Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/L'ultimo anno ad Altarana/VII
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L’ISPETTORE IGIENISTA.
In questo modo il Ratti vivacchiò fino alla visita annuale dell’ispettore, che egli aspettava con quasi fanciullesca impazienza, come se quest’uomo dovesse portargli un po’ d’aria di Torino da respirare, e avvicinarlo con la sua presenza alla città, a cui tendevano da un po’ di tempo tutti i suoi desideri. L’anno avanti non aveva visto nessuno, e l’ispettore di quest’anno non era più quello del primo: era un lungo professore grigio, dagli occhi intelligenti e malinconici, il quale passò di scuola in scuola col viso e i modi d’uno che visitasse delle case di pena. Quest’uomo, che aveva l’aspetto dello scoraggiamento incarnato, fece la sua ispezione in una forma nuova affatto per il nostro maestro.
Interrogando e guardando il Ratti, gli scolari, la scuola e le autorità, pareva preso per tutti d’una grande commiserazione. Per prima cosa, entrando dal Ratti, gli domandò con aria stanca e trascurata: — Quanti metodi le hanno già fatto cambiare?
E senza ascoltar la risposta, domandò daccapo: — Quanti ispettori ha già avuti?
Ma non aspettò la risposta neppur questa volta. E continuò: — Io non farò osservazioni sul suo metodo: se lei esperimenta che è buono, non ha che da continuare a seguirlo; se riconosce che è cattivo, lei solo lo può correggere con l’esperienza propria. In una visita io non posso giudicare il metodo suo, come non posso dargliene uno mio bell’e fatto. In ogni modo, veda di non cambiarne uno al mese, come fanno certuni. Ho trovato dei maestri che prendon la scuola come una palestra di ginnastica pel proprio cervello. Ce n’è che son sulla via d’ammattire. Le raccomando di non far l’uomo di genio. Si contenti della mediocrità. Noi abbiamo una grande scarsità di galline feconde e una grande esuberanza d’aquile inutili.
Il Ratti sospettò che volesse alludere al maestro Calvi, di cui aveva visitata la scuola prima della sua.
Osservando la proporzione degli assenti abituali con gli obbligati, scrollò il capo; da per tutto aveva trovato lo stesso. Quei due anni obbligatori di scuola si riducevano per la maggior parte a un anno scarso, di modo che prima dell’età della leva non avrebbero più saputo scrivere il loro nome. Si poteva ben dire di questa famosa scuola popolare: che diminuiva il numero degli analfabeti e accresceva quello degli ignoranti. Poi fece fare delle domande dal maestro, e quando questi passò alla grammatica, tentennò di nuovo il capo in atto compassionevole all’udire le definizioni e le regole che i ragazzi mettevan fuori stentatamente, con l’aria di ripetere delle parole d’una lingua straniera imparata a orecchio, senza comprenderle.
— Sta bene, — disse, — lei fa quello che può. Vediamo ora se sanno anche un poco di cose inutili.
E fece egli stesso delle domande semplici e chiare intorno a cose pratiche, in specie d’igiene: del modo di purificar l’acqua, di aversi riguardo in certi casi agli occhi e agli orecchi, di preservarsi da certe malattie in certe condizioni atmosferiche, di prestare i primi soccorsi in caso di cadute e di ferite, e simili cose, delle quali i ragazzi erano digiuni affatto.
— Insegni anche un poco di queste volgarità, signor maestro, — disse, — che non sarà tempo buttato via.
E con maraviglia del giovane, entrato in mezzo ai banchi, invece di esaminare i quaderni, esaminò i colli degli alunni, gli occhi e le dentature, corrugando la fronte in segno di malcontento. E disse: — Una tinozza alla porta di ogni scuola, con due getti d’acqua e del sapone: questo io metterei prima della ginnastica.
Poi, tornato vicino al maestro, invece di fare il solito discorso sullo studio, raccomandò ai ragazzi di sciacquarsi i denti e di lavarsi la bocca due volte al giorno. E sul serio, mentre i ragazzi credevan che celiasse, con accento affabile, spiegò loro come facevano i Giapponesi, anche la più povera gente, per conservarsi quelle bellissime dentature: si strofinavano i denti con le dita, empiendosi la bocca d’acqua, e sbattendola dentro con la lingua, soffiandola, schizzandola fuori con tanto strepito, che i servitori, nel far quel lavorìo la mattina nei cortili, svegliavano i padroni che dormivan nelle camere di sopra. — Così facendo, figliuoli miei, — disse, — essi macinano ogni cibo fino a ottantanni, e noi, a cinquanta, digeriamo male perchè mastichiamo peggio, e guastandoci lo stomaco ci inaspriamo l’animo e facciamo noi ed altri infelici. Vi par strano, non è vero? Eppure, non potete immaginare quanto miserie risparmierebbe al mondo un uso più abbondante dell’acqua fresca! Ma già, — concluse, girando la sguardo sulle pareti nere, — dove non si lava la faccia la scuola, non si lavan la faccia gli scolari.
E soggiunse al maestro: — Insista sulla pulizia almeno altrettanto che sulla grammatica, e creda a quella massima d’un gran filosofo: L’uomo, prima di tutto, dev’essere un bell’animale.
I ragazzi risero.
— Ah! pur troppo, — riprese l’ispettore, rivolto al maestro; — non sono soltanto i ragazzi che ridono di queste cose. Son troppi anche gli uomini maturi e altolocati che ridono ancora dell’acqua fresca, e della mancanza di spazio e di luce, e dell’immondizia, e del fetore, e dei malanni.
Infine si mise a scrivere lentamente il processo verbale senza badare al soprintendente che entrò tutto ansante, e si venne a piantare accanto al tavolino, voltando verso i banchi il suo facsimile di Vittorio Emanuele. Quand’ebbe finito di scrivere, l’ispettore si alzò, e disse a modo di commiato al maestro: — Lei diventerà ispettore, un giorno: tutti diventano ispettori. Ebbene, non faccia allora come tanti altri giovani suoi colleghi, che, appena arrivati all’ispettorato, impongono ai maestri, per distinguersi, tutto quanto hanno pescato di più astruso e di meno pratico nel mare magno delle novità pedagogiche.... Mi raccomando. E veda poi anche di non dimenticare in ventiquattr’ore d’esser stato maestro per ventiquattr’anni.
Detto questo, si voltò verso il soprintendente che stava forse aspettando un complimento, e gli disse: — La scuola è sporca.
E quando fu sull’uscio, gridò ancora ai ragazzi: — Studiate e lavatevi.