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pose, intrecciò le mani, e su quelle appoggiò la fronte, e più col cuore che colle labbra esclamò: Dio mio, Dio mio assistetemi voi!

II.


Sei anni avanti le cose che noi raccontiamo, l’Emma, bella e gentil giovinetta orfana, abitava in Firenze con un suo zio e tutore ad un tempo. Ella era promessa sposa ad un giovane di condizione eguale alla sua, ch’ella amava immensamente, e dal quale era con pari affetto corrisposta. Mancavano pochi mesi alle nozze. Chi può dire la felicità dell’Emma? La sventura d’esser orfana era stata di molto diminuita dall’affetto, si può dire paterno, e dalle cure sollecite del suo zio; ora ella trovava un appoggio, una guida nel suo sposo; fra breve ella sarebbe a lui unita per sempre con nodo indissolubile, avrebbe seguito il destino di lui, avrebbe avuto in lui un compagno col quale dividere i dolori e le gioje della vita.

All’improvviso la morte di un ricco e lontano parente del giovane, lo fece istantaneamente cangiar di fortuna. Allora egli ebbe la debolezza di lasciarsi vincere da un vano orgoglio; gli sembrò che la modesta condizione della sua giovine fidanzata non fosse più degna del suo nuovo stato; introdotto nelle alte società cedè allo splendore di una ricca dote, di un nobile parentado, e non ebbe scrupolo di tradire colei che gli aveva consacrati tutti gli affetti del suo cuore. Quando ella credè d’accorgersi che l’affetto dello sposo verso di lei fosse alquanto illanguidito, gliene chiese trepidando la cagione, e non ne ebbe che delle risposte vaghe, delle proteste d’amore che non erano dettate dal cuore. Poco dopo, col pretesto di dover fare un viaggetto di pochi giorni, egli s’allontanò da Firenze, e tosto che fu partito non si ebbero più nuove di lui. Solo qualche tempo dopo rispose ad una lettera, che lo zio della fanciulla indignato gli diresse, mettendo in campo un visibilio di scuse, e finendo poi col dire ch’egli non si sentiva più inclinato ad