si affretta a sparire, con tutti i suoi registri, e non paga nessuno. Che importa?
La settimana appresso un’altra donna ricomincia il suo giro e la gente ci capita di nuovo, come attratta invincibilmente. Che delizia per chi giuoca e per chi prende i quattrini, frodare il governo!
Ogni tanto la questura arresta quattro o cinque di questi agenti, di queste mezzane, li condanna al carcere, alla multa; che importa? Scontano la pena, pagano la multa, escono, ricominciano da capo con più ardore. Vi è chi è stato condannato cinque volte per gioco piccolo: e ha un palazzo e si lagna della persecuzione del governo e la sua condanna la chiama na disgrazia. L’aver messo il biglietto a due soldi, non è valso nulla, pel governo: la frode ha continuato, più fiorente, appoggiata su questa grande allucinazione.
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Ora la statistica porta: che nei giorni di giovedì, venerdì e sabato avvengono maggiori furti domestici; che in questi tre giorni si fanno più pegni al Monte di Pietà; che in questi tre giorni le agenzie private di pegni sono affollatissime; che in questi tre giorni, ma specialmente nel pomeriggio del sabato, avvengono maggiori risse; che infine le cose più brutte, più laide, più ignobili e più violente avvengono in questo fatale periodo, e che in questi giorni il popolo napoletano si mette nelle mani dell’usura: il vero cancro, di cui muore.