Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Il secondo anno a Camina/VII
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L’ASSALTO.
Il primo di marzo ritornò da Torino la moglie del delegato, vestita a lutto, e subito si rimise attorno al maestro, più appiccicosa e più patetica di prima, poichè dava al proprio sentimento la tinta del suo nuovo dolore, sincero o finto che fosse, e voleva riparare in fretta al mese perduto. Una mattina domandò al maestro se “a un bisogno„ avrebbe potuto andar a casa sua a far ripetizione al ragazzo, per prepararlo agli esami del ginnasio. Il giovane previde da questa domanda che ella avrebbe fatto da un giorno all’altro una di quelle dichiarazioni spiattellate, che chiudono tutte le scappatoie, e si domandò con viva inquietudine come avrebbe fatto a levarsi da quella stretta senza offendere a morte la signora o fare una figura ridicola; poichè al pensiero di avviare una tresca con lei non si arrestava neppure, ribellandovisi ad un tempo, invincibilmente, la coscienza, il cuore e la carne. Ma, con sua maraviglia, i giorni passavano e la dichiarazione non veniva: i discorsi e i modi di lei la facevan credere ogni momento imminente, e le labbra la ritenevan sempre. Tanto che al maestro finì con nascere il sospetto ch’ella volesse mantenersi così per capriccio nei confini d’un’amicizia sentimentale, condita di immaginazioni erotiche e di tenerezza materna, oppure (e ciò gli pareva più probabile) che si conducesse vistosamente in quella maniera per svergognar suo marito con lo spettacolo d’un incoronamento pubblico. Egli si fissò nel secondo sospetto quando seppe che gli odi s’erano ancora inveleniti tra marito e moglie dopo la morte della sorella di Torino, che aveva lasciato a lei una piccola eredità, e il marito l’accusava d’aver sottratto e nascosto delle cedole datele brevi manu dalla morente; onde litigi abbominevoli e accapigliature feroci. Una mattina, anzi, essa venne alla scuola con un occhio malconcio, e si valse anche di questo per dare un’espressione più dolcemente languida al suo sguardo. E allora il maestro, non dubitando più di non dover servire ad altro che a una vendetta visibile, si rassicurò alquanto. Ma non per questo l’uggiva meno quel corteggiamento ostentato, poichè già parecchi nel villaggio lo guardavano con cert’aria di canzonatura, e la maestra Gamelli, fra gli altri, offesa di vederlo in tanta intrinsichezza con la sua più maligna nemica, gli faceva, passandogli accanto senza guardarlo, un sorriso di manifesto disprezzo. Un giorno, finalmente, una parola del maestro Reale gli diede l’ultimo colpo. — Dunque — gli domandò questi incontrandolo — i ferri si scaldano? — Non servì ch’egli negasse risolutamente. — Sta all’erta, — gli disse quegli, chiudendo un occhio; — perchè l’uomo è vendicativo.... e ti farà qualche brutto tiro. — E gli soggiunse più da vicino, mandandogli nel naso una tanfata di branda: — Vuoi un consiglio da amico?... Lascia stare quel deposito. Tutto il paese ne parla. — A quella notizia, egli fu preso da un impeto d’ira e d’odio contro il marito e la moglie e contro lo scellerato destino che non lo lasciavan ben avere da nessuna parte, e decise di cantarla chiara alla signora alla prima occasione, di romperla anche, se occorreva, sgarbatamente, qualunque cosa ne fosse seguito. Fermo in questa risoluzione, ruminò per due o tre giorni il modo e le parole di cui si sarebbe servito, e un dopo pranzo d’un giovedì, vedendo la signora, secondo il solito, sull’uscio d’un piccolo orto di casa sua, dove pareva che l’aspettasse, andò verso di lei difilato con l’idea d’aggiustarle il colpo. Ma le sue prime parole lo disarmarono. Essa gli mosse incontro col viso inquieto, dicendo: — Salga un momento, signor maestro! Il ragazzo è malato! Sono in un affanno! Gli farebbe tanto piacere di vederla! Non si capisce che cos’abbia, Dio mio! — Affezionato com’era al ragazzo, il maestro salì subito, spinto anche da questo pensiero, che il vederlo entrare in casa sua così francamente avrebbe scemato i sospetti al marito. Entrando, domandò di lui: era partito la mattina alle sei per Torino, per un affare. Quella combinazione gli dispiacque. Attraversato due camere, entrò in quella del ragazzo che lo salutò con un sorriso, mettendosi a sedere sul letto. Il maestro rimase stupito. Benchè non avesse l’occhio medico, vide alla prima ch’ei non doveva avere che un raffreddore leggero: l’occhio era chiaro, il colore sano, la voce piena; dalle prime sue parole capì che avrebbe voluto alzarsi: gli balenò l’idea che la madre l’avesse fatto stare a letto per forza, per un suo fine. Imbarazzato, balbettò qualche parola, impaziente d’uscire. Ma alla signora pareva che la vista del malato avesse accresciuto l’affanno. Quando furon nell’altra camera, tutt’a un tratto, diede in un singhiozzo, e sclamando: — Ah! caro maestro, mi dica che non sarà nulla! — gli gettò le braccia al collo e gli abbandonò il capo sul petto. L’inganno, la sfacciataggine, il pensiero del ragazzo lì accanto, quella testa impomatata e quella pinguedine frolla gli rivoltaron l’animo e i sensi con tale violenza, ch’egli andò a un pelo dal respingerla con uno spintone: si levò le mani dalle spalle di mala grazia, e facendo un passo indietro, le disse con accento brusco, senza guardarla: — Ma se non ha nulla! Perchè si vuol affannare?... — Alla signora montò un’ondata di sangue al capo; ma fu pronta a contenersi, fingendo stupore e indignazione ch’egli avesse male interpretato l’atto suo; e col viso stravolto dalla rabbia, di disse: — Oh stiamo a vedere... O che cos’ha creduto, impertinente.... imbecille? — E tese il braccio verso l’uscio. Ma egli l’aveva già preso.