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II
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III.


     Basti che abbiam finor corso le terre:
Benchè a cercar gran parte sia rimasa;
Tempo è ch’uom dentro si raccoglia e serre.
     E, veduto il terren, veggiam la casa,
Là dove si ristora ogni fatica,
E si ripongon frutti, ordigni e vasa.
     Del sito poco avanza ch’io vi dica,
Ne dissi su, quando parlai dell’aria,
Ond’uom continuamente si nutrica.
     Siede la villa in molte parti varia,
Imiti l’edificio il corpo umano,
Che qual negli usi, tal ne’ membri varia.
     Sieda alta alquanto, ed abbia inanzi il piano
E per più maestade, e per più pregio,
Gli arbusti, e i colti tengasi per mano.
     Se avrà dinanzi all’uscio cammin regio,
O via, che intorno intorno la ghirlande,
Fia come a donna bella un giunger fregio.
     E benchè voglia autor famoso e grande,
Che da pubblica strada ella si scosti,
Io desio che la cinga a tutte bande;
     Ancor che tanto, o quanto più vi costi
L’aver talor de’ forestieri in villa:
Tengan gli avari i beni lor riposti.

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     E mi pare una vita assai tranquilla,
Ch’uom non possa di passo a lite trarvi,
O di terra o di siepe che partilla.
     E se volete a villa ricovrarvi,
Vi bisognan degli agi, e de’ diporti;
Che alle donne non sia duro lo starvi.
     Voi non siete de’ padri e de’ consorti
Alle femmine loro aspri e selvaggi,
Ma de’ gentili e nati nelle corti:
     Siete, com’esser den gli uomini saggi,
Da cui s’acquista onor, util s’accresce,
E nè a strani, nè a suoi si fanno oltraggi:
     Non imitate alcun, cui non incresce,
Pur ch’ei si goda, ch’altri pianga e crepi,
Lascia in prigion le donne, e di casa esce.
     Non son le donne bestie da presepi,
Bisogna che piacer lor si procuri,
Ch’altro vedan talor ch’arbori e siepi.
     Oltra che fan più onesti e più sicuri
Gli alberghi, vie di passo, innanzi, o a canto,
Fanno anco i giorni men noiosi e duri.
     Se appresso avrà qualche magion di santo,
Ove ir possiate almen le feste a messa,
Vi dico ch’ella val quasi altrettanto;
     E s’è tal, ch’a’ suoi dì vi si confessa,
E vi si dà battesmo e talor cresma;
È un tesoro, una ricchezza espressa;

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     Che potrete abitarvi e di quaresma,
E d’ogni tempo e voi e la famiglia,
Me’ che se fosse la città medesma.
     In villa al gran dispendio si pon briglia,
Il più dell’ore in opra si dispensa,
E pochissima noia vi si piglia.
     Poco mal vi si fa, men vi si pensa,
E se hanno le città più passatempi,
Hanno anco di perigli copia immensa.
     Cercan gli uomini d’oggi il passar tempi,
Ed io, che son d’opinïon diversa,
Vorrei cosa che fosse arresta tempi.
     L’ambizione al viver santo avversa,
Che il più de’ nostri dì fa men sereni,
In villa raro alberga, nè conversa.
     Oh troppo fortunati, se i lor beni
Conoscesser color, che si stan fora
Tra colti poggi, e valli e campi ameni!
     Cui dà benigna terra d’ora in ora,
Quel, che altrui fa bisogno, agevolmente,
Nè suon di tromba i volti ivi scolora:
     E se non han gli inchini della gente;
Nè men han chi li turba, e chi gli scuote
Dal riposo del corpo, e della mente.
     O felice colui, che intender puote
Le cagion delle cose di natura,
Che al più di que’, che vivon, sono ignote;
     

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     E sotto ’l piè si mette ogni paura
De’ fati e della morte, ch’è sì trista;
Nè di volgo gli cal, nè d’altro ha cura!
     Ma più felice chi del mondo vista
La parte sua, non vi s’appoggia sovra,
Aitato dal saper, ch’indi s’acquista;
     Ma in villa, ch’è sua tutta, si ricovra,
E degli anni, e dei dì, c’ha speso indarno,
A se stesso, ed a Dio parte ricovra.
     Così potess’io tra Sebeto e Sarno,
Menar omai la vita, che m’avanza,
Con le ninfe del Tevere, e dell’Arno,
     Dalle quai fei sì lunga lontananza:
E de’ signor sgannato di qua giuso
Fondar nel re del cielo ogni speranza.
     Deh sarà mai pria che giù cada il fuso
Degli anni miei, che a piè d’una montagna
Mi stia tra colti, ed arbori rinchiuso,
     E con la mia dolcissima compagna
(Qual Adamo ul buon tempo in paradiso)
Mi goda l’umil tetto e la campagna;
     Or seco a l’ombra, or sovra il prato assiso,
Or a diporto in questa e in quella parte,
Temprando ogni mia cura col suo viso:
     E ponga in opra quel c’han posto in carte
Cato e Virgilio, e Plinio, e Columella,
E gli altri che insegnar sì nobil arte.

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     E di mia mano innesti e pianti e svella
La spessa de’ rampolli inutil prole,
Che fan la madre lor venir men bella;
     E con le care figlie, e se ’l ciel vuole
Spero co’ figli a tavola m’assida;
La state ai luoghi freschi, il verno al sole;
     E di mia man fra lor parta e divida
L’uve, e le poma; e s’io mi desti o corche,
Con loro io mi trastulli e scherzi e rida.
     Bocche mi paian di balene e d’orche
Le porte de’ palagi, e le colonne,
. . . . . . .
     E ’l Vasto, e quattro o cinque illustri donne
Ad inchinar talor sol mi riserbe;
Cui servo in chiare, ed in oscure gonne.
     I pavimenti miei sien fiori ed erbe;
Rami i tetti, e negre elci i marmi bianchi;
E botti l’arche, ove il tesoro io serbe:
     Nè curi ire a palazzo, o stare a’ banchi,
E dimandar che faccian Turchi o Galli;
Se arman di nuovo, e se ambiduo son stanchi.
     Non sia obbligato a suono di metalli
Giorno e notte seguir picciol zendado,
Forbir arme, e nutrir servi e cavalli.
     E qual si sia, contento del mio grado,
Non cerchi di chi scende, o di chi poggia;
O che altri m’abbia in odio, o gli sia a grado

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     E quando i dì son freddi, o versan pioggia,
Con la penna io, le femmine con l’ago
Passiam quelle ore in cameretta o in loggia.
     Se mai vi giungo, e’ mi parrà già pago,
Ch’abbia negli arbor miei maggior tesoro,
Che non avean quei, che guardava il drago.
     Non avesse altro bene, altro ristoro,
Che scostar l’uom dalla città corrotta,
Comprar si dee la villa a peso d’oro.
     Mi meraviglio (a tal vedo ridotta
La fera turba, che qui dentro alberga),
Come il terren non s’apra, e non ne inghiotta;
     O come il mar tant’alto un dì non s’erga,
Che avanzi questi monti, e ’n noi s’attuffe,
E in un punto ne affoghi e ne sommerga.
     La poca fè, le ruberie, le truffe,
Le proprie utilità, l’altrui gravezze,
Le tante uccision, le tante zuffe,
     Le pompe, le lascivie e le mollezze
Non men nelle berrette, che ne’ veli
Le bestemmie, il mal dire, e le alterezze,
     E le altre scelleragini crudeli,
Il cui lezzo là su credo che saglia,
Non so come soffrir possano i cieli.
     Ma quando d’altrui vizi a voi non caglia,
Per fuggir molte cose vie men gravi,
Stimo, la villa ogni alto pregio vaglia.

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     L’urtar de’ giovanetti, e cavai bravi;
L’accompagnar signori, il seguir cocchio;
Il far noi stessi in mille guise schiavi,
     Il visitar sovente, il gir con occhio
Com’uom, ch’abbia nemici, e questi e quelli,
Or salutar col capo, or col ginocchio;
     Il veder tanti e tanti dottorelli,
C’han sì contrarî al titolo gli aspetti,
Che farian noia a statue il vedelli.
     Vedo ir con toga mille garzonetti
Degni ancora di bulla, e di pretesta,
E maestri degli altri vengon detti.
     Legge farebbe il re bella ed onesta,
Se ’l termine negli anni statuisse
Al tor di grado ed al cangiar di vesta.
     Senza cagion dal Tosco non si disse,
Per mostrar, che ’l saver venga col tempo:
Nestor, che tanto seppe, e tanto visse.
     Uom che qual voi sappia partirsi il tempo,
Dico c’ha in villa ognor mille solazzi.
Ma fabrichiamla omai, ch’egli è ben tempo.
     Io non vo’, che le ville sian palazzi,
Che ingombrin molto, e chi vi vien, che veda
Terren, dove men s’ari, che si spazzi.
     Quanto in grandezza più la casa ecceda,
Più vi dà costo, e più men vostra fasse;
Che or questi, or quegli avvien, che la vi chieda.

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     Salvo se tor palagio v’aggradasse,
Perchè talvolta (e veramente il penso)
L’alta donna del Vasto ivi albergasse.
     S’egli è ciò, che sia regia io do il consenso
Che ’l mal, che un solo incomodo v’adduca,
Col ben di mille glorie ricompenso:
     Che avervi e lei, e i suoi e ’l vostro Duca,
Credo che a voi parrà senza esser empio,
Che ’l terren vostro a par del ciel riluca.
     Qual sia ’l piacer, sinora già ’l contempio,
Veder correre il mondo, o caldo o gelo
A casa vostra come a sacro tempio?
     E se Ischia un tempo a Samo, a Creta, a Delo
Fece invidia, ed a Cipro, ed a Citera,
La vostra villa or farà invidia al Cielo.
     Oltre il diporto, che da voi si spera,
Ella farà con gli occhi a mezzo il verno
Nel poder vostro autunno e primavera.
     Nè sia tanto il terren, che al suo governo
Non aggiungan le forze di chi ’l prende;
Onde il vicin ne rida, e l’abbia a scherno.
     Poca terra, e ben colta assai più rende,
Che molta e mal trattata, ond’uom dovria
Tor men di quel, che ’l braccio suo si stende.
     Benchè alcun voglia, che la villa o sia
In calda parte o in fredda o in erta o in piana,
Il volto esposta al mezzodì si stia.

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     Nei luoghi caldi io vo’, che a tramontana
Guardi, e ne’ freddi all’austro, e ne’ temprati
D’ond’esce il marzo, dicon, la diana.
     Sia grande pur sì, che vi stiano agiati
Il villico, il signor, e gli animali,
Gli ordigni chiusi, e i frutti conservati.
     Che se fan danno i tetti ampi e reali,
Qualor la villa di strettezza pecchi,
Porta ancor degli incomodi, e de’ mali:
     Che avvien che ’l frutto o infracidisca o secchi,
S’è mal riposto, o che l’un l’altro s’urti,
O che verme sel roda, o uccel sel becchi.
     E rado giungon dal dì lungo ai curti
Le fatiche degli uomini, e de’ buoi,
E spesso incontran le rapine, e i furti.
     E se non ha l’albergo i membri suoi,
Comprate pur, se ’l loco non è angusto,
Sì che possiate fabricarvi voi,
     E farvi delle stanze a vostro gusto,
Or una, or altra agli usi accomodata,
Qual di decembre buona, e qual d’agusto.
     L’aver villa ben concia, e bene ornata,
Ove per poca agevol via si monte,
Fa che sia dal signor più frequentata;
     Che ogni giorno vi vada, ognor vi smonte:
E del padron le giova e giorno e notte,
Via più che la collottola la fronte,

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     Sianvi sue volte, ove s’arringhin botte,
E più del vino, che ’l poder produce,
E più m’aggraderian se fossen grotte;
     Il vento, l’uman piè, l’aria, e la luce
Entrin per Borea, e ’l men che può le guarde,
Non che scaldi, il pianeta, che ’l dì luce.
     Stanza non vi si appressi, ove foco arde,
O che sporcizie accoglie: o fuor le scaccia,
E se vi sia, l’emenda non si tarde.
     La corte spaziosa, ma non giaccia
Sì ch’entro e fuor s’allaghi al tempo pluvio,
E fango eterno aria mortal vi faccia.
     Sia larga assai, nè curi di Vitruvio,
Acciò che dentro più animali accolga,
Che non ne salvò l’arca dal diluvio.
     Qui si veda il pavon, che in giro sciolga
Sue vaghe gemme, e spregi ogni altro augello,
E guardandosi il piè talor si dolga.
     E ’l pavon d’India peregrin novello
Augel, senben non ha sì nobil coda,
Non men buon morto, che quel vivo, bello.
     Ivi di dì, e di notte il romor s’oda
Delle torme dell’anatre e dell’oche,
Guardia fedel contro a notturna froda:
     E striduli pulcini, e chiocce roche,
E galline straniere e del paese;
Molte di queste, ma di quelle poche,

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     V’abbian lor piazza, ove di mese in mese
Sul vivaio, sul polvere e sull’aia
Si trovin da beccar senz’altrui spese.
     E ’l bue, che steso mugghia, e ’l can che abbaia
Le notti, e ’l gallo, che al villan dà legge,
Un’armonia dolcissima vi paia.
     E serrar vi si possa armento e gregge
Ad un bisogno, se aquilon protervo
Fa che di neve il monte e ’l pian bianchegge.
     Qui cavriuol domestico, lì cervo,
Cui sonante monile il collo attorca,
Or coi fanciulli scherzi, ed or col servo:
     E si veda la grassa e stanca porca
Con più figli attaccati alle sue poppe,
Ch’or sul letame or sul terren si corca;
     E ’l fico e ’l pero, che austro e borea roppe,
Da rozza man cavati in varie foggie,
Sian di questi animai l’urne, e le coppe.
     Abbia il cortile sue capanne e loggie,
Che i maggior legni, scale, aratri, e carro
Riparino dal caldo e dalle pioggie;
     E l’aia dentro, acciò che ’l grano, e ’l farro
Si scotan dalle paglie, e fuor non trove
Da involar il villan ladro bizzarro;
     Ed ampi tini, e laghi a tetto, dove
L’uva si prema; e se gran sol l’aggiunge,
Non arrughi, o marcisca, qualor piove.

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     Il granaio dall’aia non sia lunge
Nè dal tin lunge la cantina voglio,
Buono architetto sempre li congiunge.
     Siavi loco da farsi e servarsi oglio,
Da quel diverso, che del vin già dico,
Sia, s’esser può, sotto alcun tufo o scoglio;
     Esposto (acciò che sia caldo ed aprico,
Senza accendervi foco) al mezzogiorno;
Perchè ’l fumo è dell’olio gran nemico.
     Ampia sia la cucina, ed ampio il forno,
Che pascan molti; e le sere aspre e gravi,
Il rozzo stuol seder vi possa attorno:
     A volta, non a tetto, ancor che gravi,
Che non teman di pioggia, che li bagne,
Nè di favilla, che s’attacchi a’ travi.
     Goda la villa i monti, e le campagne,
E parimente il mare, e la riviera,
Se ben non ode, quando freme e piagne.
     Sia fabbricata, e sieda in tal maniera,
Che abbia di verno il sol, di state l’ombre
Il più del dì, se non da mane a sera.
     Muro non tema incontro, che l’adombre,
E siavi giardin pubblico e segreto,
Ove uom talor sue gravi cure sgombre:
     E benchè angusti vigna, orto, oliveto,
E prato; e vi desio qualche selvetta,
Che faccia il loco via più fresco e lieto.

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     Se selva avrà, che ferro ivi si metta
Non ho timor, che piè le tronchi o chiome:
Tanto il veder di selva a voi diletta.
     Che fate? ohimè, sin di qua veggo come
Vi siete tutto scolorato in volto
In udir solo della selva il nome!
     Vedo il pallor, che in riso s’è rivolto;
E vi si fan vermiglie ambo le guancie,
Come uom che in fallo all’improviso è colto.
     Soffrite, ch’io con voi mi rida e ciancie:
Parmi d’udir, che voi tra’ denti dite:
Le mie piacesse a Dio, che fosser ciance.
     Ed io vi dico: fratel mio, seguite,
Seguite amor, che sebben v’arde, e sface;
Men noia è il far l’amor, che l’aver lite.
     Seguite pur amor quanto vi piace,
Che sembra un’alma, dove amor non stanze,
Casa di notte senza foco o face:
     E un dì vi mostrerò certe mie stanze,
Là dove io provo appien che un cor gentile
Più deve amar, com’ più in età s’avanze.
     Agli ipocriti falsi, al volgo vile
Lasciate questi scrupoli di fama,
E voi seguite il vostro antico stile.
     Vergognisi d’amor chi vilmente ama,
Ed arde e langue di lascivo amore;
Non chi sol gloria a la sua donna brama.

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     Oltre che a sempre amar v’inclina il core
Tutte le leggi voglion ch’esser deggia
Tale il buon cortigian, qual è il signore.
     E se anzi il dì la barba vi biancheggia,
Basti che ’l corpo ha le sue usate tempre;
E morbida è la guancia, e vi rosseggia.
     Ardete, e ’l vostro ardor mai non si tempre,
Che ’l nome suo, che Venere a voi diede,
Di ragion vi condanna ad amar sempre.
     Poichè parlando, ch’uom non se ne avvede,
Dove alla villa io mi credea d’andarne
Alla selva d’amor portonne il piede,
     Qui già tant’anni avezzo di portarne,
Qui vo’ che si finisca il cammin nostro:
Che in miglior parte uom non potria lasciarne.
     Qual il poder si compri, io v’ho già mostro,
A consiglio d’antichi, e di moderni,
Perchè sia buono, e degno d’esser vostro.
     Se gli affanni domestici, o gli esterni
Non m’impediscon, forse un dì di questi
Dirò come si tratti e si governi.
     Intanto io pregherò, ch’ella vi presti
Il suo favor fortuna nel comprarlo;
Sì che da desiar nulla vi resti:
     Nè pur vengan sovente ad onorarlo
Flora e Pomona, e Cerere e Leneo;
Ma non possan mai punto abbandonarlo.

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     E quanto scrisse il Mantovan, l’Ascreo,
Il Greco e ’l Moro, e chi ’n sul Tebro nacque
Di buon vi venga, e fuggane di reo:
     E piaccia sempre a voi più che non piacque,
Ed al produrre, ed al servar de’ frutti,
Propizie egli abbia le stagioni e l’acque,
L’aure e le stelle, e gli elementi tutti.