Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Bossolano/XV
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Bossolano - XIV | A Torino | ► |
ULTIMI GIORNI.
Ma il Ratti pure visse tutto chiuso in sè gli ultimi mesi. Essendo stato bandito ai primi di maggio un concorso a sedici posti di maestri nelle scuole di Torino, il giovane aveva mandato subito le sue carte, e d’allora in poi, considerando come impegnato il suo onore di fronte al paese, s’era messo a ripassare con nuovo ardore le otto materie d’esame, che da otto anni aveva tante volte rilasciate e riprese. L’idea d’andare a fare il maestro a Torino, dove sarebbe stato sicuro della stabilità del suo posto, e avrebbe potuto frequentare corsi universitari, conferenze, biblioteche, e colleghi ed amici colti, non avendo altri vincoli che l’orario e altri superiori che le autorità scolastiche, gli dava un impulso vigoroso a tutte le forze, come la visione d’una terra promessa. Egli era in quella età così propizia agli studi, nella quale all’ardore della gioventù si unisce già la tenacia degli anni maturi, e s’ama ancora il mondo abbastanza da desiderar di inalzarsi ai suoi occhi, ma non più tanto che costi un sacrifizio il separarsene per chiudersi tutto tra i libri; in quella età feconda, in cui preparandosi a entrare quasi in una seconda giovinezza, l’uomo ritrova per breve tempo una parte delle speranze e degli entusiasmi coi quali entrò nella prima. Per molti anni appresso egli si ricordò con vivo piacere di quelle fresche mattinate di Bossolano, quando si levava prima dello spuntar del giorno per mettersi a tavolino, di quelle ore di pace e di libertà assoluta dello spirito, nelle quali pensando di lavorar solo in mezzo al villaggio addormentato, anzi tra milioni d’uomini ancora dormenti, gli pareva di precorrere l’umanità sulla via del lavoro, di guadagnar tempo sulla natura e di duplicare la propria vita: belle ore d’operosità facile, silenziosa, non turbata, ma eccitata dai fantasmi della notte e dell’alba; tra cui gli si presentava con nuova insistenza il viso di Faustina Galli, come un segno misterioso che ei l’avrebbe rivista tra poco. E gli pareva ignobile e assurdo d’avere un giorno cercato l’ebbrezza del bicchiere, invece di quella che beveva ora ogni mattina dai suoi libri e dalle sue speranze! E con l’immaginazione accesa dallo studio, vedendo spuntare e allargarsi all’orizzonte la chiarezza bianca del giorno, pensava con alterezza che anche la sua mente si andava rischiarando a quel modo, e che un giorno forse vi si sarebbe levato il sole.
Quando partì per Torino, dove lo chiamò una lettera del municipio per il venticinque di luglio, tutti gli fecero dei buoni auguri cordiali, e lo salutarono con una espansione che in nessun altro villaggio aveva ritrovata. Bisogna anche dire che molti, per il momento, erano in una buona disposizione d’animo. Il parroco aveva finalmente ottenuto il sussidio per la costruzione del nuovo campanile, e il geometra lavorava con passione al disegno, dicendo che voleva fare una piccola torre di Giotto, un amore di torre, che si sarebbe dovuta far guardare di notte, perchè non se la portassero via. Il sindaco era stato decorato delle insegne dell’ordine della corona d’Italia. L’ispettrice aveva inaugurato un vestito nuovo. E il maestro Delli, di cui il figliuolo maggiore era stato promosso agli esami, aveva ripreso (un gran segno) le sue visite quotidiane all’edifizio scolastico, al quale non mancava più che l’intonaco. Anche la maestrina Riccoli, essendosi molto quetata, era più contenta di prima. La sera del suo giorno onomastico alcuni giovanotti le avevano fatta sotto la finestra una serenata rispettosamente scherzosa, con flauto, ocarina e fisarmonica, ed essa, dando una prova d’audacia straordinaria, aveva staccato dai vasi del davanzale, senza però mostrare il viso, e lasciato cader nella strada alcuni fiori; coi quali pareva che avesse voluto gettar giù una volta per sempre tutte le sue vane paure e le sue false immaginazioni. E la maestrina pure salutò il suo collega con tenerezza. Perfino il delegato, che aveva finito a persuadersi ch’egli non fosse un petroliere feroce, fu affabile con lui, e gli diede dei consigli paterni. — Lei, signor Ratti, va in una grande città, in un ambiente pericoloso per un maestro giovane. Stia in guardia. A Torino, che che ne dicano, c’è un partito sovversivo spaventevole: è una città minata da un capo all’altro. Cercheranno di tirarlo nelle loro congreghe. Già so che ci hanno tirato mezzo il corpo insegnante. Stia in guardia, le dico. Adagio con le nuove conoscenze... pochi amici sicuri... sane letture.... E sopra tutto educare la gioventù ai buoni principî perchè ci sono soltanto i ciechi o i traditori che possan negarlo: noi siamo sull’orlo dell’abisso.
L’ultimo con cui si trattenne fu l’organista, il quale era felice d’una nuova trovata che aveva fatto. Un amico di Milano gli aveva mandato una raccolta del giornale Il travaso delle idee, del famoso Tito Livio Cianchettini, ed egli l’andava leggendo con gusto infinito, trovandovi qua e là espresse le sue aspirazioni con quella indeterminatezza fantastica e minacciosa che a lui piaceva. Una cosa più che altro l’aveva entusiasmato. Il Cianchettini, dopo aver cercato lungo tempo due vocaboli che designassero con una immagine efficace le due grandi classi nemiche della società, dopo aver adoperato a volta a volta, senza mai esserne contento, i termini di signoreggianti e signoreggiati, tenenti e tenuti, e altri simili, ne aveva in fine escogitato due che, secondo lui, erano un lampo di genio: — suonatori e suonati. Ah! sì; le vere parole eran quelle; il mondo era proprio diviso in suonatori e suonati; nessuno poteva sperare oramai di inventare qualche cosa di più eloquentemente ironico e giusto di quella definizione: e da quindici giorni egli non usava più che quelle due parole, gridandole cento volte al caffè in mezzo al solito crocchio dei suonati, per metter la tremarella in corpo ai suonatori che sentivano. Diceva di voler scrivere sulle sue carte da visita: Tal dei tali, di professione suonatore, di condizione suonato. E rideva a crepapelle. E su questo soggetto s’aggirarono i suoi scherzi fino all’ultimo momento. — Forse — disse al Ratti — non ci rivedremo per un pezzo. E se è così, tanto meglio; vuol dire che ci rivedremo a cose finite. — E siccome considerava sempre il maestro come un compagno di congiura, benchè questi non avesse mai fatto esplicita adesione alle sue idee, così lo incaricò di salutare gli amici di Torino, senza dir quali, intendendo di dire tutti i vagheggiatori del gran crac, i nemici del baraccone, in una parola, i suonati. — Dica loro — gli disse — che siamo pronti anche noi, nei piccoli paesi, e che quando sarà il gran giorno, ci troveranno a suonare accanto a loro. Oh perdio.... se suoneremo!