Il giornalino di Gian Burrasca/25 febbraio

25 febbraio

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24 febbraio 26 febbraio


25 febbraio.

Che giornata di grandi emozioni!

È vicina la mezzanotte; tutti son già andati a letto e io sono solo qui nella mia cameretta: solo col mio segreto, col mio grande segreto, e piango e rido e tremo non so perché né di che, e stento quasi a scrivere qui questo importante avvenimento della mia vita nella paura che sia risaputo...

Ma no! Oramai in queste pagine ho confidato ogni mio atto e ogni mio pensiero e sento come un bisogno di sfogare qui, in questo mio caro giornalino, la piena dei sentimenti che mi invade l’animo e mi commuove tutto...

Però prima di tutto voglio dare un’occhiata se il mio prezioso segreto e al suo posto...

Sì, sì! Sono lì tutti e duegento... Non ne manca uno! Procuriamo di rimetterci in calma, dunque, e ripigliamo il discorso tranquillamente dal punto in cui è stato interrotto.

Il povero signor Venanzio, dunque è morto: e questo l’ho scritto fino da ieri.

Scrissi anche che la notizia mi aveva fatto dispiacere, ed è proprio vero, perché in fondo quel vecchio sordo e paralitico, al quale tutti auguravano la morte, mi faceva compassione, e ora che è morto e di lassù può vedere le cose come stanno deve capire che se gli pescai con l’amo l’ultimo dente non lo feci a fin di male ma con lo scopo di divertirlo, e che certo non avrei fatto quello che feci se ne avessi potuto prevedere le conseguenze, che del resto furono motto esagerate da mio cognato perché in una bocca avere un dente solo e bacato e non averne punti è tutt’uno, e non credo per questo di avere abbreviato la vita d’un minuto a quel povero disgraziato.

Però, per quanto la notizia della morte del signor Venanzio mi avesse fatto dispiacere, stamani non ci pensavo più, quando un fatto stranissimo è venuto a richiamarmelo alla mente.

Verso le nove e mezzo, mentre inzuppavo il terzo panino imburrato nel mio caffè e latte con molto zucchero (non è per ghiottoneria, ma io metto sempre dimolto zucchero perché la mattina prendo sempre dimolto latte con dimolto caffè per poterci inzuppare dimolti panini con dimolto burro) mi son sentito chiamare a un tratto.

- Giannino! Giannino!... Vieni qua, subito... -

Era l’Ada che urlava a quel modo e io certo, occupato com’ero, non mi sarei mosso neanche d’un passo se nell’accento di mia sorella non avessi sentito veramente qualche cosa di insolito...

Son corso nella stanza d’ingresso dove l’ho trovata insieme alla mamma, e tutte e due stavano commentando una lettera che tenevano in mano.

- Guarda, Giannino, - mi ha detto subito la mamma - questa lettera è per te...

- E allora, - ho osservato subito - perché l’avete aperta?

- Oh bella! Io sono la tua mamma e ho diritto, credo, di vedere chi ti scrive...

- E chi mi scrive?

- Ti scrive il cavaliere Ciapi notaro.

- E che vuole da me?

- Leggi. -

Allora ho letto, pieno di meraviglia la lettera che ricopio qui tale e quale:

CAVALIER TEMISTOCLE CIAPI

NOTARO


Signor Giovanni Stoppani, Nella mia qualità di pubblico notaro incaricato di dare esecuzione alle disposizioni testamentarie del defunto signor Venanzio Maralli, mi pregio ricopiare qui il paragrafo 2 di dette disposizioni che La riguardano personalmente: "§ 2. - Desidero e domando che alla lettura di questo mio testamento, oltre agli interessati, e cioè mio nipote avvocato Carlo Maralli, Cesira Degli Innocenti sua donna di servizio e il commendatore Giovan Maria Salviati, sindaco della città, intervenga anche il giovinetto Giovannino Stoppani cognato del predetto Carlo Maralli, sebbene nessuna delle disposizioni testamentarie qui contenute lo interessino. Ma io desidero la sua presenza perché avendolo conosciuto di persona amo che in queste mie disposizioni il giovinetto Stoppani trovi un efficace ammaestramento sulla vanità delle umane ricchezze e un nobile esempio verso il prossimo. A tale scopo dò espresso incarico al notaro cavaliere Temistocle Ciapi di mandare a prendere il detto Giovanni Stoppani dove si trova, a tutte spese da pesare sulla somma dell’intero capitale di cui al paragrafo 9". In ordine dunque al desiderio espresso nel paragrafo qui sopra riportato La prevengo che alle ore quindici di oggi manderò alla sua abitazione un mio incaricato di fiducia il quale La accompagnerà in vettura fino al mio studio in via Vittorio Emanuele numero 15, piano 1°, dove sarà data lettura dei testamento del defunto signor Venanzio Maralli.

TEMISTOCLE CIAPI, NOTARO.

- Guarda un po’ di ricordarti bene, caro Giannino... - mi disse la mamma dopo che ebbi letto la lettera del notaro. - Pensa a quello che facesti in quei giorni che rimanesti in casa del Maralli... Non c’è il caso che ci sia sotto qualche altro dispiacere?

- Uhm! - risposi io. - Ci fu l’affare del dente...

- È curiosa! - esclamò l’Ada. - Non si è mai sentito un altro esempio di invitare un ragazzo ad assistere alla lettura di un testamento...

- Se ti avesse lasciato qualcosa si capirebbe - aggiunse la mamma. Ma di questo non c’è pericolo dopo tutto quel che gli facesti...

- E poi, - osservò mia sorella - la lettera parla chiaro: sebbene, dice, nessuna delle disposizioni testamentarie qui contenute lo interessino... Dunque!

- In ogni modo, - concluse la mamma - non diremo niente al babbo, hai capito! Ché se c’è qualche strascico d’allora non vorrei che compromettesse quel che hai acquistato dacché sei tornato di colleggio e ti mettessero in una Casa di correzione...

Siamo rimasti dunque d’accordo che alle ore quindici Caterina si sarebbe trovata fuori della porta di casa per dire al vetturino di attendere senza fargli suonare il campanello e che io sarei salito zitto zitto nella carrozza annunziata dalla lettera del notaro. Al babbo, la mamma e l’Ada avrebbero detto di avermi mandato a divertirmi dalla signora Olga. È inutile dire con quanto desiderio abbia aspettato l’ora fissata.

Finalmente Caterina è venuta a chiamarmi e io sono sgusciato via di casa e son montato nella carrozza che mi aspettava con lo sportello aperto. Dentro c’era un uomo tutto vestito di nero che mi ha detto:

- È lei Giovannino Stoppani?

- Sì; e ho qui la lettera...

- Benissimo. -

Quando, poco dopo, sono entrato nello studio del notaro Ciapi c’era il sindaco, e poco dopo è arrivato il mio cognato Maralli che appena mi ha visto ha alzato tanto di muso, ma io ho fatto finta di nulla e invece ho salutato la sua donna di servizio Cesira, che è arrivata subito dopo di lui e che è venuta a mettersi a sedere accanto a me, e mi ha domandato come stavo.

Il notaro Ciapi stava seduto su una poltrona, davanti a un tavolino. Questo notaro è un tipo buffo, piccolo piccolo e grasso grasso, con una faccia tonda mezza affogata dentro una papalina ricamata, con una nappa che gli vien sempre sull’orecchio e che egli cerca di cacciar via con certe scrollatine di testa come farebbe uno che avesse i capelli troppo lunghi sulla fronte per mandarseli indietro.

Egli ci ha guardato tutti e poi ha suonato il campanello e ha detto:

- I testimoni! -

E son venuti due così neri neri, che si son messi tra me e il notaro, il quale ha preso uno scartafaccio e ha cominciato a leggere con voce nasale, come se avesse avuto da dire un’orazione:

- In nome di Sua Maestà il re Vittorio Emanuele III felicemente regnante... -

E giù una filastrocca di cose nelle quali non capivo niente finché poi a un certo punto incominciò a leggere proprio le parole dettate dal signor Venanzio prima di morire e quelle le capii benissimo.

Naturalmente non posso ricordarmi le frasi precise, ma ricordo le cifre dei diversi làsciti, e ricordo anche che tutte quelle disposizioni testamentarie erano dettate in un modo curioso, con uno stile pieno di ironia come se il povero signor Venanzio nell’ultima ora della sua vita si fosse preso il supremo divertimento di pigliare in giro tutti quanti.

La prima disposizione era di dare dal suo patrimonio la somma di diecimila lire alla Cesira, e non saprei ridire la scena che nacque quando il notaro ebbe letto questo paragrafo del testamento. La Cesira alla notizia di quella fortuna si svenne e tutti corsero attorno, fuori che il Maralli che diventò pallido come un morto e guardava la sua donna di servizio con due occhi come se la volesse mangiare.

Eppure a sentire il povero signor Venanzio, che spiegava tutte le ragioni per le quali lasciava tutti quei quattrini a quella ragazza, pareva che l’avesse fatto proprio per far piacere al suo nipote.

- Io lascio questa somma alla nominata Cesira Degli Innocenti (su per giù diceva così) prima di tutto per gratitudine mia verso di lei che, nella casa di mio nipote ove passai gli ultimi anni della mia vita mi trattò con ogni riguardo, superando in gentilezze perfino i miei parenti. Basta dire che ella abitualmente si limitò sempre a trattarmi col soprannome di gelatina alludendo al tremore continuo che mi dava la paralisi. -

Ora io mi ricordavo benissimo che questo fatto al povero signor Venanzio l’avevo detto proprio io, ragione per cui se a Cesira ora capitava questa bella eredità doveva ringraziar me. Ma il signor Venanzio aggiungeva altre ragioni:

- Inoltre, - diceva press’a poco nel suo testamento - a favorire in modo speciale questa buona ragazza son mosso dalle giuste e sane teorie politiche e sociali di mio nipote, il quale ha sempre predicato che nel mondo non vi devono essere più né servi né padroni; ed egli, io credo, accoglierà benissimo questo mezzo ch’io porgo a Cesira Degli Innocenti di non esser più serva in casa di lui e a lui di non esser più suo padrone. -

L’avvocato Maralli nel sentir leggere questo paragrafo sbuffava e ripeteva a bassa voce, rivolgendosi al sindaco:

- Eh!... Uhm!... Già mio zio, è stato sempre un originale!... -

Il sindaco sorrideva con una certa aria canzonatoria e stava zitto. Intanto il notaro seguitava a leggere ed era arrivato a un altro paragrafo che diceva così:

- Sempre per rispetto alle nobili teorie di altruismo sulle quali sono fondate le teorie politico-sociali di mio nipote, poiché mi parrebbe di recare ad esso una profonda offesa lasciando del mio capitale erede lui che fu sempre avversario accanito del capitale e dei suoi privilegi, primo dei quali è quello della eredità, lascio tutto il mio patrimonio già descritto ai poveri di questa città, dei quali il giorno della mia morte risulterà negli atti del Comune la fede di miserabilità; mentre al mio amatissimo nipote, in ricordo del suo affetto verso di me e degli auguri e voti fatti continuamente a mio riguardo, lascio per mio ricordo personale, che egli certo terrà carissimo, l’ultimo mio dente strappatomi dal suo piccolo cognato Giovannino Stoppani e che ho fatto espressamente rilegare in oro per uso di spillo da cravatta. -

E il notaro levò infatti da un astuccio un enorme spillone in cima al quale era proprio il dente con le barbe che avevo pescato io nella bocca sgangherata del povero signor Venanzio.

A quella vista, naturalmente, non seppi resistere e mi scappò da ridere.

Non l’avessi mai fatto! l’avvocato Maralli che pareva invecchiato di dieci anni e tremava tutto per la rabbia e per lo sforzo che faceva per contenersi, scattò e tendendo una mano verso di me esclamò:

- Canaglia! Ridi anche, eh? al frutto delle tue canagliate! -

E c’era in queste parole tale accento di odio che tutti si son voltati a guardarlo e il notaro gli ha detto:

- Sì calmi, signor avvocato!

E ha fatto per porgergli l’astuccio col dente del povero signor Venanzio, ma il Maralli l’ha respinto con un gesto energico, esclamando:

- Lo dia a quel ragazzo... Fu lui che lo levò al defunto e io glielo regalo! -

E s’è messo a ridere. Ma si capiva che era un riso sforzato per rimediare alla scena fatta prima.

Infatti, dopo aver messo la firma sotto ai fogli che gli porgeva il notaro, ha salutato e se n’è andato via.

Mentre il sindaco prendeva degli accordi col notaro per distribuire ai poveri i denari lasciati loro dal povero signor Venanzio, la Cesira mi ha detto:

- Ha visto, sor Giovannino, com’è rimasto il sor padrone!

- Eh! il bello è che se la pigliava con me.

- Già. Chi sa che scena farà a casa! Io non so come fare a andarci!..

- Che t’ímporta? Ormai tu sei una signora... Vedi che cosa vuol dire a trovar bene un soprannome a un vecchio paralitico?... -

In quel momento il sindaco aveva finito di firmar fogli e fissare col notaro, e questi ha chiamato la Cesira alla quale ha detto di ritornar da lui l’indomani.

Così rimasto solo nella stanza, il notaro ha aperto un cassetto della sua scrivania, ha levato fuori un involto e alzandosi gli occhiali e guardandomi fisso in faccia mi ha detto:

- Il defunto signor Venanzio Maralli era veramente un originale, ma a me non sta il giudicarlo, e il mio dovere di notaro è di seguire fino all’ultimo le sue volontà testamentarie, sieno esse state espresse per iscritto che a voce. A voce dunque il signor Venanzio mi disse: - Io ho qui un involto contenente mille lire in tanti biglietti di banca da cinque che desidero, dopo la mia morte, sieno consegnati a brevimano e senza che nessuno veda e che nessuno venga a saperlo, al cognato di mio nipote, Giovannino Stoppani, col patto che egli li prenda e li tenga con sé e ne disponga a suo piacere e non dica a nessuno di possedere tale somma. -

Queste parole che mi hanno empito di meraviglia il notaro le ha dette con un tono di voce uguale come se le avesse imparate a mente. Poi cambiando accento mi ha detto accarezzandomi:

- Il defunto mi disse che tu eri la disperazione de’ tuoi parenti...

- Ora però sono diversi giorni che sono buono! - ho detto io.

- Meno male! Guarda dunque di non usar male del denaro che ti consegno. Forse il defunto signor Maralli lasciandotelo senza alcun vincolo e nessuna vigilanza ha voluto darti una prova di grande stima e di grande fiducia... e sia per questo, o sia che per la sua bizzarra natura si sia divertito a pensare a quel che tu avresti potuto fare trovandoti in possesso di questi quattrini, ho creduto mio dovere di darti un consiglio che la mia qualità di notaro e di esecutore testamentario non mi vietava... -

E mi ha consegnato l’involto. Poi ha aggiunto porgendomi anche l’astuccio col dente del defunto:

- E questo? Tuo cognato te lo ha ceduto. Prendi; e ora ti farò riaccompagnare a casa. -

Io ero così confuso da tante inaspettate sorprese che non gli dissi neppure grazie. Sull’uscio dello studio era quell’uomo tutto nero che mi aveva accompagnato fin lì e che è sceso giù con me alla porta ed è entrato con me nella carrozza che mi ha portato fino a casa.

Il babbo non c’era, e la mamma e l’Ada mi son venute subito d’intorno a farmi mille domande.

Quando hanno saputo che il signor Venanzio aveva lasciato tutto il suo patrimonio ai poveri del Comune e che al Maralli non era toccato che uno spillo d’oro col dente che aveva ceduto a me, hanno cominciato a scaricarmi un diluvio di esclamazioni:

- Come!... Possibile!... Ma perché?... Ma come mai?... -

Io però ho risposto sempre che non ne sapevo nulla, e quando alla fine ho potuto liberarmi dalle loro domande me ne son venuto qui in camera e ho riposto il mio tesoro nel cassetto del tavolino che ho chiuso a chiave. Per il resto della giornata ho fatto finta di nulla, ma era tanto il nervoso che avevo addosso che il babbo a cena se n’è accorto, e ha detto:

- Si può sapere che cos’hai stasera, che mi sembri un’anguilla? -

Finalmente quando sono stato solo qui nella mia cameretta, ho dato libero sfogo alla mia emozione e ho contemplato il mio tesoro, e ho contati e ricontati i duecento biglietti da cinque lire dei quali sono possessore, e li ripongo nel cassetto del tavolino e lo chiudo, e poi lo riapro e poi li ritiro fuori e li rimiro e li riconto daccapo per poi richiuderli e rilevarli senza decidermi a separarmi da loro...

Mi pare d’essere diventato quel vecchio d’una operetta che ho sentita due anni fa che era intitolata Le Campane di Corneville; ma però non è per avarizia che contemplo tutti questi quattrini, ma per i sogni che ci fo sopra che sono tanti e così diversi! Ho sognato più in queste poche ore che sto sveglio, che in tutte le nottate dormite da che son nato!...

Basta: mi par che sia ora d’andare a letto... Chiudo la mia cassaforte e buonanotte!