Capitolo XV

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XIV XVI
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XV.


La lettera di miss Yves mi aspettava all’albergo. È la sola che non ho conservata. La bruciai dopo averla letta e riletta infinite volte, in un impeto d’orgoglio, di gelosia, non potendo sopportare presso a me certe parole che mi dovevano guarire col ferro e col fuoco e solo mi mettevano una febbre amara, che conoscevo, che aveva prevista, che tanto più m’irritava quanto più ero sicuro di vincerla. Non mi ricordo l’esordio troppo bene. Miss Yves cominciava, mi pare, con attribuire in gran parte alla sorpresa il suo turbamento della sera precedente, e parlava poscia con gratitudine delle lettere in cui le avevo aperto l’animo mio: prometteva serbarne effettuosa memoria. Non dimenticai una sola delle parole che seguivano. [p. 136 modifica]

«Vi hanno per me invincibili ragioni di non andare più oltre. Se lo facessi, mi risospingerebbero indietro i rimproveri del mio passato, l’impero del presente, le minaccie dell’avvenire.

«Mi sono convinta, dopo una notte di riflessioni non piacevoli, che devo essere ancora più dura di così. Fin da quando c’incontrammo la prima volta con simpatia ebbi lo stesso concetto della mia situazione che ne ho in questo momento. Io fui debole anche iersera. Devo impedirmi simili debolezze per l’avvenire, devo pregarla di considerare cessata ogni relazione fra noi, meno che nella memoria. Se ella non accetta e cerca vedermi ancora dovrò mostrare d’aver perduta anche la memoria di Lei.

«Non è vero ch’Ella non m’infliggerà un simile dolore? Ciò che Le ho scritto è la mia inflessibile volontà. Se questo può temperare la sua passione, sappia che io ho amato anni sono come non potrò amare mai più e mi sarebbe vergogna se lo potessi. Ella non saprebbe rendermi nè felice nè infelice quanto un altro mi ha resa.»

La mia mano vibrava di commozione tenendo [p. 137 modifica]questa lettera in fiamme. Erano parole false che s’incenerivano, era un’artificiosa freddezza che ardeva; tutte queste inutili menzogne sparivano fra lei e me. E se hai amato, le dicevo abbracciandola in mente con passione e con ira, se hai amato altri prima di me, cosa m’importa? Puoi tu sapere, tu che mi ami, quanto ti renderò felice? E qual è, in nome di Dio, il passato, qual è il presente, qual è l’avvenire che può toglierti a me?

Risposi sull’atto, così:

«Ho bruciata la Sua lettera. Un giorno, quando Iddio ne avrà uniti, Le potrebbe dolere ch’io la avessi serbata.»

Recato questo biglietto, di mia mano, alla posta, mi sentii sufficientemente tranquillo e andai a vedere la città.

Per verità pensavo molto più al momento in cui miss Yves mi avrebbe veduto alla stazione, al momento in cui mi avrebbe udito nominare Eichstätt, che ad ammirare la vecchia Streusandbüchse des deutschen Reiches, come i tedeschi chiamano Norimberga. Perchè mi proponevo far sapere a Violet il più presto possibile che [p. 138 modifica]andavo a Eichstätt, che conoscevo la meta del suo viaggio. Non cercai vederla; appena nel salire da S. Sebaldo alla Burg guardai un momento, dalla bocca della Theresienstrasse, i balconi eleganti di casa Yves. Più tardi, andando al vecchio cimitero di S. Giovanni, dove dorme Alberto Dürer, passai dalla porta della fonderia senza nemmanco guardarvi dentro.

Pensavo più all’amore che all’arte. Confesso tuttavia che qualchevolta l’energia e la grazia di un antico artista mi esaltavano, mi traevano a sè, non sopra l’amore, ma sopra le cure e le incertezze presenti. Davanti al Schönen Brunnen, al tabernacolo di Adamo Krafft nella Lorenzkirche, alle porte insigni della Sebalduskirche mi assaliva la gioia della bellezza, mi gloriavo d’essere io puro artista, pensavo felice che l’amore di Violet avrebbe saputo trarre anche da me un fuoco d’idee e di opere. L’altra signora si diceva gelosa della Musa; ma Violet! Negli amori e nell’anima mia Violet vedrebbe sè, sempre sè, dappertutto sè, come il sole potrebbe veder sè in ogni cosa vivente. Quell’altra povera donna parlava di gelosia perchè non sapeva come si ama. [p. 139 modifica]

Mi ricordo che quando salii sul Vestner Thurm pioveva, folate fredde di vento e pioggia entravano per le finestre senza vetri in quella stamberga a tetto, dove il custode della torre indicava placidamente, con la pipa, le alre torri, le chiese, i monumenti della città, poi le nebbie lontane, nominando con gran sicurezza paesi invisibili. Gli domandai da qual parte fosse Eichstätt. Quegli ripetè sorpreso: — Eichstätt? Lei dice Eichstätt? — e, steso il braccio da una finestra, si diede a menar di taglio la mano verso il sud, come chi dice un lungo, lungo cammino. Rimasi lì trasognato a guardare senza veder niente, senza accorgermi del vento e della pioggia che mi battevano in viso.