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Il giorno di S. Giovanni del 1859 sarà sempre un giorno memorabile nei fasti i più gloriosi della storia d’Italia. La battaglia di Solferino e di S. Martino, che decise della liberazione della Lombardia, che fece acquistar tanto vanto agli Italiani, che più d’ogni altra manifestò il diritto che ha questo popolo a divenir nazione, fu in quel giorno combattuta e vinta dagli alleati su gli Austriaci. Erano tre eserciti che stavano a fronte, era una giornata di sangue, una giornata da lungo tempo attesa, sospirata!.....

La notte colla sua oscurità copriva quelle vaste estensioni di terreno, sparse di sangue e di cadaveri. Quanti valorosi caddero nel cimento terribile; quante famiglie attesero ansiosi, trepidanti i loro cari, e più non li rividero! La terra, per cui si erano battuti, la quale aveva bevuto il loro sangue li copriva per sempre, mentre le loro anime volavano a Dio martiri e preconizzatrici del futuro completo riscatto!

Frattanto si trasportavano negli spedali più prossimi i poveri feriti; succedeva alla prima scena di furore un’altra pietosa, ma non meno lacrimevole, nel tempo stesso che i soldati Italiani e Francesi scampati alla morte, accendevano i fuochi del bivacco sul campo di battaglia conquistato con [p. 4 modifica]tanto valore. Fra gli altri feriti a S. Martino eravi un giovane volontario. Egli aveva per due volte dato l’assalto alla bajonetta agli Austriaci, incitato dall’esempio e dalla voce del nostro magnanimo Re; ma al terzo attacco, ferito mortalmente nella testa, era caduto riverso a terra. Appena adagiato nel letto dello spedale di Lonato, accorse il medico, esaminò la ferita, la medicò, e tosto fu chiamato ad assisterlo una di quelle pietose sorelle di carità, che intente sempre al bene altrui, erano accorse volenterose a soccorrere i feriti nelle patrie battaglie.

Giunta al luogo ove giaceva l’infermo, la monaca alzò timidamente lo sguardo, che teneva a terra su quel volto abbattuto. A quella vista un improvviso tremito tutta l’assalse, serrò con moto istantaneo gli occhi, e le sue guance già pallide, divennero del color della morte. Pure si fece animo, ascoltò con attenzione quanto il medico le ingiungeva; ma quando questi si fu allontanato per prestar le sue cure ad altri infelici, le mancarono le forze, spossata si gettò a sedere su di una seggiola che le stavo dappresso, e parve che in quell’anima timida si fossero riaffacciate delle funeste memorie.

Il ferito, abbandonata la testa sul guanciale, abbandonate le braccia sulla candida coperta, con gli occhi chiusi, il respiro tenuissimo sembrava già morto; se non che i fiochi lamenti che per lo spasimo della ferita gli uscivan dalle labbra eran segni manifesti ch’egli viveva, viveva tuttora al dolore e ad un agonia peggiore di mille morti. Anche per le vaste corsie non risuonavano che grida, gemiti, lamenti di tanti poveri feriti, che proprio straziavano il cuore ad udirli. Tutto ad un tratto, come se il ferito si fosse destato da un lungo sopore, volse smanioso intorno la testa, e mormorò quasi inintelligibilmente un nome, che terminò in un gemito più acuto, più doloroso di tutti gli altri. A quel nome, a quel gemito la monaca balzò in piedi, si scosse tutta, e con le candide mani tirò indietro con moto di terrore le bende che le cuoprivano le tempie: si ricom[p. 5 modifica]pose, intrecciò le mani, e su quelle appoggiò la fronte, e più col cuore che colle labbra esclamò: Dio mio, Dio mio assistetemi voi!