Il tesoro della Montagna Azzurra/XIII - Il supplizio delle formiche

XIII — Il supplizio delle formiche

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XIII — Il supplizio delle formiche


Due giorni dopo gli avvenimenti narrati, sul far della sera, un piccolo drappello, formato da una dozzina di guerrieri nuku guidati da don José e dai due kanaki krahoa, lasciava nel più profondo silenzio il villaggio, inoltrandosi nei grandi boschi. Durante la giornata gli esploratori mandati nei villaggi dei Keti avevano portato delle preziose informazioni, cioè che l'uomo bianco si preparava a partire per la foce del Diao, dove probabilmente si trovava ancorata la sua nave, e che i suoi alleati avevano già fissata la data per un grande pilù-pilù durante il quale si sarebbe sacrificato uno dei due prigionieri bianchi. Quelle informazioni avevano indotto il capitano ad agire senza perdere tempo, per sottrarre il suo vecchio bosmano a una spaventosa morte. Non volendo esporre Mina a gravissimi pericoli, essendo quella spedizione assai rischiosa, l'aveva costretta a rimanere al villaggio sotto la guardia del fratello, che doveva assumere momentaneamente le funzioni di Grande capo, e della fedele cagna di Terranova che era particolarmente temuta dai Nuku, i quali non avevano mai visto animali così grossi. Sebbene non avesse ancora ideato un vero piano, il comandante era partito, sicurissimo di poter arrivare in tempo per salvare, in qualche modo, il suo vecchio marinaio. Per riuscire, contava soprattutto sull'audacia e sulla scaltrezza di Matemate e di Koturé, che valevano da soli più di tutto il drappello di guerrieri, che aveva unito alla spedizione per premunirsi contro un improvviso attacco. La piccola colonna si era dunque inoltrata animosamente sotto le foreste, salendo verso settentrione, verso i villaggi dei Keti. Quantunque l'oscurità fosse profondissima, nessuna torcia era stata accesa, poiché era probabile che i Keti avessero avuto sentore della presenza di uomini bianchi fra i Nuku e che Ramirez avesse mandato delle spie nelle foreste della costa. Matemate e Koturé muniti delle carabine di Mina e di Don Pedro, aprivano la marcia assieme a un guerriero nuku, che conosceva a menadito la via dei grandi boschi. Il capitano veniva dopo, con il vecchio sottocapo, il quale aveva voluto prender parte alla spedizione per proteggere personalmente il nuovo capo. A mezzanotte il drappello faceva una breve sosta a poche miglia dai primi villaggi dei Keti, imboscandosi in mezzo a una folta macchia di baniani selvatici, che poteva servire da rifugio anche in caso di un insuccesso. Fu tenuto consiglio e fu deciso, prima di riprendere la marcia, di mandare degli esploratori per conoscere il luogo ove era stato rinchiuso Reton. Non conveniva impegnarsi a fondo, essendo la tribù dei Keti, numerosissima e spalleggiata probabilmente da un buon numero di marinai dell'Esmeralda.

— Aspetteremo qui notizie più precise, — disse il capitano a Matemate e al sottocapo. — Noi non siamo in forze sufficienti per tentare un colpo di mano, e ci converrà giocare d'astuzia, se vorremo salvare il nostro compagno.

Fu improvvisato, nel mezzo della macchia, un accampamento, poi quattro uomini, scelti fra i più coraggiosi, furono mandati in perlustrazione, sotto la guida di Matemate.

— Cerca di portarmi soprattutto qualche prigioniero, — raccomandò il capitano al kanako, prima che questi lasciasse l'accampamento. — Sarà più prezioso di tutte le informazioni che potrai assumere.

La notte trascorse in una continua ansietà per gli accampati, che temevano sempre una sorpresa da parte dei Keti. Fortunatamente nessun nemico fu notato nella foresta. Anche la giornata trascorse in continue angosce, non essendo tornato Matemate né alcuno dei suoi uomini. Che cosa era dunque accaduto agli esploratori? Il capitano cominciava a perdere la speranza di rivederli, quando verso il tramonto i guerrieri, disseminati per la foresta perché avvertissero a tempo la comparsa dei terribili antropofaghi, segnalarono la presenza di un gruppetto di persone che avanzava, con mille precauzioni, sotto la immensa volta delle piante. I guerrieri, credendo che si trattasse di esploratori nemici, stavano per darsi alla fuga, quando il segnale di Matemate, il grido del kagù, echeggiò a breve distanza.

— Fermi tutti! — gridò Koturé. — È mio fratello che ritorna.

Pochi minuti dopo, Matemate entrava nell'accampamento, portando con sé, sana e salva, la sua piccola scorta, accresciuta d'un individuo spaventosamente tatuato, e che per unica veste portava intorno ai fianchi una semplice cintura di fili d'erba e di foglie secche che formavano una frangia.

— Ecco il prigioniero che desideravi, uomo bianco, — disse il bravo kanako. — Questo è un vero keti, che ho sorpreso nella foresta mentre cacciava i notù. Finge di non comprendere la nostra lingua, mentre tutti quelli della sua tribù parlano il krahoa. Tocca a te farlo parlare.

Il prigioniero, che era uno splendido tipo della razza neo-caledone, alto, vigoroso e molto barbuto, fissò i suoi occhi neri sul capitano, poi sui Krahoa, dicendo:

— Nuovi amici.

— Giacchè ci consideri come tuoi amici, — disse il capitano — ci dirai allora quanto desideriamo sapere da te.

Il keti fece un gesto, come se cercasse di afferrare il senso di quelle parole, ma non aggiunse parola.

— Legatelo a un albero intanto e vegliate attentamente su di lui... — proseguì il capitano. — Non dimenticate che se ci fugge avremo alle spalle tutta la tribù dei Keti.

Quindi, rivolgendosi a Matemate che sembrava aspettasse di essere interrogato:

— Sei riuscito a sapere qualcosa del prigioniero, amico? — gli chiese.

— Mi è stato impossibile avvicinarmi ai villaggi dei Keti, — rispose il kanako. — Tutta la tribù è in armi, come per prepararsi a partire per la guerra e numerosi esploratori percorrono le foreste. È stato un vero caso che io abbia potuto mettere le mani su quest'uomo.

— Che si preparino ad assalire la nostra tribù? — chiese il capitano spaventato.

— Solo il prigioniero potrebbe dirtelo.

— Non sai se l'uomo bianco è ancora presso i Keti?

— Non ho saputo nulla.

— Siamo sicuri qui?

— La foresta è folta, capo bianco, e una sorpresa non è facile, — rispose Matemate. — E poi i Keti sono ancora lontani e forse si preparano per un pilù-pilù. È perciò necessario che il prigioniero parli.

— E se si ostinasse a non comprenderci?

Il kanako ebbe un sorriso.

— Vedremo se saprà resistere a lungo, — disse poi.

— Vuoi torturarlo? Bada che non abbiamo tempo da perdere. La morte del mio marinaio è forse stata decretata.

— Sarà un affare spiccio, — rispose Matemate. — Nel ritorno ho ritrovato, a poca distanza dal campo, quanto mi occorre per costringere quell'uomo a parlare.

— Che cosa hai trovato?

— Oh! Un semplice albero.

— Per impiccarlo forse?

— Allora non parlerebbe più, capo bianco. Il melalenco lo costringerà a sciogliere la lingua. Alla sua aria micidiale non si resiste a lungo.

— Che cosa mi racconti?

— Vedrai fra poco, — disse il kanako, con un sorriso feroce. — Bisogna agire subito, capo bianco.

— Lascio a te questa faccenda, — rispose il capitano.

Matemate fece strappare dai Nuku alcuni pezzi di corteccia di niaulis per farne delle torce, poi slegò il prigioniero che conservava una calma imperturbabile. Koturé e altri quattro guerrieri si erano messi intorno al disgraziato, brandendo le loro scuri di pietra, pronti ad accopparlo al primo tentativo di fuga.

— Seguimi, capo bianco, — disse Matemate.

Dopo aver raccomandato al sottocapo dei Nuku di vigilare attentamente e di mandare degli esploratori nei dintorni, il drappello si mise in marcia, preceduto da due uomini che illuminavano il cammino con due torce di niaulis. Matemate teneva ben stretta la corda vegetale che aveva messo intorno al collo del prigioniero, quantunque questi non dimostrasse alcun desiderio di ribellarsi. Certo credeva di venire divorato, e si era rassegnato al suo triste destino. Una lotta contro sette uomini sarebbe stata del resto assolutamente vana, specialmente quando c'era un uomo bianco, armato di quel terribile tubo di ferro che scatena il tuono e uccide a grande distanza. Dopo aver percorso circa quattrocento passi, il capitano si trovò, con sua non poca sorpresa, davanti a una radura aperta nella foresta. Sotto l'ombra proiettata dagli alberi non cresceva alcuna pianta. Il capitano credette per un momento di trovarsi davanti a un gruppo d'upas, quei vegetali velenosissimi che crescono nelle grandi isole malesi e che esalano gas mortali, che uccidono ben presto tutte le piante che spuntano nelle vicinanze; ma una parola di Matemate lo disingannò.

Melalenco! — esclamò il kanako, sorridendo.

— Ho sentito parlare di queste piante, — rispose don José. — Sono velenose, è vero?

— Sì ma anche utilissime, perché trasudano una eccellente resina che serve a fare delle torce migliori di quelle dei niaulis e la loro scorza è adatta a costruire delle capanne impenetrabili alla pioggia.

— E che cosa faranno questi alberi al nostro prigioniero?

— Non vedi, capo bianco, come sono morte tutte le piante che erano spuntate sotto l'ombra di questi melalenco?

— L'avevo notato anch'io, — rispose il capitano.

— Questi alberi sono pericolosi. Prova a coricarti là sotto e dopo qualche ora sentirai dolori acutissimi al capo, nausee e vomiti violentissimi. Ma io non mi contenterò di questo. Il prigioniero potrebbe resistere troppo tempo. Guarda che cosa c'è qui.

Il kanako si era cacciato fra quel gruppo di piante, indicando al capitano una mezza dozzina di piccoli coni formati di fango biancastro.

— Un formicaio! — esclamò don José.

— Farò legare il prigioniero proprio in mezzo a questi coni, — disse Matemate. — Vedrai come urlerà quando le piccole bestie, attratte dall'odore del sangue, usciranno in massa. Non potrà resistere a lungo e si deciderà a parlare. Koturé, conduci qui il prigioniero e procurami delle liane.

— Vorrei risparmiargli una simile tortura, — disse il capitano.

— E allora non sapresti più nulla, — rispose Matemate. — Conosco la cocciutaggine di questi uomini. Bisogna farli a brandelli per deciderli a parlare. Lascia fare a me, capo bianco: io rispondo di tutto.

Fu portato il prigioniero, a cui erano state attaccate quattro lunghe liane. Scorgendo il formicaio, la sua fronte s'era corrugata, però nessuna parola gli era uscita dalle labbra. Fu collocato in mezzo ai coni e le liane furono assicurate ai tronchi dei melalenco, in modo da impedirgli di muoversi.

— Vuoi parlare? — gli chiese per l'ultima volta Matemate.

Il prigioniero scosse il capo, fingendo di non aver compreso la domanda.

— Vedremo fra poco se comprenderai i morsi delle formiche, — disse il kanako.

Si fece dare dal capitano la navaja e fece sulle cosce del prigioniero due leggeri incisioni, prolungandole fino alle ginocchia. Quantunque la pelle fosse stata intaccata, il sangue sgorgò subito, formando a terra una piccola pozza. Il prigioniero non aveva battuto ciglio. Abituato ai dolorosi tatuaggi, quelle due incisioni erano per lui un semplice scherzo.

— Tutti indietro! — comandò Matemate.

Mentre il capitano e il nuku si ritiravano, dopo aver piantato a terra le torce di niaulis, il kanako impugnò la sua scure di pietra e con pochi colpi sfondò i fianchi dei formicai. Tutti si erano ritirati al di là della mortale ombra dei melalenco, cominciando già a provare delle acute fitte al cervello e una specie di stordimento. Anche Matemate li aveva raggiunti e si era accoccolato ai piedi del capitano, fissando il prigioniero, il quale si mostrava sempre impassibile, quantunque avesse compreso a quale atroce supplizio lo avevano condannato. Dopo due minuti, delle grosse macchie nere si mostravano ai margini dei formicai. Erano le formiche carnivore, che attratte dall'odore del sangue e svegliate dal franare delle loro abitazioni, accorrevano a sciami, agitando rabbiosamente le loro pinzette.

Sono estremamente voraci e guai se possono sorprendere presso i loro formicai qualche animale addormentato o ferito da non poter fuggire. Ci si gettano sopra a battaglioni compatti, mettono in opera miriadi di tenagliette, che tagliano e strappano muscoli, carne e pelle e non lasciano dopo poche ore che uno scheletro perfettamente pulito. Vedendo quei piccoli mostri, che già scendevano rapidamente verso la pozza di sangue, impazienti di mordere e di divorare, il prigioniero che subiva già anche l'influenza mortale dei melalenco, non poté trattenere un grido di spavento.

— Le piccole bestie gli fanno più paura della graticola, — disse Matemate, ridendo.

— E lo lascerai divorare vivo? — chiese il capitano.

— Oh no! — rispose il kanako. — Quando avrà provati i primi morsi, sarà lui che domanderà di parlare.

— E potremo sottrarlo alle formiche?

Invece di rispondere, Matemate scambiò con il fratello alcune parole. Subito il capitano lo vide tagliare un certo numero di rami e distribuirli fra i Noku. In quel momento un urlo acutissimo echeggiò e si vide il prigioniero fare sforzi disperati per liberarsi dalle liane che lo tenevano fermo in mezzo ai formicai.

— Ah, le bestioline nere cominciano a mordere — esclamò Matemate. — Quanto potrà resistere?

Le formiche avevano assalito i piedi del disgraziato guerriero, affondando nelle carni le loro terribili pinzette. Calavano a frotte dai formicai, spingendosi le une con le altre, per arrivare prime a prendere parte a quell'orgia di carne viva. Il prigioniero urlava disperato sotto i morsi feroci delle ingorde bestioline nere, come le chiamava Matemate. Sussultava, come se delle scariche elettriche lo toccassero, girava gli occhi come un pazzo, dava alle corde delle strappate furiose, facendo talvolta perfino curvare i tronchi dei melalenco. Dalle labbra coperte di schiuma sanguigna, di tratto in tratto uscivano dei veri ruggiti.

— Basta, — disse il capitano. — Le formiche si arrampicano sulle sue gambe. Che cosa aspetti, Matemate? Che lo divorino?

Il kanako si era alzato, tenendo in mano uno di quei rami frondosi che suo fratello aveva tagliati. Si avvicinò con precauzione al prigioniero che sembrava impazzisse sotto quei dolorosissimi morsi che si susseguivano senza posa e con crescente ferocia, chiedendogli:

— Parlerai ora?

— Sì!... Sì!... — urlò il disgraziato.

— Comprenderai la lingua dei Krahoa?

— Sì, parlerò, dirò tutto quello che vorrai... divorami... ma non farmi morire così...

— Avanti, — disse Matemate.

I Nuku e Koturé si lanciarono coraggiosamente fra i coni del formicaio, spazzando il suolo con i rami che tenevano in mano e percuotendo vigorosamente le gambe del prigioniero, per staccare le sanguinarie bestioline. Sbaragliati quei terribili battaglioni, tagliarono le liane e portarono il prigioniero davanti al capitano, senza però avergli slegate le braccia. Le gambe del disgraziato erano coperte di sangue. I maledetti insetti gli avevano strappata la pelle producendo però delle ferite più dolorose che pericolose. Guai se quel supplizio fosse durato ancora pochi minuti! Koturé, che teneva una fiaschetta piena d'acqua lavò il sangue, poi offerse al prigioniero una noce di cocco che fu vuotata d'un colpo.

— Ora parlerai, — disse Matemate. — Poiché comprendi finalmente la lingua dei Krahoa, che è poco dissimile dalla tua, risponderai a quanto ti chiederà quest'uomo bianco. Se esiti o ti rifiuti, ti avverto che tornerò a farti legare e che non ti leverò più dal formicaio. Non cercare poi d'ingannarci: tu sai che gli uomini bianchi leggono i pensieri degli uomini negri.

Il guerriero piegò il capo, come se fosse pienamente convinto di quella verità.

— Rispondi all'uomo bianco, — continuò l'implacabile Matemate, mettendoglisi a fianco con la scure di pietra alzata — e non dimenticare che la mia arma non fallisce mai.

— C'è un uomo bianco nel tuo villaggio? — chiese il capitano.

— No, — rispose il prigioniero. — C'era, ma ora è partito.

— Per dove?

— Non lo so. Ha preso la via del settentrione ieri mattina.

— Non sai dove sia andato? Pensa bene, prima di rispondere. Io leggo i tuoi pensieri, perché fra gli uomini bianchi sono uno stregone.

— Io non cercherò d'ingannarti, — rispose il prigioniero. — Non posso però dirti quello che non so. L'uomo bianco deve essere andato al suo grande canotto per rifornirsi di regali per la tribù dei Krahoa.

— Dove si trova il suo canotto?

— Alla foce del Diao, mi hanno detto.

— È lontano il fiume da qui?

— Appena due giornate.

— È molto tempo che l'uomo bianco è qui?

Il prigioniero s'immerse in un calcolo troppo difficile per il suo cervello, poiché si limitò a rispondere:

— Non lo so.

Matemate, quantunque più intelligente, non avrebbe risposto diversamente, non avendo i neo-caledoni, come la maggior parte dei popoli selvaggi, una nozione esatta del tempo.

— Sia, — disse il capitano. — Dimmi piuttosto perché lo avete accolto, invece di divorarlo.

— Perché ha ucciso prima il nostro capo, ci ha terrorizzati a colpi di tuono e poi ci ha colmati di regali. Egli ormai è il padrone della nostra tribù.

— Egli ha fatto rapire due uomini bianchi?

— Sì.

— Che cosa ne ha fatto di loro? — chiese il capitano, con ansia.

— Uno è vecchio e l'altro giovane, — disse il guerriero. — Il primo si trova imprigionato in una caverna e verrà mangiato domani sera, dopo il grande pilù-pilù...

— Cosa hai detto? — gridò il capitano, balzando in piedi.

— Che le sue carni serviranno di cena ai capi della tribù.

— Domani sera?

— Sì uomo bianco.

— Tu sai dov'è quella caverna?

— Lo so.

— Sapresti condurci?

Il keto ebbe una breve esitazione; vedendo però Matemate alzare la terribile scure di pietra, rispose subito:

— Sì, so dove si trova. Copre il lago sotterraneo.

— E l'altro? Il giovane?

— È partito con l'uomo bianco.

— Ah! canaglia! — urlò il capitano. — L'avevo previsto! Ecco il miserabile che ci tradiva! Ecco l'infame che ha guastato i miei strumenti astronomici! Ecco il furfante che segnalava a Ramirez la rotta della zattera. Un ragazzo e già così vile! Bisogna che l'uccida!...

Si era messo a passeggiare per la radura, in preda a una viva agitazione. Aveva avuto il sospetto che quel giovane marinaio fosse stato l'autore di tante bricconate, però, almeno fino allora, non voleva persuadersene. Se Ramirez lo aveva risparmiato, era evidente che lo aveva in qualche modo aiutato.

— Dov'è quel giovane uomo bianco? — chiese, a denti stretti, fermandosi davanti al prigioniero.

— Ti ho detto che è partito con il capo, — rispose il keto.

— Ah, me n'ero scordato! Ne sei proprio sicuro?

— Io non l'ho più visto.

— Vuoi salvare la tua vita?

— Non chiedo di meglio.

— Guidaci alla caverna che copre il lago sotterraneo.

— Lo farò.

— Dimmi: hai visto il canotto dell'uomo bianco?

— Sì.

— Sapresti guidarci fino al luogo dove si trova?

— Se lo vuoi, purché tu mi salvi la vita e non mi rimandi mai più alla mia tribù.

— Perché?

— Mi divorerebbero.

— Tanto temono la collera o le vendette dell'uomo bianco?

— Tremano tutti davanti a lui.

— Ah, furfante! — esclamò don José. — Sa imporsi perfino agli antropofaghi. Sarà un nemico formidabile da combattere, ma il tesoro della Montagna Azzurra non è ancora nelle sue mani. Vedremo chi dirà l'ultima parola... Matemate, ritorniamo all'accampamento e fà vigilare il prigioniero.

— Dormirò al suo fianco, — rispose il kanako.

— Manderai qualcuno al villaggio per condurre qui altri sei guerrieri e anche il giovane uomo bianco. Noi possiamo ormai fidarci dei Nuku, è vero?

— Tu sei il loro buon genio, che cosa puoi temere?

— Sarà sicura la fanciulla?

— È tabuata: che cosa desideri di più, capo bianco? Nessuno oserebbe toccarla.

— È vero: ormai è sacra.

Ritornarono all'accampamento, portando con loro il prigioniero e, dopo aver richiamato le sentinelle ed essersi assicurati che nessun pericolo li minacciava, si coricarono su mucchi di foglie fresche e profumate, mentre un guerriero partiva di corsa per il villaggio per chiedere aiuto e far venire don Pedro.

La notte trascorse perfettamente tranquilla. Nessun nemico osò avvicinarsi all'accampamento. Fu soltanto verso le dieci del mattino che don Pedro arrivò accompagnato da una altra mezza dozzina di guerrieri scelti fra i più robusti e che, oltre alle armi, portavano anche pesci, magnane e ignami.

— Il nostro momento è giunto, — gli disse il capitano, appena lo vide. — Questa sera il nostro bosmano verrà divorato, ma sappiamo ormai dove si trova e la sua salvezza dipende dal nostro coraggio.

— Sono ai vostri ordini, don José; — rispose il giovane — e sono convinto che riusciremo a strappare a quei miserabili quel brav'uomo.

— Facciamo colazione, don Pedro, e prima che il sole tramonti ci metteremo in marcia. Siamo in pochi, è vero, però sono sicuro dell'esito. Un esercito non passa inosservato: un drappello può sfuggire anche a cento occhi. Piomberemo su quelle canaglie come tanti fulmini e vedremo se sapranno resistere alle nostre carabine. Poi ci occuperemo di quel furfante di Ramirez.