Il giornalino di Gian Burrasca/9 febbraio

9 febbraio

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8 febbraio 11 febbraio


9 febbraio.

Stamani fra i componenti la società Uno per tutti, tutti per uno è passata la solita parola d’ordine che significa: Nell’ora di ricreazione c’è adunanza.

E infatti l’adunanza c’è stata e io non mi ricordo d’aver mai assistito a una seduta di società segreta più emozionante di questa.

Nel rileggere il resoconto che ne ho fatto nella mia qualità di segretario, mi par d’avere davanti agli occhi una scena della vita dei cristiani nelle catacombe o un episodio della Carboneria, come si trovano descritti nei romanzi storici.

Figurati dunque, giornalino mio, che all’adunanza non mancava nessuno della nostra società, perché il contegno del Barozzo aveva dato nell’occhio a tutti, e s’era tutti ansiosi di sapere come mai tutto ad un tratto egli aveva cambiato così, dopo essere stato chiamato in direzione, a proposito dell’affare dell’anilina.

Ci siamo riuniti nel solito angolo del cortile, con molta precauzione, per non dare nell’occhio alla Direttrice, la quale pare che diventi più sospettosa un giorno dell’altro, e me specialmente non mi abbandona mai con lo sguardo, come se da un momento all’altro temesse qualche gherminella.

Per fortuna non sospetta neppure lontanamente che la voce del signor Pierpaolo, che le ha fatto tanta paura, fosse invece la mia voce, se no mi ammazzerebbero per lo meno; perché quella donna io la credo capace di tutto! Dunque appena ci siamo raccolti in circolo, il Barozzo, che era pallido in modo da fare impressione, ha detto sospirando, con aria cupa:

- Assumo la presidenza dell’assemblea... per l’ultima volta... -

Tutti siamo rimasti male e ci siamo guardati in viso con espressione di grande meraviglia, perché il Barozzo era stimato da tutti un giovine pieno di coraggio, d’ingegno, e di un carattere molto cavalleresco: insomma proprio il presidente ideale per una società segreta.

È seguìto un momento di silenzio che nessuno ha osato interrompere; poi il Barozzo con la voce sempre più cupa ha continuato:

- Sì, amici miei, fino da questo momento io debbo declinare l’alto onore di presiedere la nostra associazione... Ragioni gravi, gravissime, per quanto indipendenti dalla mia volontà, mi costringono a dimettermi. Se non mi dimettessi sarei una specie di traditore... e questo non sarà mai! Di me tutto si potrà dire ma nessuno deve potermi accusare mai di aver conservato per un giorno solo una carica di cui mi considero indegno... -

Qui il Michelozzi, che ha un’indole piuttosto tenera, per quanto di fronte al pericolo si comporti da eroe, ha interrotto, con una voce strozzata dalla commozione:

- Indegno? Ma è impossibile che tu ti sia reso indegno di restare fra noi... di conservare la presidenza della nostra società!

- È impossibile! - abbiamo ripetuto tutti in coro.

Ma il Barozzo tentennando la testa ha proseguito:

- Io non ho fatto nulla per diventare indegno... la coscienza non mi rimprovera nessuna azione contraria alle leggi della nostra società o a quelle dell’onore in generale. -

Qui il Barozzo si mise una mano sul cuore in modo straordinariamente drammatico.

- Non posso dirvi nulla! - prosegui l’ex presidente. - Se avete ancora un po’ d’affetto per me non dovete domandarmi né ora né mai quale motivo mi costringe ad abbandonare la presidenza. Vi basti sapere che io non potrei, d’ora innanzi, aiutare e tanto meno promuovere la vostra resistenza contro le autorità del nostro collegio... Dunque vedete bene che la mia posizione è insostenibile e la mia decisione immutabile. -

Tutti si guardarono di nuovo in faccia e qualcuno si scambiò anche le proprie impressioni a bassa voce. Io capii subito che le parole del Barozzo sembravano a tutti molto significanti, e, che, passata la prima impressione di stupore, le sue dimissioni sarebbero state accettate.

Anche il Barozzo lo capì, ma rimase fermo nel suo atteggiamento, come Marcantonio Bragadino quando aspettava d’essere scorticato dai Turchi.

Allora io non ne potei più e pensando a quello che avevo visto e sentito la sera prima dal buco fatto attraverso il fondatore del collegio, gridai con quanto fiato avevo:

- Invece tu non ti dimetterai!

- E chi me lo può impedire? - disse il Barozzo con molta dignità. - Chi può vietarmi di battere la strada che mi suggerisce la voce della coscienza?

- Ma che voce della coscienza! - risposi io. - Ma che strada da battere! La voce che ti ha turbato così è stata quella della signora Geltrude: e quanto al battere, ti assicuro che non c’è bisogno d’altre battiture dopo quelle che ha ricevuto ieri sera il signor Stanislao! -

A queste parole i componenti la società Uno per tutti e tutti per uno sono rimasti così meravigliati che m’hanno fatto compassione, e ho subito sentito il bisogno di raccontar loro tutta la scena avvenuta in Direzione.

E non ti so dire, giornalino mio, se tutti son stati soddisfatti di sentire che nessun motivo serio costringeva il Barozzo a dimettersi, perché non era vero nulla che lo tenessero in collegio per compassione, mentre anzi ci avevano trovato il loro tornaconto per via dei molti convittori procurati dal tutore del nostro presidente.

Ma più specialmente i componenti la società s’interessarono al racconto della bastonatura, e della perdita della parrucca, perché nessuno si sarebbe immaginato che il Direttore con quella sua aria militare si lasciasse maltrattare in quel modo dalla moglie; e tanto meno si poteva supporre che i suoi capelli fossero presi a prestito appunto come l’aria militare.

Il Barozzo però era rimasto sempre distratto e come concentrato in sé stesso. Si vedeva che le mie spiegazioni non lo avevano consolato dalla terribile delusione provata quando aveva saputo di trovarsi nel collegio a condizioni diverse dagli altri.

E infatti, nonostante la nostra insistenza non volle recedere dalla grave deliberazione presa, e concluse dicendo:

- Lasciatemi libero, amici miei, perché io prima o dopo farò qualcosa di grosso... qualcosa che voi non credereste in questo momento. Io non posso più essere della vostra Società perché uno scrupolo me lo vieta, e ho bisogno di riabilitarmi, e non di fronte a voi, di fronte a me stesso. -

E disse queste parole in un modo così deliberato che nessuno osò aprir bocca. Si decise di riunirsi al più presto possibile per eleggere un altro presidente, perché ormai s’era fatto tardi e c’era il caso che qualcuno venisse a cercarci.

- Gravi avvenimenti si preparano! - mi disse Maurizio Del Ponte mentre ci stringevamo la mano scambiandoci le fatidiche parole: Uno per tutti! Tutti per uno!

Vedremo se il Del Ponte avrà indovinato, ma anche a me l’animo presagisce qualche grossa avventura, per un’epoca forse molto prossima.

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Altra strepitosa notizia!

Iersera dal mio osservatorio ho scoperto che il direttore, la direttrice e il cuoco sono spiritisti...

Sicuro! Quand’ho messo l’occhio al solito forellino essi eran già riuniti tutti e tre attorno a un tavolino tondo e il cuoco diceva:

- Eccolo! Ora viene! -

E chi doveva venire era proprio lo spirito del compianto professor Pierpaolo Pierpaoli benemerito fondatore del nostro collegio e dietro alle cui venerate sembianze io stavo in quel momento vigilando i suoi indegni evocatori...

Non mi ci volle dimolto tempo né dimolto ingegno per comprendere la causa e lo scopo di quella seduta spiritistica.

Evidentemente il signor Stanislao e la signora Geltrude erano rimasti molto impressionati dal mugolìo che avevan sentito la sera avanti discendere dal ritratto del loro predecessore, e ora, spinti un po’ dal rimorso per la scenata fatta in presenza alla rispettabile effige del compianto fondatore dell’istituto e forse anche da un vago timore che incutevan nel loro animo i recenti avvenimenti, evocavano lo spirito dell’illustre defunto per domandargli perdono, consiglio ed aiuto.

- Ora viene! Eccolo! - ripeteva il cuoco.

A un tratto la signora Geltrude esclamò:

- Eccolo davvero! -

Infatti il tavolino s’era mosso.

- Parlo con lo spirito del professor Pierpaoli? - domandò il cuoco fissando sul piano del tavolino due occhi spalancati che luccicavano come due lumini da notte.

Sì udirono alcuni colpi battuti sul tavolino e il cuoco esclamò convinto:

- È proprio lui.

- Domandagli se era lui anche ieri sera - mormorò la signora Geltrude.

- Fosti qui anche ieri sera? Rispondi! - disse il cuoco in tuono di comando.

E il tavolino a ballare e a picchiare, mentre i tre spiritisti si alzavano dalla sedia e si dondolavano qua e là e si rimettevano a sedere seguendone tutti i movimenti.

- Sì, - disse il cuoco - era lui anche ieri sera. -

Il signor Stanislao e la signora Geltrude si scambiarono un’occhiata come per dire: - Eh! Ci abbiamo fatto una bella figura! -

Poi il signor Stanislao disse al cuoco:

- Domandagli se posso rivolgergli la parola... -

Ma la signora Geltrude lo interruppe bruscamente, fulminandolo con una occhiata:

- Niente affatto! Se qualcuno ha il diritto di parlare con lo spirito del professor Pierpaolo Pierpaoli sono io, io sua nipote e non voi che egli non conosceva neanche per prossimo! Avete capito? -

E rivolta al cuoco soggiunse:

- Domandagli se vuol parlare con me! -

Il cuoco si concentrò in sé stesso e poi, sempre figgendo gli occhi sul piano del tavolino ripeté la domanda.

Poco dopo il tavolino ricominciò a ballare e a scricchiolare.

- Ha detto di no - rispose il cuoco.

La signora Geltrude rimase male, mentre il signor Stanislao, non sapendo padroneggiarsi, diè libero sfogo alla gioia che provava per la meritata sconfitta della sua prepotente consorte, esclamando con accento di giubilo infantile degno più di me che di lui:

- Hai visto? -

E non l’avesse mai detto!

La signora Geltrude si rivoltò tutta inviperita scagliando in volto al povero direttore l’ingiuria abituale:

- Siete un perfetto imbecille!

- Ma Geltrude! - rispose egli imbarazzato con un fil di voce. - Ti prego di moderarti... almeno in presenza al cuoco... almeno in presenza allo spirito del compianto professore Pierpaolo Pierpaoli! -

La timida protesta di quel pover’uomo in quel momento mi commosse e volli vendicarlo contro la violenza di sua moglie. Perciò con voce rauca e con accento di rimprovero esclamai : - Ah!... -

I tre si voltarono di botto verso il ritratto, pallidi, tremanti di paura. Vi fu una lunga pausa.

Il primo a ritornare padrone di sé fu il cuoco, il quale fissando verso di me i suoi occhi di fuoco esclamò:

- Sei tu ancora lo spirito di Pierpaolo Pierpaoli? Rispondi! - Io feci un sibilo: - Sssssss... -

Il cuoco continuò: - Ti è concesso di parlare direttamente con noi? -

Mi venne un’idea. Contraffacendo la voce come prima risposi:

- Mercoledì a mezzanotte! -

I tre tacquero commossi dal solenne appuntamento. Poi il cuoco disse a bassa voce:

- Si vede che stasera e domani gli è vietato di parlare... A domani l’altro! -

Si alzarono, misero il tavolino da una parte, rivolsero uno sguardo supplichevole verso di me e poi il cuoco uscì ripetendo con voce grave:

- A domani l’altro. -

Il signor Stanislao e la signora Geltrude restarono un po’ in mezzo della stanza, impacciati. Poi il direttore dolcemente disse alla moglie:

- Geltrude... Geltrude... Cercherai di moderarti? Sì, è vero? Non mi dirai più quella brutta parola?... -

Ella, combattuta tra la paura e il suo carattere arcigno, rispose a denti stretti:

- Non ve la dirò più... per rispettare il desiderio di quell’anima santa di mio zio... Ma anche senza dirvelo, credete a me, rimarrete sempre quel perfetto imbecille che siete! -

A questo punto lasciai il mio osservatorio perché non ne potevo più dal ridere.

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Stamani dopo aver scritto in queste pagine il fatto della seduta spiritistica di ierisera, mi sono accorto che uno dei miei compagni di dormitorio era sveglio.

Gli ho fatto cenno di stare zitto, e del resto anche se non glielo avessi raccomandato sarebbe stato zitto lo stesso, perché si trattava di un amico fidato, di Gigino Balestra del quale ho già parlato in questo mio giornalino.

Gigino Balestra è un ragazzo serio, che mi è molto affezionato e ormai ho potuto riscontrare in più circostanze che posso contare su lui senza pericolo d’esser compromesso. Prima di tutto siamo concittadini. Egli è figlio del famoso pasticciere Balestra dal quale si serve sempre mio padre, rinomato per le meringhe che ha sempre fresche, molto amico del mio cognato Maralli perché è anche lui un pezzo grosso del partito socialista.

E poi ci sentiamo anche legati di amicizia per la rassomiglianza delle vicende della nostra vita. Anche lui è disgraziato come me e mi ha raccontato tutta la storia delle sue sventure, l’ultima delle quali, che fu la più grossa e che fece prendere al suo babbo la risoluzione di cacciarlo in collegio, è così interessante che voglio raccontarla qui nel mio giornalino.

- Campassi mill’anni - mi diceva Gigino - non mi scorderò mai del primo Maggio dell’anno passato che è e rimarrà sempre il più bello e il più brutto giorno della mia vita! -

E in quel giorno evocato da Gigino - io stesso me ne ricordo benissimo - c’era una grande agitazione in città perché i socialisti avrebbero voluto che tutti i negozi fossero stati chiusi mentre molti bottegai volevano tenere aperto; anche nelle scuole c’era un certo fermento perché alcuni babbi di scolari, essendo socialisti, volevano che il Preside desse vacanza, mentre molti altri babbi non ne volevan sapere.

Naturalmente i ragazzi in quella circostanza si schierarono tutti dalla parte dei socialisti, anche quelli che avevano i babbi di un altro partito, perché quando si tratta di far vacanza io credo che tutti gli scolari di tutto il mondo sieno pronti a dichiararsi solidali nello stesso sacrosanto principio che sarebbe quello d’andare a fare piuttosto una bella passeggiata in campagna col garofano rosso all’occhiello della giacchetta.

Difatti successe che molti ragazzi in quel giorno fecero sciopero, e mi ricordo benissimo che lo feci anche io, e che per questo fatto il babbo mi fece stare tre giorni a pane e acqua.

Ma pazienza! Tutte le grandi idee hanno sempre avuto i loro martiri...

Al povero Gigino Balestra però successo qualche cosa di peggio.

Egli, dunque, a differenza di me, aveva fatto sciopero dalla scuola col consenso di suo padre; anzi suo padre lo avrebbe obbligato a far vacanza se, per una ipotesi impossibile ad avverarsi, Gigino avesse voluto andare a scuola.

- Oggi è la festa del lavoro - gli aveva detto il signor Balestra - e io ti dò il permesso di andare fuor di porta con i tuoi compagni. Sta’ allegro e abbi giudizio. -

Gigino non aveva inteso a sordo: e con alcuni suoi amici era andato a fare una visita a certi compagni che stavano in campagna.

Arrivati sul posto, tutti insieme si misero a fare il chiasso e, via via, il numero della comitiva era andato aumentando, tanto che da ultimo erano non meno di una ventina di ragazzi di tutte le età e di tutte le condizioni sociali, tutti affratellati in una grande baldoria d’urli e di canti.

A un certo punto Gigino che si dava una cert’aria per essere il figlio di uno dei capi del partito socialista, entrò a parlare del primo maggio, della giustizia sociale e di altre cose delle quali aveva sentito parlare spesso in casa e che aveva imparato a ripetere pappagallescamente: ma ad un tratto uno della comitiva, un ragazzaccio tutto strappucchiato gli rivolse a bruciapelo questa inopportuna domanda:

- Tutti bei discorsi; ma che è giusta, ecco, che tu abbia una bottega piena di paste e di pasticcini a tua disposizione, mentre noi poveri non si sa neppure di che sapore le sieno? -

Gigino a questa inaspettata osservazione rimase male. Ci pensò un poco e rispose:

- Ma la bottega non è mica mia: è del mio babbo!...

- E che vuol dire? - ribatté il ragazzaccio. - Non è socialista anche il tuo babbo? Dunque, oggi che è la festa del socialismo dovrebbe distribuire almeno una pasta a testa a tutti i ragazzi, specialmente a quelli che non ne hanno mai assaggiate... Se non comincia lui a dare il buon esempio non si può pretendere certo che lo facciano i pasticcieri retrogradi!... -

Questo tendenzioso ragionamento ebbe la virtù di convincere l’assemblea e tutta la comitiva si mise a urlare:

- Ha ragione Granchio! (Era questo il soprannome del ragazzaccio tutto strappato) Evviva Granchio!... -

Gigino, naturalmente, era mortificato perché gli pareva, di fronte, a tutti quei ragazzi, di farei una cattiva figura, e non solo lui ma anche il suo babbo; sicché si struggeva dentro di trovar qualche ragione colla quale ribattere il suo avversario, quando gli venne una idea che da principio lo spaventò quasi per la sua arditezza, ma che gli apparve poi di possibile esecuzione e l’unica che avesse la virtù in quel frangente di salvare la reputazione politica e sociale sua e di suo padre.

Aveva pensato che in quel momento il suo babbo era alla Camera del Lavoro a fare un discorso, e che le chiavi di bottega erano in casa, nella sua camera, dentro il cassetto del comodino.

- Ebbene! - gridò. - A nome mio e di mio padre vi invito tutti nel nostro negozio ad assaggiare le nostre specialità... Ma intendiamoci, eh, ragazzi! Una pasta a testa! -

L’umore dell’assemblea si mutò come per incanto e un solo grido echeggiò, alto, entusiastico, ripetuto da tutte quelle bocche in ciascuna delle quali serpeggiava la medesima acquolina tentatrice.

- Evviva Gigino Balestra! Evviva il suo babbo! -

E tutti quanti mossero dietro di lui, compatti con l’ardore e la velocità di un eroico drappello alla conquista di una posizione lungamente vagheggiata o il cui possesso si presenti a un tratto privo dì ogni ostacolo.

- Sono una ventina fra tutti - pensava intanto Gigino - e per una ventina di paste... mettiamo pure una venticinquina... dall’esserci al non esserci, in bottega dove ce ne sono a centinaia, nessuno se ne può accorgere... In verità non varrebbe la pena che per una simile miseria compromettessi il mio prestigio, quello di mio padre e perfin quello del partito al quale apparteniamo! -

Arrivati in città Gigino disse ai suoi fedeli seguaci:

- Sentite: ora vo a casa a pigliar le chiavi di bottega... fo in un lampo. Voialtri intanto venite dall’usciolino di dietro... ma alla spicciolata, per non dar nell’occhio!

- Bene! - gridarono tutti.

Ma Granchio osservò:

- Ohé!... Non ci farai mica la burletta, eh? Se no, capisci?... -

Gigino ebbe un gesto di grande dignità:

- Sono Gigino Balestra! - disse - e quando ho dato una parola si può esser sicuri! -

Andò lesto lesto a casa, dove c’era la sua mamma e una sua sorellina; senza farsi vedere sgusciò in camera del babbo, prese dal cassetto del comodino le chiavi di bottega e ritornò via di corsa lanciando alla mamma queste parole:

- Vo con i miei compagni, ma tra poco ritorno a casa! -

E se n’andò difilato al negozio, guardando a destra e a sinistra per paura che qualche persona di conoscenza della sua famiglia avesse a sorprenderlo durante quella manovra.

Aprì la porta scorrevole di ghisa e la tirò su tanto da potere entrare in bottega, e una volta dentro la richiuse. S’era provvisto in casa di una scatola di cerini e con essi accese una candela che il babbo teneva sempre vicino alla porta; così trovò il contatore del gas, l’aprì, e accese poi le lampade della pasticceria; e fatto questo andò ad aprir l’usciolino dietro il negozio che dava in un vicolo poco frequentato.

Da quell’usciolino incominciarono a entrare i compagni di Gigino, a uno, a due a tre...

- Mi raccomando - badava a ripetere il figlio del pasticcere. - Uno per uno... al più due... Ma non mi rovinate! -

Ma a questo punto è meglio che lasci la parola allo stesso Gigino Balestra che essendo stato il protagonista di quella avventura comica e tragica a un tempo, la racconta certamente meglio di quel che potrei fare io.

- Lì per lì - dice Gigino - mi parve che il numero dei miei compagni fosse molto cresciuto. Il negozio era addirittura invaso da una vera folla che bisbigliava girando intorno sulle paste e sulle bottiglie de’rosolii certi occhi che parevan di fuoco. Granchio mi domandò se potevano prendere una bottiglia di rosolio, tanto per non murare a secco, e avendo acconsentito, me ne versò gentilmente un bicchiere pieno dicendo che il primo a bere doveva essere il padrone di casa. E io bevvi e bevvero tutti facendomi dei brindisi e invitandomi e ribere, sicché si dovette stappare un’altra bottiglia... Intanto anche le paste sparivano e i più vicini a me ne offrivano dicendomi: - Prendi, senti com’è buona questa, senti com’è squisita quest’altra - proprio come se loro fossero stati i padroni della pasticceria e io il loro invitato. Che vuoi che ti dica, caro Stoppani? Si arrivò a un punto che io non capivo più nulla; ero esaltato, mi sentivo addosso un ardore e un entusiasmo che non avevo provato mai, mi pareva d’essere in un paese fantastico tutto popolato di ragazzi di marzapane col cervello di crema e il cuore di marmellata uniti da un dolce patto di fratellanza condita con molto zucchero e rosolio di tutte le qualità... E ormai anche io seguitavo come tutti gli altri a mangiar paste a quattro ganasce e a vuotar bottiglie e boccette di tutti i colori e di tutti i sapori volgendo delle occhiate di beatitudine in quel campo aperto alla baldoria nel quale si agitavano come fantasmi tutti quei ragazzi che ogni tanto urlavano a bocca piena: - Evviva il socialismo! Evviva il primo maggio! - Io non ti so dire quanto durasse quella grande scena d’ogni dolcezza e d’ogni letizia... So che a un certo punto la musica cambiò a un tratto e una voce terribile, quella di mio padre, rimbombò nel negozio gridando: - Ah, razza di cani, ora ve lo dò io il socialismo! - e fu un diluvio di scapaccioni che piovve da tutte le parti fra le grida e i pianti di tutta quella folla di ragazzi ubriachi che si accalcava confusamente verso la porticina cercando di fuggire. Io ebbi un momento di lucido intervallo nel quale, con un volger d’occhi, abbracciai quel quadro bizzarro e sentii in un lampo tutta la terribile responsabilità che mi pesava... Il banco prima cosparso di centinaia di paste tutte messe per ordine era vuoto, gli scaffali attorno erano tutti in disordine e vi si affacciavano qua e là i colli di bottiglie rovesciate dalle quali colavano giù rosoli e sciroppi, in terra era un piaccichiccio di pasta sfoglia pesticciata, dovunque sulle sedie, nelle cornici degli scaffali e del banco eran bioccoli di crema e di panna sbuzzata fuori dalle meringhe, e ditate di cioccolata... Ma fu solo, come ho detto, in un lampo ch’io intravidi tutto questo, perché un maledetto scapaccione mi fece rotolar sotto il banco e non vidi né sentii più nulla. Quando mi svegliai ero a casa, nel mio letto, e accanto a me c’era la mia mamma che piangeva. Mi sentivo un gran peso nella testa e sullo stomaco... Il giorno dopo, 2 maggio, il babbo mi dette due once d’olio di ricino; la mattina di poi, tre maggio, mi fece vestire e mi portò qui nel collegio Pierpaoli... -

Cosi Gigino Balestra ha concluso il suo racconto, con un accento comicamente solenne che mi ha fatto proprio ridere.

- Vedi? - gli ho detto. - Anche tu sei vittima, com’è accaduto a me in più circostanze della vita, della tua buona fede e della tua sincerità. Tu avendo il babbo socialista hai creduto nel tuo entusiasmo di dover mettere in pratica le sue teorie distribuendo i pasticcini a que’ poveri ragazzi che non ne avevan mai assaggiati, e il tuo babbo ti ha punito... È inutile: il vero torto di noi ragazzi è uno solo: quello di pigliar sul serio le teorie degli uomini... e anche quelle delle donne! In generale accade questo: che i grandi insegnano ai piccini una quantità di cose belle e buone... ma guai se uno dei loro ottimi insegnamenti, nel momento di metterlo in pratica, urta i loro nervi, o i loro calcoli, o i loro interessi. Io mi ricorderò sempre d’un fatto di quando ero piccino... La mia buona mamma, che pure è la più buona donna di questo mondo, mi predicava sempre di non dir bugie perché a dirne solamente una si va per sette anni in Purgatorio; ma un giorno che venne a cercarla la sarta col conto e che lei aveva fatto dire dalla Caterina che era uscita, io per non andare in Purgatorio corsi alla porta di casa a gridare che non era vero nulla e che la mamma era in casa... e in premio d’aver detto la verità ci presi un bello schiaffo.

- E perché ti hanno messo in collegio?

- Per aver pescato un dente bacato!

- Come! - ha esclamato Gigino al colmo dello stupore.

- Per uno starnuto d’un vecchio paralitico! - ho aggiunto io divertendomi a vederlo a sgranar tanto d’occhi.

Poi, dopo averlo tenuto per un bel pezzo di curiosità, gli ho raccontato l’ultima mia avventura in casa del mio cognato Maralli, per la quale fu interrotto il mese di esperimento concesso da mio padre ed io fui accompagnato in questa galera.

- Come vedi, - conclusi - anche io sono stato una vittima del mio destino disgraziato... Perché se quel signor Venanzio zio di mio cognato non avesse fatto uno starnuto proprio nel momento in cui lo avevo avvicinato la lenza con l’amo alla sua bocca sgangherata, io non gli avrei strappato quell’unico dente bacato che gli rimaneva e non sarei qui nel collegio Pierpaoli! Vedi un po’, a volte, da che può dipendere la sorte e la reputazione di un povero ragazzo... -

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Ho voluto raccontar qui le confidenze che son corse tra me e Gigino Balestra per dimostrare che siamo legati ormai in intima amicizia e che, se stamani egli era sveglio e mi guardava mentre io scrivevo nel Giornalino, non avevo nessuna ragione - come ho già detto in principio - di diffidare di lui. Anzi gli ho detto in grande segretezza di queste mie memorie che vo scrivendo, l’ho messo a parte dei miei progetti e gli ho proposto, d’entrare nella nostra Società segreta...

Egli mi ha abbracciato con uno slancio d’affetto che mi ha commosso e ha detto che si sentiva orgoglioso della fiducia che rimettevo in lui.

Oggi, infatti, durante l’ora di ricreazione, l’ho presentato ai miei amici che l’hanno accolto benissimo.

Il Barozzo non c’era. Da quando ha dato le dimissioni egli vive solitario e pensieroso e quando ci incontra si limita a salutarci con un’aria triste triste. Povero Barozzo!

Io in adunanza ho raccontato tutta la scena della seduta spiritistica di iersera e si è stabilito, di riflettere tutti seriamente per trarre partito da questa nuova situazione e per preparar qualche tiro per mercoledì notte.

Domani martedì ci riuniremo per eleggere il nuovo presidente e per decidere sull’intervento dello spirito del compianto professore Pierpaoli all’appuntamento dato al signor Stanislao, alla signora Geltrude e al loro degno cuoco inventore della minestra della rigovernatura.