Il tesoro della Montagna Azzurra/XXVI - La vendetta d'Emanuel

XXVI — La vendetta d'Emanuel

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XXV — Le ultime cartucce di Don Ramirez

XXVI — La vendetta d'Emanuel


La luna cominciava a mostrarsi al di sopra delle immense foreste che coprivano i fianchi delle montagne quando la colonna, preceduta da Matemate e da Koturé, si mise in marcia verso i villaggi dei krahoa. Temendo sempre una sorpresa dei nuku, i due kanaki avevano prese grandi precauzioni per sventarla a tempo, lanciando gruppi di esploratori molto avanti e sui fianchi della colonna. Se don Ramirez era stato avvertito dell'avanzata dei naufraghi dell'Andalusia, e ciò era molto probabile, doveva tentare senza dubbio qualche disperato colpo di testa, per impedire loro di arrivare fra i krahoa. Così almeno la pensavano il capitano e i due kanaki. La marcia però non presentava, almeno per il momento, alcun pericolo. Gli esploratori continuavano ad avanzare attraverso la foresta, facendo delle punte a destra e a sinistra per sventare le imboscate e assicurare così la via al grosso della truppa. Verso mezzanotte Matemate, che camminava a fianco del capitano, diede l'ordine della fermata sulle rive di uno stagno che sembrava comunicasse con il Diao.

— Gli uomini bianchi si fermino qui, — disse. — Sull'altra riva comincia il territorio dei krahoa.

— Non dobbiamo andare avanti? — chiese il capitano un po' sorpreso.

— Sarebbe pericoloso inoltrarci sui loro terreni. I krahoa sono i più potenti di tutte le tribù che popolano quest'isola e potrebbero piombarci improvvisamente addosso e distruggerci, prima che io abbia il tempo di spiegare loro chi siete. E poi il cattivo uomo bianco potrebbe esser già nel grosso villaggio e giocarci un brutto tiro. Il tuo giovane fratello bianco ha sempre il simbolo dei tre notù?

— Sì, — rispose don José.

— Che lo consegni a me affinché possa mostrarlo ai capi dei villaggi e assicurarli che il vero figlio del grande capo bianco non è quello che è arrivato prima di noi.

Vedendo che il capitano esitava a rispondere, il kanako aggiunse, sorridendo:

— Matemate è l'amico degli uomini bianchi che lo hanno risparmiato da una morte sicura e tornerà con il simbolo e anche con il tesoro.

— Ho piena fiducia in te, — disse don José. — Quando sarai di ritorno?

— Prima che il sole sorga sarò qui, con mio fratello e con le tribù dei krahoa.

— E se ci fosse il nostro nemico nei villaggi?

— Crederanno più a me che a lui. Io lo smaschererò e lo farò uccidere e mangiare. Dammi il simbolo dei notù, capo, e attendi tranquillo il mio ritorno.

— E non temi di venire assalito dai nuku?

— Io conosco il mio paese, so dove rifugiarmi in caso di pericolo e poi non credo che quei guerrieri abbiano osato spingersi tanto avanti. Se si fossero mostrati così vicini ai villaggi, i krahoa sarebbero tutti in armi.

— Ti aspetterò, — rispose don José.

Si fece dare da don Pedro il famoso simbolo, poi i due kanaki partirono rapidamente, scomparendo ben presto nell'immensa foresta.

— Ritorneranno? — chiese don Pedro al capitano, mentre i kahoa improvvisavano un accampamento circondandolo d'una solida palizzata.

— Quei due kanaki ci hanno date troppe prove di fedeltà per temere di loro, — rispose il capitano.

— E se Ramirez avesse già portato via il tesoro? Anche lui ha il simbolo e i krahoa non avranno avuto difficoltà alcuna a condurlo nella roccia della Montagna Azzurra.

— Se anche si fosse impadronito del tesoro, che cosa importerebbe a noi? Se fugge, noi lo inseguiremo, e siccome non può lasciare l'isola, in qualche luogo lo raggiungeremo. Come già vi dissi, per quanta audacia possegga, non oserà mai attraversare l'Oceano su delle piroghe indigene, siano pure doppie.

— Le isole sono molte, capitano e potrebbe, passando dall'una all'altra, andare molto lontano, — disse don Pedro.

— E l'Esmeralda non la contate? Nessuna piroga potrebbe competere con quella nave, che a me sembra una delle migliori del Sud America. Scappi pure, don Ramirez, noi lo raggiungeremo sempre, prima che giunga in America o in Australia.

Un lungo sibilo d'allarme dei kahoa, gli interruppe la frase. Il capitano, don Pedro e Mina erano balzati sui loro fucili, mentre i selvaggi si radunavano intorno agli uomini bianchi, brandendo le scuri, le lance e gli archi.

— Che cosa c'è, dunque? — chiese Reton, accostandosi al cannone, davanti al quale aveva fatto gettare molti rami e alcuni tronchi d'albero.

Un guerriero arrivava in quel momento a corsa disperata. Con un salto da tigre balzò sopra la palizzata e si diresse verso il capitano. Sembrava che avesse fatta una lunga corsa, poiché era madido di sudore e coperto di fango fino ai capelli.

Da dove vieni? — gli chiese don José inquieto.

— Ho accompagnato i kanaki fino sul margine della palude, — disse il guerriero. — I nuku erano là, imboscati, insieme a degli uomini bianchi.

— Li hai visti proprio tu?

— Sì, capo bianco.

— Si sono già mossi?

— Marciano sul tuo campo.

— Sono molti?

— È la tribù intera che muove all'assalto. Ci sono anche delle donne.

— E i kanaki?

— Sono riusciti a fuggire e mi hanno incaricato di dirti di resistere fino all'alba e che verranno in tuo soccorso con tutte le tribù dei krahoa. Domani non ci sarà più un nuku in tutta l'isola: i krahoa sono terribili quando, sono in guerra.

— Hai sentito, Reton? — chiese il capitano.

— Il pezzo è pronto e ho ancora quattordici cariche di mitraglia, — rispose il bosmano. — È ora di finirla con questi antropofaghi.

Un altro fischio risuonò in quel momento in mezzo alla foresta, più lungo e più acuto del primo.

— I nuku arrivano, capo, — disse il guerriero. — Questo è un nostro esploratore che dà l'allarme.

— A me, don Pedro, — disse il capitano. — Speriamo che questa sia l'ultima prova... Señorita, gettatevi a terra e non sparate se non quando avremo assoluto bisogno del vostro aiuto. L'assalto sarà certamente terribile perché Ramirez giocherà la sua ultima carta.

In quel momento una decina di kahoa si precipitarono nell'accampamento, gridando:

— All'armi!...

— Al tuo pezzo, Reton! — gridò don José.

— Sono pronto a dare il primo saluto a quei cannibali, comandante, — rispose il bosmano. — Li prenderò d'infilata da prora a poppa, come tordi.

I kahoa si erano gettati dietro le palizzate, mandando urla terribili, per far capire ai nuku che erano in buon numero e pronti a riceverli. Il capitano e don Pedro si erano collocati presso il cannone, dietro la barricata di tronchi d'albero, con tutti i loro fucili. Mina era con loro, nascosta in mezzo a un ammasso di rami, per non venire colpita dalle frecce avvelenate. Passarono alcuni minuti d'angosciosa attesa. Una oscurità profondissima avvolgeva l'accampamento, essendo il cielo coperto da nubi cariche di pioggia. In lontananza il tuono brontolava. I kahoa aspettavano l'assalto, impassibili, decisi a opporre una disperata resistenza fino all'arrivo dei krahoa. Il capitano si era affrettato ad avvertirli che il soccorso non sarebbe mancato da parte dei formidabili guerrieri del Diao. A un tratto un lampo balenò sotto gli alberi seguito da una detonazione. Gli uomini bianchi che guidavano gli antropofaghi annunciavano il loro arrivo.

I kahoa erano rimasti immobili.

— Ah, siete qui, briganti! — disse Reton, che soffiava sulla miccia. — Il mio saluto sarà più rumoroso del vostro.

Un altro sparo seguì il primo, poi fu una vera scarica che colpì la palizzata ma che non sgomentò affatto i kahoa.

— Briganti! — brontolò Reton. — Si fanno sentire. Aspettate la mia voce e vedrete come coprirà le vostre cannucce da pipa. Poveri nuku che servite una così cattiva causa! Dopo tutto volevate mangiarmi e ho il diritto di vendicarmi!... Su, fuoco di bordata!

Sotto la tenebrosa boscaglia echeggiavano urla feroci, accompagnate da colpi di fucile. Reton guardò avanti a sé e puntò il pezzo là dove brillavano i lampi prodotti dai colpi di fuoco. Uno, sparo, che sembrò lo scoppio d'una bombarda, rintronò sinistramente. Il cannoncino cominciava a far sentire la sua voce ben più potente di quella dei fucili.

— Assaggiate dunque la mia mitraglia, — disse il bosmano.

A quello sparo tenne dietro un lungo silenzio. Anche i fucili dei marinai di Ramirez erano diventati improvvisamente muti. Certo quella cannonata doveva aver sorpresi profondamente i marinai dell'Esmeralda, ai quali probabilmente non era ancora arrivata la notizia della cattura della loro nave.

— Corpo di Satanasso! — esclamò Reton. — Che siano già scappati? Mi rincrescerebbe, parola di lupo di mare!

— Sembra che ci tengano poco a provare la tua mitraglia, vecchio mio, — disse don José.

— Sfido io! È di prima qualità!

— Eppure non credo che abbiano rinunciato così presto all'attacco, — osservò don Pedro. — I nuku ci hanno dimostrato, sul Diao, di essere coraggiosissimi.

— Non sono nemmeno io convinto che abbiano rinunciato alla partita, — disse don José.

— Cercheranno invece di impadronirsi dell'accampamento di sorpresa, per impedirci di sparare troppe cannonate. Le tenebre li proteggono.

— E noi li aspetteremo? — chiese don Pedro.

— Tutta la palizzata è guardata dai kahoa e non sarà facile sfondarla. Lasciate pure che s'accostino, don Pedro. I nostri guerrieri non hanno paura di un corpo a corpo.

Il silenzio continuava. Che cosa era dunque successo? Eppure nessuno era persuaso che i nuku e i marinai di Ramirez avessero preso il largo, dopo quell'unico colpo di cannone, sparato oltretutto a casaccio. I kahoa a ogni modo vegliavano attentamente, rannicchiati dietro la cinta, con le scuri in mano, pronti ad avventarsi. Il bosmano cercava invano di distinguere i cannibali, per fare un colpo maestro. La foresta era sempre silenziosa: solamente fra le nubi che si ammassavano, il tuono continuava a brontolare sordamente, a lunghi intervalli.

— Proviamo a spazzare i cespugli, — brontolò il bosmano. — Sarà questa la caccia alle pernici.

Aveva già accostata la miccia alla culatta del cannone, quando delle urla terribili scoppiarono intorno alla palizzata, accompagnate da spari. I nuku, guidati dai marinai di don Ramirez, si precipitavano all'assalto. Approfittando delle tenebre, si erano avvicinati al campo strisciando come serpenti e cercavano di aprirsi un varco a colpi di mazza. I kahoa, che già li aspettavano, erano balzati in piedi, scagliando nubi di frecce in tutte le direzioni, mentre don José, don Pedro e Mina aprivano un fuoco di fila. Reton, vedendo una valanga di ombre umane rovesciarsi verso la cinta, diede fuoco al suo pezzo, dopo avere urlato ai kahoa che aveva davanti, di gettarsi a terra. Quella bordata di mitraglia arrestò di colpo gli assalitori. Si sentirono urla spaventose e bestemmie, segno evidente che il cannoncino ancora una volta aveva fatto centro. Don José e don Pedro approfittarono del panico dei nemici per prendere a loro volta l'offesa.

— A me, guerrieri! — gridò il primo. — Attacchiamo!

I kahoa erano balzati in piedi, lanciandosi dietro ai due uomini bianchi che avanzavano sparando. Essendo la palizzata alta appena un metro, i selvaggi la varcarono con un solo salto, piombando sui nuku con le scuri in pugno. Successe un terribile corpo a corpo fra le tribù rivali, che ebbe però la durata di soli pochi secondi, poiché i nuku, malgrado fossero guidati dai marinai di Ramirez, non ressero a lungo al formidabile attacco dei kahoa. Temendo, più che le scuri dei nemici, il tuono del cannone, dopo una breve difesa si erano dispersi salvandosi nella foresta. Un buon numero di loro erano rimasti a terra, dietro alla cinta, parte fulminati dalla mitraglia e parte fatti a pezzi dalle scuri.

— In ritirata! — gridò il capitano, che non voleva esporre i suoi sudditi ai pericoli di un inseguimento. I kahoa, quantunque a malincuore, ritenendosi sicuri della vittoria, erano rientrati nell'accampamento.

— Che suonata! — esclamò Reton che non aveva lasciato il cannoncino. — Questi kahoa si battono splendidamente. E io che avevo creduto che fossero dei conigli!

— Non cantare così presto vittoria, vecchio mio, — disse il capitano. — Ramirez, o meglio i suoi uomini, tenteranno qui l'ultimo sforzo.

— Devono però essere rimasti non poco impressionati di trovare davanti a loro questo cannoncino. Che abbiano riconosciuta la sua voce?

— È probabile, Reton.

— Gliela farò sentire ancora se ritorneranno alla carica.

— Faranno di tutto per ricondurre i nuku all'attacco.

— E noi faremo il possibile per spazzarli via, — rispose il bosmano. — Devo però confessare che il capitano dell'Esmeralda ha dei marinai che hanno del fegato. Dove diavolo ha scovato dei così audaci bricconi?

— Mio caro, si tratta di salvare un tesoro.

— Che non si sa ancora se sarà veramente favoloso.

— Noi lo ignoriamo, ma scommetterei che quei banditi ormai lo hanno visto e forse imbarcato su piroghe.

— Che ce l'abbiano già rubato, comandante?

— Lo temo.

— E noi lo riprenderemo a loro.

— Non lasceremo quest'isola senza il fiume d'oro... Oh! Pare che ritornino! È pronto il pezzo?

— Pronto a fulminare i nuku!

Alcuni fischi acutissimi echeggiarono sotto la boscaglia, in varie direzioni e a breve distanza. Erano segnali di riunione o d'attacco? Don José si era spinto verso la cinta accompagnato da don Pedro e da quattro guerrieri che portavano i fucili di ricambio.

— Tornano alla carica? — chiese don Pedro.

— Io credo di sì, — rispose il capitano. — Hanno troppo interesse ad arrestarci e distruggerci. Finché non arrivano i krahoa in nostro soccorso, avremo un bel da fare a difendere l'accampamento.

— Verranno poi?

— Matemate lo ha promesso.

— E se i due kanaki fossero stati uccisi?

— Non siate così pessimista, don Pedro, — disse il capitano. — La loro morte potrebbe essere anche la nostra, ma io non dispero. Pensiamo ora a difenderci.

In quell'istante echeggiò un primo colpo di fuoco. I nuku, guidati dai marinai dell'Esmeralda, tornavano alla carica.

— Orsù, — disse il capitano. Non ci lasceranno un momento di riposo. Ehi, vecchio pescecane, non addormentarti sul tuo pezzo.

— Lasciate che si mostrino, comandante e vedrete quanti ne manderò a dormire, — rispose Reton.

I colpi di fuoco cominciavano ad aumentare. Lampi vividi balenavano in mezzo ai folti cespugli, quasi a fior di terra. I marinai dell'Esmeralda non osavano più assalire in massa, per paura di venire mitragliati. Avanzavano invece strisciando, procurando di tenersi nascosti e in ordine sparso. Era una bellissima manovra che rendeva quasi inefficace l'uso del cannoncino.

— Briganti, — imprecava Reton, che si sentiva disarmato. — Dovrò dunque lasciare il pezzo per riprendere il fucile?

— Credo che per il momento sia migliore una di queste cannucce da pipa, come tu le chiami, — rispondeva il capitano — che la tua grossa canna d'organo.

— Vada per il fucile, dunque.

I tre uomini, nascosti dietro la barricata, avevano cominciato a sparare. Mina non mancava, di quando in quando, di aiutarli, mirando là dove balenavano i lampi. I proiettili sibilavano, accompagnati da una vera grandine di frecce. L'oscurità però proteggeva gli uni e gli altri e le perdite erano minime da una parte e dall'altra. Quello scambio di fucilate durò tutta la notte. I nuku mostravano una grande ostinazione e sembrava che non aspettassero che un po' di luce per dare l'assalto generale all'accampamento, il cielo cominciava a rischiararsi, quando colonne d'antropofaghi, precedute da una decina di marinai, si precipitarono all'attacco, mandando urla formidabili. Erano almeno duecento guerrieri che si precipitavano sui settanta od ottanta kahoa che erano rimasti ai naufraghi dell'Andalusia. Il momento era terribile. Reton, che aspettava la buona occasione, scaricò il suo pezzo sulla colonna che gli stava di fronte, sgominandola completamente; ma le altre si precipitavano avanti velocissime, per giungere sulle palizzate, prima che avesse il tempo di ricaricare. Don Josè, don Pedro e Mina sparavano furiosamente, mentre i kahoa consumavano le loro provviste di frecce. Da una parte e dall'altra gli uomini cadevano. La cinta, attaccata a colpi di mazza, stava per cedere sotto l'impeto degli assalitori, quando una turba di guerrieri, che avevano le teste adorne di penne di notú, irruppero improvvisamente attraverso la boscaglia, attaccando i nuku alle spalle. Matemate e Koturé li guidavano, brandendo le scuri d'acciaio che il capitano aveva loro regalate prima che lasciassero l'Esmeralda.

— I krahoa! — aveva gridato don Josè, sparando il suo ultimo colpo. — Amici, siamo salvi!

I krahoa, tre volte superiori di numero dei nuku e anche meglio armati e disciplinati, caricavano con la furia di un uragano. Non fu un combattimento, ma un massacro. I nuku, stretti davanti dai kanaki di don José e mitragliati da Reton e assaliti alle spalle dai guerrieri del Diao, caddero quasi tutti, insieme ai marinai dell'Esmeralda, che invano avevano tentato di arrestare, a colpi di fucile, lo slancio degli assalitori. I pochi superstiti avevano avuto appena il tempo di salvarsi nelle foreste scappando verso il Diao. Matemate, sgominati i nemici, si era affrettato a raggiungere il capitano.

— Non c'è un momento da perdere, capo bianco, — gli disse. — Il tuo nemico scende il fiume con il tesoro.

— Se ne è impadronito?

— Aveva anche lui il simbolo dei notù e i capi dei krahoa non hanno esitato a consegnargli il tesoro che stava sepolto sotto la roccia della Montagna Azzurra.

— È fuggito dunque?

— Se parti subito, lo raggiungeremo, prima che arrivi al mare — rispose Matemate. — Si é imbarcato ieri sera, su quattro doppie piroghe, con una piccola banda di nuku e con pochi uomini bianchi. Egli aveva già saputo che tu stavi per arrivare ed è per questo che ha tentato di fermarti qui, per guadagnare tempo e scendere inosservato il fiume. Ritorniamo alle tue barche e diamogli la caccia. I miei uomini sono pronti ad aiutarti.

Come Matemate aveva detto, non c'era un momento da perdere. Don José dopo un breve colloquio con don Pedro e Mina diede l'ordine di levare il campo. Furono costruiti dei palanchini per i numerosi feriti, il cannoncino fu rimesso sulla lettiga fatta costruire da Reton, e kahoa e krahoa si misero subito in marcia, con la speranza di fermare il bandito, prima che potesse raggiungere la foce del fiume e tentare, a sua volta, la riconquista della nave. Quantunque fossero stanchissimi e affamati, non fecero che una sola corsa fino al luogo dove avevano lasciate le scialuppe. La baleniera e le lance erano ancora là, nascoste fra i cespugli. Furono lanciate subito in acqua, quaranta krahoa si unirono ai kahoa, non potendo le imbarcazioni contenere tutti, e la spedizione scese precipitosamente il fiume. Koturé era rimasto a terra, per guidare la tribù verso la foce del fiume, nel caso che don José e i figli del grande capo bianco avessero ancora bisogno del loro aiuto. Reton, aveva fatto collocare il suo cannoncino a prora della baleniera. Possedeva ancora quattro cariche e con quelle si era ripromesso di accoppare il ladro e tutti quelli che lo accompagnavano. Il giorno trascorse, senza che don Ramirez fosse stato raggiunto. Temendo di essere inseguito, anche lui forzava la corsa, per mettere al sicuro il tesoro a bordo dell'Esmeralda. Al cadere del secondo giorno, quando ormai la marea cominciava a farsi sentire, indizio sicuro che la foce del fiume non doveva esser lontana, il bosmano, che stava sempre in osservazione dietro al suo pezzo, segnalò quattro grossi punti neri che sembravano fermi presso un isolotto.

— Cento piastre contro una che quelli sono i ladri! — esclamò.

Il capitano e don Pedro, che stavano seduti a poppa chiacchierando con Mina, si erano precipitati verso la prora.

— Sì, non possono essere che le doppie piroghe di Ramirez, — disse il primo, che aguzzava lo sguardo.

— Se potessimo sorprenderli? — disse don Pedro.

— Bisognerebbe aspettare la notte e intanto ci sfuggirebbero. Non sono troppo sicuro dei pochi kahoa che abbiamo lasciato a guardia dell'Esmeralda. Se Ramirez riesce a impadronirsene, addio tesoro della Montagna Azzurra. Mettiamoci in caccia, don Pedro, e non diamo a quel bandito un istante di tregua. Noi dobbiamo catturarlo prima che le sue piroghe sbocchino in mare.

— Resisteranno i nostri uomini?

— I krahoa li aiuteranno. Prepariamo le nostre armi, poiché sono certo che Ramirez, non si arrenderà, senza averci data battaglia.

— Con il cannone che possediamo, — aggiunse Reton. — Con un solo colpo sventrerò tutte le piroghe.

— E manderai il tesoro a far compagnia ai pesci, — disse don José.

— Mitraglierò i ponti.

— Questo è affare tuo e... To'! Che cosa fanno dunque le piroghe? Non le vedo muoversi, eppure gli uomini che le montano devono averci scorti.

— Scommetterei che ci prendono per dei nuku, — osservò Reton. Siamo ancora troppo lontani per distinguere se siamo bianchi o neri, o krahoa o cannibali.

— Matemate! — gridò il capitano. — Fa' raddoppiare la battuta! I nostri nemici sono in vista. Se i kahoa non ne possono più, fa' lavorare i tuoi compatrioti.

Il kanako, che si era già accorto della presenza di quei grossi punti oscuri, cambiò i rematori e le scialuppe si misero in corsa. La luce crepuscolare stava per dileguarsi, quando le imbarcazioni arrivarono a mezzo tiro di fucile dall'isolotto. Quattro grosse piroghe doppie, cariche fino quasi a livello del ponte, stavano legate alle rhizophore che circondavano quel pezzo di terra. Alcuni uomini dalla pelle nerastra e qualche bianco occupavano i ponti, osservando con una certa ansietà le scialuppe, le quali, con una rapida manovra si erano staccate l'una dall'altra, formando una specie di semicerchio. Reton aveva già puntato il cannone, mentre il capitano e don Pedro avevano impugnati i fucili.

— Fermi tutti! — gridò il capitano dell'Andalusia con voce minacciosa. — Il primo che alza una scure o un'arma è un uomo morto!

Fra gli equipaggi delle piroghe successe un breve tumulto. I nuku si erano messi a urlare, mentre i cinque o sei uomini bianchi che li guidavano si lanciavano a terra.

— Scappano, — disse Reton. Allora il loro capitano è sull'isolotto.

— Approdiamo, — comandò don José. — E tu, Matemate, intima la resa ai nuku e impadronisciti delle piroghe che portano il tesoro. Quei pochi uomini non oseranno opporre resistenza.

La baleniera avanzò verso l'isolotto, passando attraverso le piroghe, senza che alcuna freccia venisse scagliata contro di essa da parte dei nuku, che sembravano terrorizzati di trovarsi davanti a tanti avversari, e si arenò fra uno squarcio delle rhizophore. Don José e don Pedro si erano lanciati a terra, seguiti da venti krahoa armati fino ai denti. Avevano appena attraversate le piante acquatiche, quando sette uomini armati, si precipitarono fuori da un gruppo di banani. Alla loro testa c'era Ramirez.

— Banditi! — urlò il miserabile che pareva pazzo di rabbia. — Guai a voi se toccate le mie piroghe! Il tesoro l'ho conquistato io e nessuno me lo riprenderà.

Don Pedro stava per scagliarsi sul ladro, ma don José fu pronto a trattenerlo.

— Siete voi il comandante della Esmeralda? — chiese.

— Sì, e voi chi siete?

— Il capitano dell'Andalusia, — rispose don José.

— Lo eravate, perché adesso vi ucciderò.

Don José, vedendolo afferrare il fucile, fu pronto a puntare il suo, gridandogli:

— Badate, don Ramirez, che ho dietro di me più di cento guerrieri, pronti, a un mio cenno a sterminare voi e il vostro drappello, e che il mio bosmano vi tiene sotto il tiro del cannone dell'Esmeralda.

— Il pezzo dell'Esmeralda!... — urlò il bandito. — Ma dunque la mia nave, la señorita Mina...

— La vostra nave è stata da noi sequestrata e non ve la restituiremo se non quando saremo giunti nel Cile, dove vi sarà pagato il nolo.

Don Ramirez sembrava fulminato. A un tratto la sua collera scoppiò terribile:

— Miserabili! — gridò alzando il fucile. — Ora vi uccido tutti!

Un marinaio che gli stava dietro gli afferrò l'arma, dicendogli:

— Arrendetevi a quei signori, capitano. Noi non vi seguiremo in un nuovo combattimento.

— Vili!

— Abbiamo persi troppi camerati, — aggiunse un altro.

— Ed è così che rinuncerete alla colossale fortuna, ora che è in nostra mano? — gridò Ramirez.

— V'ingannate, capitano, — disse don José. — Anche il tesoro è nostro ormai, poiché le piroghe sono state occupate dai nostri guerrieri.

— Voi mentite!

— Venite a vederle dunque, — dichiarò don Pedro. — L'oro era stato accumulato da mio padre per me e per mia sorella e non per voi, e ce lo siamo preso.

— Mostratemi le piroghe, mostratemi il pezzo dell'Esmeralda e solo allora getterò il mio fucile e mi arrenderò, — disse don Ramirez.

— Vi prevengo che non vi perderemo di vista, — soggiunse il capitano. — Non pensate a una fuga, perché siamo ben decisi a impedirvela.

— Che cosa vorreste fare di me?

— A questo penseranno le autorità di Asuncion, alle quali vi consegneremo.

L'antico negriero lanciò sul capitano dell'Andalusia uno sguardo feroce, poi, fingendo una grande calma, rispose:

— Fatemi vedere le piroghe.

Attraversarono la zona delle rhizophore e arrivarono sulla spiaggia, davanti alla quale stava la scialuppa montata da Mina e da Reton, sempre pronto a far tuonare il cannoncino. Vedendo la fanciulla, che stava ritta accanto al bosmano, il bandito impallidì spaventosamente, poi un flusso di sangue ali montò al cervello.

— La señorita! — ruggì. — Non sarai mia, ma non ti avrà nessun altro!

Mentre don Pedro e don José si fermavano, stupiti, ignorando ancora l'amore selvaggio che ardeva nel cuore dell'antico negriero, Ramirez puntò rapidamente il fucile, prendendo di mira la giovane. Il colpo stava per partire, quando un giovane marinaio, che fino allora ne don Pedro, né don José avevano notato, piombò con uno slancio da tigre su di lui, piantandogli una navaja nel petto. Ramirez aveva mandato un urlo.

— Emanuel!...

Prima che il capitano dell'Andalusia e don Pedro rimessisi dallo stupore avessero il tempo d'intervenire, il bandito girò su sé stesso e scaricò il fucile, che non aveva abbandonato, fracassando il cranio al suo assassino. Tutti si erano slanciati su di lui, anche i suoi marinai ma egli li trattenne con una parola:

— Sono morto.

Fece due passi indietro, si lasciò sfuggire l'arma, si portò le mani al petto, cercando di estrarre dalla ferita la terribile lama che era rimasta infissa fino al manico, poi cadde pesantemente al suolo, come un albero schiantato dalla bufera.

La navaja gli aveva spaccato il cuore!

· · · · · · · · · · ·

Due ore più tardi, dopo aver sepolto l'uno accanto all'altro, l'assassino e l'assassinato, i conquistatori del tesoro, ancora profondamente impressionati dal terribile dramma svoltosi sotto i loro occhi, lasciavano l'isolotto, scortando le quattro piroghe, che portavano nelle stive più di quaranta milioni di oro purissimo, che i krahoa, sotto la guida del vecchio Belgrano, avevano raccolto fra le sabbie del Diao. Tutti avevano fretta di lasciare l'isola degli antropofaghi sulla quale avevano passate troppo tristi emozioni. Verso il mattino scialuppe e piroghe abbordavano felicemente l'Esmeralda. Il tesoro fu subito imbarcato, con l'aiuto dei nove marinai di Ramirez, i quali si erano messi a disposizione del capitano dell'Andalusia, felici di essere stati risparmiati, mentre avevano temuto di dover finire la loro vita sotto i denti degli antropofaghi. La separazione fra gli uomini bianchi, i kahoa e i krahoa fu commovente. Matemate e Koturé i due valorosi kanaki, ai quali tanto dovevano don Pedro e Mina, piangevano come fanciulli e così pure tutti i capi dei villaggi delle due tribù.

— Tu ci hai regalate le canne che tuonano e tante cose ancora; — dicevano tutti, — ma avremmo preferito di vederti ancora fra noi.

All'alta marea, dopo commoventi addii, l'Esmeralda prendeva il largo, per iniziare la traversata del Pacifico, mentre i krahoa e i kahoa, ormai fusi in una sola tribù, risalivano tristemente il Diao dalle sabbie d'oro.


Fine