Il giornalino di Gian Burrasca/20 febbraio

20 febbraio

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14 febbraio 21 febbraio


20 febbraio.

Novità! Novità! Novità!

Quanti avvenimenti in questa settimana! Me ne sono accadute tante che non ho avuto mai il tempo di scriverle... Anche perché non volevo sciupare le mie avventure descrivendo in queste pagine troppo alla svelta, mentre meriterebbero di essere narrate in un romanzo.

Perché la mia vita è un vero romanzo, e io quando ci penso non posso fare a meno di ripetere sempre fra me il solito ritornello:

- Ah, se avessi la penna di Salgari, che volume vorrei scrivere, da far rimanere a bocca spalancata tutti i ragazzi di questo mondo, peggio che con tutti i corsari rossi e neri!... -

Basta: scriverò come so, e tu, mio caro giornalino, non ti vergognerai, spero, se le tue pagine sono scritte con poca arte, tenendo conto in compenso che sono scritte con grande sincerità.

E veniamo dunque alle grandi novità, la prima delle quali è questa: che io in questo momento sto scrivendo sul mio tavolino, in camera mia, di fronte alla finestra che dà sul mio giardino...

Proprio così. Sono stato mandato via dal collegio Pierpaoli, e questa è certamente una gran disgrazia; ma sono finalmente in casa mia e questa è una grandissima fortuna.

Andiamo dunque per ordine.

La mattina del 14 avevo un triste presentimento, come appare dalle righe che scrissi in fretta e furia qui nel giornalino; e il presentimento non mi ingannava.

Uscendo dalla camerata mi accorsi subito che qualche cosa di grosso era per succedere. Si vedeva nelle facce delle persone, si sentiva nell’aria un non so che di grave e di solenne che annunziava qualche avvenimento straordinario.

Incontrai Carlo Pezzi che mi disse in fretta:

- I grandi sono stati interrogati tutti, meno io, il Michelozzi e il Del Ponte...

- E dei nostri, - risposi - sono stati chiamati tutti meno io e Gigino Balestra!

- È evidente che tutto è stato scoperto. Ho saputo che la signora Geltrude dirige il processo dal letto facendo agire Calpurnio che, certo, non sarebbe stato capace d’andare in fondo alla faccenda... Noi siamo tutti d’accordo, se saremo interrogati, a non rispondere neanche una sillaba, per non compromettere di più la situazione.

- Io e il Balestra faremo lo stesso, - risposi alzando la destra in segno di giuramento.

Proprio in quell’istante venne un bidello che mi disse:

- Il signor Direttore la desidera. -

Confesso che quello fu un brutto momento per me. Mi sentii un gran rimescolìo nel sangue... ma fu proprio un momento, e quando mi presentai in Direzione ero relativamente calmo e mi sentivo sicuro di me.

Il signor Stanislao, sempre col suo turbante nero in testa e il suo occhio maculato che era diventato violetto, mi squadrò ben bene da dietro la sua scrivania, senza parlare, credendo di incutermi chi sa che paura, mentre invece io che conoscevo quest’arte, girai in qua e in là lo sguardo distrattamente sugli scaffali pieni di libri, tutti splendidamente rilegati, con certe dorature bellissime e che lui non leggeva mai.

Finalmente il Direttore mi domandò a bruciapelo con accento severo:

- Voi, Giovanni Stoppani, la notte dal 13 al 14 siete uscito verso mezzanotte dalla vostra camerata e non vi avete fatto ritorno che dopo un’ora circa. È vero? -

Io seguitai a guardare i libri degli scaffali.

- Dico a voi, - ripeté il signor Stanislao alzando la voce. - È vero o no? -

E non ricevendo risposta urlò anche più forte:

- Ehi, dico! Rispondete; e ditemi dove siete stato e che avete fatto in quell’ora! -

Io a questo punto fissai lo sguardo sulla carta dell’America appesa alla parete a destra della scrivania e... seguitai a far l’indiano.

Il signor Stanislao allora si alzò dalla sedia puntando le mani sulla scrivania e protendendo la faccia stralunata verso di me; poi al colmo dell’ira gridò:

- Hai capito che devi rispondere, eh? Pezzo di canaglia! -

Ma io non mi scossi, e pensai fra me:

- Si arrabbia perché sto zitto; dunque io sono il primo dei collegiali compromessi che egli ha chiamato in Direzione! -

A questo punto l’usciolino a sinistra della scrivania si aprì e comparve la signora Geltrude tutta rinfagottata in una veste da camera verdognola, con un viso pure verdognolo e con gli occhi tutti pesti, che si volsero subito su di me pieni di odio.

- Che c’è? - disse. - Che sono questi urli?

- C’è - rispose il Direttore - che questo pessimo soggetto non risponde alle mie domande.

- Lascia fare a me, - rispose lei - ché tanto te sarai sempre il medesimo... -

E si fermò; ma io capii, e lo capì certo anche il signor Stanislao, che la parola che mancava al discorso era imbecille.

La Direttrice fece tre passi e mi si piantò dinanzi, in una attitudine minacciosa e cominciò a voce bassa, nella quale si sentiva concentrata una rabbia tanto più terribile in quanto doveva essere repressa:

- Ah, non rispondi, eh? pezzo di mascalzone... Tu non vuoi convenire, eh? delle tue prodezze!... Chi è dunque che ha fatto scappare l’altra notte quell’altro mascalzone come te, il tuo, degno amico Barozzo? Fortunatamente c’è stato chi ti ha visto e chi ha parlato... Ah, credevi di farla liscia, eh? Sei tu che ci hai messo il collegio in rivoluzione fin dal primo momento che ci sei capitato tra i piedi, con le tue perfide invenzioni, con le tue vili calunnie... Ma basta, sai? E anche senza interrogarti vi sono tante prove e testimonianze delle tue canagliate che abbiamo avvertito fino da ieri tuo padre di venirti a riprendere, e a quest’ora dev’essere per la strada... Se non ti vuol tenere in casa ti metterà in galera, che è il solo posto degno d’un briccone come te! -

Mi afferrò per un braccio e scuotendomi riprese:

- Sappiamo tutto! Una cosa sola ci potresti dire... Lo sai tu dov’è andato il Barozzo? -

Non risposi; ed ella scuotendomi forte:

- Rispondi. Lo sai? -

E siccome io seguitavo a tacere, ella esasperata, allargò un braccio come per lasciarmi andare uno schiaffo; ma io balzai indietro e afferrato un gran vaso giapponese che era sulla consolle feci l’atto di buttarlo in terra.

- Brigante! Assassino! - urlò la Direttrice tendendomi il pugno. Lascia andare! Gaspero!... -

Accorse il bidello.

- Portate via questo demonio, e fategli preparare la sua roba che se Dio vuole tra poco ce lo leveremo di torno! Portatemi qui il Balestra. -

Il bidello mi accompagnò in camerata, mi fece rivestire degli abiti da borghese che avevo quando entrai in Collegio, - e che tra parentesi mi eran diventati corti ma larghi, prova manifesta che il regime del collegio Pierpaoli fa allungare i ragazzi ma non li ingrassa - e preparare la mia valigia.

Poi fece l’atto di andarsene dicendomi: - Stia qui, che tra poco arriverà il suo babbo e se Dio vuole si avrà dopo un po’ di pace.

- Imbecille più del signor Stanislao che è tutto dire! - gli risposi al colmo dell’ira.

Egli parve offendersi e mi venne sulla faccia esclamando:

- Lo ridica!

- Imbecille! - ripetei io.

Egli si morse un dito e si allontanò tutto stizzito, mentre io gli dicevo:

- Se vuoi che te lo ridica anche un’altra volta non far complimenti, hai capito? -

E dètti in una risata; ma era un riso sforzato, perché nell’anima ero più arrabbiato io di lui, arrabbiato per non poter trovare il bandolo dell’arruffata matassa e per ignorare la sorte dei miei compagni della Società segreta.

Mi appariva chiara una cosa: che la risata mia e di Gigino Balestra mentre eravamo nell’armadietto ad assistere alla famosa scena notturna aveva fatto scoprire a Calpurnio il nostro osservatorio; che zitto zitto Calpurnio lo aveva fatto murare mentre noi eravamo alle lezioni; che poi con una intuizione molto facile Calpurnio aveva capito che le bòtte distribuite nella fatale nottata non erano state date dallo spirito dello zio di sua moglie ma dai collegiali; che aveva perciò incominciato a interrogare qualche beniamino cercando di scuoprire quali collegiali in quella notte erano usciti di camerata; e che infine avevano trovato il beniamino che in quella notte, essendosi svegliato, aveva visto uscire dalla camerata i congiurati e aveva fatto bravamente la spia.

E certamente le spie erano almeno due: una dei ragazzi grandi che aveva compromesso Mario Michelozzi, Carlo Pezzi e Maurizio Del Ponte, e una dei piccoli che aveva compromesso me e Gigino Balestra.

Un’altra cosa era chiara: che Calpurnio, certamente guidato dall’astuta sua moglie, aveva basato tutto il suo processo sulla nostra complicità nella fuga del Barozzo, non accennando neanche lontanamente al nostro complotto, dirò così, spiritistico che era in realtà molto più grave ma che avrebbe, se ammesso e risaputo, fatto perdere il prestigio del Direttore e della Direttrice... e anche del cuoco!

Però in questa ridda di tetri pensieri, di deduzioni e di induzioni che mi frullava nel cervello, un’idea buffa mi si riaffacciava continuamente:

- Chi sa perché i compagni della Società segreta hanno messo al signor Stanislao il soprannome di Calpurnio? -

E mi meravigliavo di non averne mai domandato una spiegazione finora che mi sarebbe stato così facile averla, mentre ora che mancava poco tempo ad abbandonare per sempre il collegio mi sentivo a un tratto una grande curiosità che mi pungeva sempre più, che a poco a poco mi invadeva tutto cacciando via, in seconda linea, tante altre preoccupazioni che pure avevano diritto d’essere accolte in prima fila...

A un certo punto vidi passare pel corridoio il Michelozzi e mi slanciai verso di lui.

- Dimmi - gli dissi rapidamente - perché il signor Stanislao si chiama Calpurnio? -

Il Michelozzi mi guardò trasecolato.

- Come! - disse. - Ma non sai quel che è successo? Non sei stato chiamato?

- Sì: e sono stato mandato via. E voialtri?

- Anche noi!

- Sta bene: ma io voglio andar via sapendo il perché il signor Stanislao si chiama Calpurnio... -

Il Michelozzi rise.

- Guarda nella Storia Romana e capirai! - rispose e fuggì via.

In quel momento passava un ragazzo della mia camerata, un certo Ezio Masi, che mi guardò con un lieve risolino maligno.

Quel risolino, in quel momento, fu per me come una rivelazione. Mi ricordai d’una volta in cui avevo avuto che dire col Masi il quale infine aveva ceduto alle mie minacce di picchiarlo; sapevo che egli era uno dei collegiali più ben visti dalla signora Geltrude...

E tutto questo condusse, nella mia mente, a formular subito un’accusa:

- È stato lui che ha fatto la spia! -

Non ci stetti a ragionar sopra; lo presi per un braccio e lo spinsi così in camerata mormorando:

- Senti, Masi... t’ho da dire una cosa. -

Sentivo che egli tremava; e intanto andavo architettando nella mia mente l’interrogatorio da rivolgergli e una vendetta nel caso ch’io lo avessi scoperto veramente colpevole.

Nel tragitto che feci trascinandolo dalla porta della camerata al mio letto feci tutto un piano strategico per l’assalto, e uniformandomi a quello rallentai la mano colla quale lo stringevo e lo invitai a sedere accanto a me col più bel sorriso del mondo.

Egli era pallido come un morto.

- Non aver paura, Masi, - gli dissi con accento mellifluo - perché anzi ti ho portato qui per ringraziarti. -

Egli mi guardò sospettoso.

- Lo so che sei stato tu che hai detto al signor Stanislao che io l’altra notte ero uscito di camerata...

- Non è vero! - protestò lui.

- Non lo negare; me l’ha detto lui, capisci? E appunto per questo io ti voglio ringraziare, perché mi hai fatto proprio un piacere...

- Ma io...

- Non capisci che io non ci volevo più stare qui dentro? Non capisci che ne facevo di tutte apposta per farmi mandar via? Che non mi par vero d’essere arrivato a questo momento in cui sto aspettando mio padre che sarà qui fra poco a prendermi? Dunque perché dovrei avercela con te che m’hai fatto raggiungere il mio scopo? -

Egli mi guardò non ancora rassicurato.

- Ora giacché mi hai fatto questo piacere, me ne devi fare un altro. Senti... vorrei andare un momento di là a salutare un mio amico e a dargli la mia giacchetta da collegiale che ho promesso di lasciargli per ricordo: puoi aspettarmi qui, e dire al bidello, nel caso che venisse a cercarmi, che ritorno subito? -

Il Masi ora non dubitava più e manifestò una grande contentezza di essersela cavata così a buon mercato.

- Ma figurati! - mi disse - fa’ pure, sto qui io!... -

Io corsi via. La scuola di disegno, ch’era lì vicina era aperta e non c’era nessuno. Vi entrai stesi la mia giacchetta da collegiale su un banco e preso un pezzo di gesso scrissi nella schiena della giacca, a grandi lettere, la parola: Spia.

Fatto questo, in un lampo, ritornai in camerata, dove entrai con passo misurato, tenendo la mia giubba per il bavero, ripiegata in due in modo che il Masi non vedesse la parola che vi avevo scritta.

- Non ho potuto trovare l’amico - dissi. - Pazienza! Ma poiché non ho potuto lasciar la mia giacchetta a lui, per ricordo, voglio lasciarla a te, mentre io mi prenderò la tua in memoria del gran servizio che mi hai reso. Vogliamo fare a baratto? Vediamo se ti sta bene! -

E appoggiata lievemente la mia giacchetta sul letto lo aiutai a levarsi la sua e poi a rimettergli la mia, facendo in modo naturalmente che non vedesse la parola che v’era scritta sulla schiena.

Quando l’ebbe indossata gliela abbottonai e gli dissi toccandolo con la mano sulla spalla:

- Caro Masi, la ti va come un guanto! -

Egli si dètte un’occhiata alla bottoniera, e si adattò facilmente a questa mia stravaganza. Si alzò, mi porse la mano... ma io feci finta di non accorgermene, perché mi ripugnava di stringer la destra di un traditore, e mi disse:

- Dunque, addio Stoppani! -

Io lo ripresi per il braccio e accompagnandolo alla porta risposi: - Addio Masi: e grazie sai? -

E lo vidi allontanarsi per il corridoio recando dietro la schiena la parola infamante che s’era meritata.

Poco dopo venne il bidello che mi disse:

- Stia pronto, suo padre è arrivato ed è in Direzione a parlare col signor Stanislao. -

Mi venne un’idea:

- Se andassi anche io in Direzione, a raccontare a mio padre in faccia al signor Stanislao, tutti i fatti ai quali egli si sarebbe certo guardato bene accennare, da quello della minestra di rigovernatura a quello della seduta spiritistica? -

Ma l’esperienza, purtroppo, mi avvertiva che i piccini di fronte ai più grandi, hanno sempre torto, specialmente quando hanno ragione.

A che pro difendersi? Il Direttore avrebbe detto che quelle che io narravo eran fandonie, malignità e calunnie di ragazzi, e mio padre avrebbe creduto certo più a lui che a me. Meglio stare zitti e rassegnarsi al proprio destino.

Infatti quando mio padre venne a prendermi non disse nulla. Avrei ben voluto saltargli al collo e abbracciarlo dopo tanto tempo che non lo rivedevo, ma egli mi dètte un’occhiataccia severa che mi agghiacciò e non mi disse altra parola che questa:

- Via! -

E partimmo.

In diligenza si mantenne sempre il medesimo silenzio. Esso non fu rotto da mio padre che nell’entrare in casa.

- Eccoti di ritorno, - disse - ma è un cattivo ritorno. E ormai per te non c’è che la Casa dì correzione. Te lo avverto fin d’ora. -

Queste parole mi spaventarono; ma la paura mi passò subito perché di lì a poco ero nelle braccia della mamma e di Ada, piangente e felice.

Non dimenticherò mai quel momento: e se i babbi sapessero quanto bene fa all’anima dei figlioli il trattarli così affettuosamente piangerebbero anche loro con essi quando c’è l’occasione di farlo, invece di darsi sempre l’aria di tiranni, ché tanto non giova a niente.

Il giorno dopo, cioè il giorno 15, seppi dell’arrivo di Gigino Balestra, anche lui mandato via dal collegio per l’affare della grande congiura del 12 febbraio, data memorabile nella storia dei collegi d’Italia e forse d’Europa. E anche questa è una novità che mi ha fatto piacere perché spero di trovarmi spesso insieme col mio buon amico... e magari di mangiar qualche volta insieme qualche pasticcino nel suo bel negozio... però quando non vede il suo babbo che è socialista, ma che in quanto a pasticcini li vorrebbe tutti per sé.

E ieri poi ne ho saputa un’altra.

Il signor Venanzio, quel vecchio paralitico al quale pescai a canna l’ultimo dente che gli era rimasto, pare che stia di molto male, poveretto, e il mio cognato è in grande aspettativa per la eredità. Questo almeno ho raccapezzato dai discorsi che sento fare; e anzi ho anche saputo che il Maralli, appena ebbe la notizia del mio ritorno dal collegio, disse all’Ada:

- Per carità, badate che non mi venga in casa, perché se no mi fa perdere quel che ho acquistato in questo tempo nell’animo dì mio zio e va a finire che mi disereda davvero! -

Ma non abbia paura, che io in casa sua non ci vado. Oramai ho promesso alla mia buona mamma e all’Ada di metter la testa a partito e di fare in modo che il babbo non abbia a mettere in esecuzione la minaccia fatta di cacciarmi in una Casa di correzione ché questo sarebbe davvero un disonore per me e per la mia famiglia; e in questi cinque giorni ho dimostrato che questa volta non si tratta di promesse da marinaro, e che se voglio so anche essere un ragazzo di giudizio.

Tant’è vero che la mamma stamani mi ha abbracciato e mi ha dato un bacio dicendo:

- Bravo Giannino! seguita così e sarai la consolazione dei tuoi genitori! -

La frase non è nuova, ma però detta da una mamma buona come la mia fa sempre un effetto nuovo nel cuore di un figliolo per bene, e io le ho giurato di mantenermi sempre così.

Io l’ho sempre detto che le mamme sono più ragionevoli dei babbi. Infatti la mamma, quando le ho raccontato dell’affare della minestra di magro che ci davano in collegio il venerdì e dell’eterno riso che si mangiava in tutti gli altri giorni della settimana mi ha dato pienamente ragione e ha detto a mia sorella:

- Poverini, chi sa come si stomacavano a mangiar quelle porcherie! -