Il giornalino di Gian Burrasca/17 ottobre/1

17 ottobre

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16 ottobre 17 ottobre - 2


17 ottobre.


La zia Bettina non s’è ancora alzata, e io approfitto di questo momento per registrare qui l’avventura accadutami ieri, e che meriterebbe proprio di esser descritta dalla penna di un Salgari. Iermattina, dunque, mentre tutti dormivano, fuggii da casa come avevo stabilito, dirigendomi verso la stazione.

Io avevo già disegnato nella mente il modo di effettuare il mio progetto che era quello di recarmi a casa della zia Bettina. Non avendo quattrini per prendere il treno e non conoscendo la strada provinciale per andarvi, mi proponevo di entrare nella stazione, aspettare il treno col quale ero andato l’altra volta dalla zia Bettina, e dirigermi per la stessa strada, lungo la ferrovia, seguendo le rotaie, fino al paese presso il quale è la villa Elisabetta dove sta appunto la zia. Così non c’era pericolo di sbagliare, e io, ricordandomi che ad andarci col treno ci si mette tre ore o poco più, mi proponevo di arrivarci prima di sera.

Giunto dunque alla stazione, presi il biglietto d’ingresso ed entrai. Il treno arrivò poco dopo, ed io, per evitare il caso di esser visto da qualche persona di conoscenza, mi diressi verso gli ultimi vagoni per attraversare la linea e andare dalla parte opposta alla stazione. Ma invece mi fermai dinanzi all’ultimo vagone che era un carro per bestiame, vuoto, e che aveva la garetta dove sta il frenatore, vuota anch’essa.

- Se montassi lassù?

Fu un lampo. Assicuratomi con un’occhiata che nessuno badava a me, saltai sulla scaletta di ferro, mi arrampicai su, e mi misi seduto nella garetta, col ferro del freno tra le gambe, e le braccia appoggiate sul manubrio del freno.

Di lì a poco il treno partì e io sentii arrivarmi fin dentro il cervello il fischio della macchina la cui groppa nera io vedevo, di lassù, distendersi alla testa di tutti i vagoni che si trascinava dietro, tanto più che il vetro del finestrino della garetta da quella parte era stato rotto, e non ve n’era rimasto che un pezzetto in un angolo, a punta.

Meglio! Da quel finestrino, aperto proprio all’altezza della mia testa, io dominavo tutto il treno che si slanciava a traverso la campagna, che era ancora avvolta nella nebbia. Ero felice, e per festeggiare in qualche modo la mia fortuna, cavai di tasca un pezzetto di torrone e mi misi a rosicchiarlo.

Ma la mia felicità durò poco. Il cielo s’era fatto scuro, e non tardò a venir giù una pioggia fitta fitta e ad alzarsi un vento impetuoso, mentre una scarica terribile di tuoni si inseguiva fra l’ombre delle montagne...

Io non ho paura dei tuoni, tutt’altro; ma mi mettono addosso il nervoso, e perciò appena incominciò a tuonare mi si presentò alla mente la mia condizione in un quadro molto diverso da quello col quale mi era apparso da principio.

Pensavo che in quel treno nel quale viaggiava tanta gente ero isolato e ignorato da tutti. Nessuno, né parenti, né estranei, sapeva che io era lì, sospeso in aria in mezzo a così tremenda tempesta, sfidando così gravi pericoli.

E pensavo anche che aveva molta ragione il babbo quando diceva roba da chiodi del servizio ferroviario e delle condizioni scandalose nelle quali si trova il materiale. Io ne avevo lì una prova evidente nel finestrino della garetta dal quale, essendo rotto il vetro come ho detto prima, entrava vento e pioggia, facendomi gelare la parte destra della faccia che vi si trovava di contro, mentre mi sentivo la parte sinistra infocata in modo che mi pareva d’esser mezzo ponce e mezzo sorbetto, e ripensavo malinconicamente alla festa da ballo della sera precedente, che era stata la causa di tanti guai.

E il peggio fu quando incominciarono le gallerie!

Il fumo lanciato dalla macchina si addensava sotto la volta del tunnel, e dal finestrino rotto invadeva la mia angusta garetta, impedendomi il respiro. Mi pareva d’essere in un bagno a vapore, dal quale poi, quando il treno usciva dal tunnel, passavo a un tratto al bagno freddo della pioggia.

In un tunnel più lungo degli altri credetti di morire asfissiato. Il fumo caldo mi avvolgeva tutto, avevo gli occhi che mi bruciavano per la polvere di carbone che entrava col fumo nella garetta e che mi accecava, e per quanto mi facessi coraggio sentivo che ormai le forze erano per abbandonarmi.

In quel momento l’animo mio fu vinto da quella cupa disperazione che in certe avventure provano anche gli eroi più valorosi come Robinson Crosuè, i Cacciatori di capigliature e tanti altri. Ormai per me (così mi pareva) la era finita e volendo che almeno rimanessero, come esempio, le ultime parole di un ragazzo infelice condannato a morire di soffocazione in un treno, nel fiore degli anni, scrissi nel giornalino con uno zolfino spento che avevo trovato nel sedile della garetta le parole della pagina 23:

Moio per la Libertà!

Ma non potei finir la parola, perché in quel punto mi sentii un nodo alla gola e non capii più nulla.

Devo essermi svenuto di certo, e credo che, se non avessi avuto il ferro del freno tra le gambe che mi reggeva, sarei caduto giù dalla garetta e morto stritolato sotto il treno.

Quando rientrai in me stesso, la pioggia gelata mi sferzava di nuovo la faccia e mi prese un freddo così acuto nelle ossa, che incominciai a battere i denti.

Fortunatamente di lì a poco il treno si fermò, e sentii gridare il nome del paese al quale ero diretto. Io volli scendere alla svelta giù per la scaletta di ferro, ma mi tremavano le gambe, e all’ultimo scalino inciampai e caddi in ginocchio.

Subito mi vennero d’intorno due facchini e un impiegato, che mi raccolsero, e guardandomi con tanto d’occhi, mi domandarono come mai mi trovavo lassù sulla garetta. Io risposi che vi ero salito in quel momento, ma loro mi portarono nell’ufficio del capostazione, il quale mi messe dinanzi uno specchietto dicendomi:

- Ah, ci sei salito ora, eh? E codesto muso da spazzacamino quando te lo sei fatto? Io nel vedermi nello specchio rimasi senza fiato. Non mi riconoscevo più. La polvere di carbone, col fumo, durante il mio disastroso viaggio, mi era penetrata nella pelle della faccia alterando i miei connotati per modo che parevo un vero e proprio abissino. Non dico niente poi degli abiti, ridotti addirittura a brandelli, e sporchi anch’essi come la faccia.

Fui costretto a dire da dove venivo e dove andavo.

- Ah! - disse il capostazione. - Vai dalla signora Bettina Stoppani? Allora pagherà lei per te.

E disse all’impiegato:

- Faccia un verbale di contravvenzione computandogli tre biglietti di terza classe e la trasgressione per aver viaggiato in una garetta riservata al personale! -

Io avrei voluto rispondere che questa era una ladroneria bella e buona. Come! Mentre le ferrovie avrebbero dovuto per giustizia rifare un tanto a me che mi ero adattato a viaggiare peggio delle bestie, che almeno viaggiano al coperto, mi si faceva invece pagare per tre?

Ma siccome mi sentivo male, mi contentai di dire:

- Almeno, giacché il viaggiare nelle garette costa così caro, procurino che ci sieno i finestrini col vetro! -

Non l’avessi mai detto! Il capostazione mandò subito un facchino a verificare la garetta dove avevo viaggiato e, saputo che non c’era il vetro, mi fece aumentare la contravvenzione di ottanta centesimi come se l’avessi rotto io!

Mi accorsi una volta di più che il mio babbo aveva ragione a dir corna del servizio ferroviario, e non dissi altro per paura che mi avessero a mettere nel conto anche il ritardo del treno, e magari qualche guasto della locomotiva.

Così, accompagnato dall’impiegato, mi avviai verso la villa Elisabetta, e non vi so dire come rimase la zia Bettina quando si vide capitar dinanzi uno straccione così sudicio com’ero io e, peggio ancora, un conto da pagare di sedici lire e venti, e più la mancia all’impiegato che glielo portava!

- Che è accaduto, mio Dio?... - ha gridato appena ha potuto capire dalla voce che ero io.

- Senti, zia Bettina, - le ho detto - a te, lo sai, dico sempre la verità...

- Bravo! Dimmi dunque...

- Ecco: sono scappato di casa.

- Scappato di casa? Come! Hai abbandonato il tuo babbo, la tua mamma, le tue sor...

Ma si è interrotta all’improvviso, come se le fosse venuto male. Certo si ricordava in quel momento che le mie sorelle non l’avevano voluta alla festa.

- È naturale! - ha soggiunto. - Quelle ragazze farebbero perder la pazienza a un Santo!... Vieni in casa, figliolo mio, a lavarti che mi sembri un bracino; poi mi racconterai tutto...

Intanto io guardavo Bianchino, il vecchio Barboncino che è così caro alla zia Bettina, e alla finestra della villa il vaso di dìttamo al quale ella è così pure affezionata. Nulla è cambiato dall’ultima volta che ci venni, e mi pare di non essermi mai mosso di qui.

Quando mi fui lavato, la zia Bettina si accòrse che avevo un po’ di febbre e mi mise a letto, benché io tentassi di persuaderla che era tutta questione d’appetito.

La zia Bettina mi fece alcuni rimproveri a mezza bocca, ma in fondo mi disse che stessi pur tranquillo, che da lei non correvo nessun pericolo; e io fui così commosso dalla sua bontà, che volli farle assaggiare un pezzetto di torrone che avevo in tasca dei calzoni, e la pregai di prenderlo, ché così ne avrei mangiato un po’ anch’io.

Difatti la zia Bettina fece per metter la mano in tasca, ma non fu capace di aprirla.

- Ma qui c’è la colla! - disse.

Che era successo? Il torrone, col calore del fumo rinserratosi nella garetta, si era tutto strutto e aveva appiccicato la tasca dei calzoni per modo che non era più possibile di aprirla.

Basta: la zia mi fece compagnia, finché, alla fine, la stanchezza non mi fece prender sonno... e da allora mi sono svegliato in questo momento, e il primo mio pensiero è stato per te, giornalino mio, che mi hai seguito sempre, mio fido compagno, a traverso a tanti dispiaceri, a tante avventure e a tanti pericoli...

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Stamani la zia Bettina s’è molto inquietata con me per uno scherzo innocente che, in fin dei conti, era stato ideato con l’intenzione di farle piacere.

Ho già detto che la zia è molto affezionata a una pianta di dìttamo che tiene sulla finestra di camera sua, a pianterreno, e che annaffia tutte le mattine appena si alza. Basta dire che ci discorre perfino insieme e gli dice: - Eccomi, bello mio, ora ti dò da bere! Bravo, mio caro, come sei cresciuto! - È una sua mania, e si sa che tutti i vecchi ne hanno qualcuna.

Essendomi dunque alzato prima di lei, stamattina, sono uscito di casa, e guardando la pianta di dìttamo m’è venuta l’idea di farla crescere artificialmente per far piacere alla zia Bettina che ci ha tanta passione.

Lesto lesto, ho preso il vaso e l’ho vuotato. Poi al fusto della pianta di dìttamo ho aggiunto, legandovelo bene bene con un pezzo di spago, un bastoncino dritto, sottile ma resistente, che ho ficcato nel vaso vuoto, facendolo passare a traverso quel foro che è nel fondo di tutti i vasi da fiori, per farci scolar l’acqua quando si annaffiano.

Fatto questo, ho riempito il vaso con la terra che vi avevo levata, in modo che la pianta non pareva fosse stata menomamente toccata; e ho rimesso il vaso al suo posto, sul terrazzino della finestra, il cui fondo è di tante assicelle di legno, facendo passare fra l’una e l’altra di esse il bastoncino che veniva giù dal foro del vaso e che io tenevo in mano, aspettando il momento di agire.

Dopo neanche cinque minuti, eccoti la zia Bettina che apre la finestra di camera, e incomincia la sua scena patetica col dìttamo:

- Oh, mio caro, come stai? Oh, poveretto, guarda un po’: hai una fogliolina rotta... sarà stato qualche gatto... qualche bestiaccia...

Io me ne stavo lì sotto, fermo, e non ne potevo più dal ridere.

- Aspetta, aspetta! - seguitò a dire la zia Bettina. - Ora piglio le forbicine e ti levo la fogliolina troncata, se no secca,... e ti fa male alla salute, sai, carino?...

Ed è andata a prendere le forbicine. Io allora ho spinto un po’ in su il bastoncino.

- Eccomi, bello mio! - ha detto la zia Bettina tornando alla finestra. - Eccomi, caro!.. -

Ma ha cambiato a un tratto il tono alla voce ed ha esclamato:

- Non sai che t’ho da dire? Che tu mi sembri cresciuto!... -

Io scoppiavo dal ridere, ma mi trattenevo, mentre la zia seguitava a nettare il suo dittamo con le forbicine e a discorrere:

- Ma sì, che sei cresciuto... E sai che cos’è che ti fa crescere? È l’acqua fresca e limpida che ti dò tutte le mattine... Ora, ora... bello mio, te ne dò dell’altra, così crescerai di più... -

Ed è andata a pigliar l’acqua. Io intanto ho spinto in su il bastoncino, e questa volta l’ho spinto parecchio, in modo che la pianticella doveva parere un alberello addirittura.

A questo punto ho sentito un urlo e un tonfo.

- Uh, il mio dìttamo!... -

E la zia, per la sorpresa e lo spavento di veder crescere la sua cara pianta a quel modo, proprio a vista d’occhio, s’era lasciata cascar di mano la brocca dell’acqua che era andata in mille bricioli.

Poi sentii che borbottava queste parole:

- Ma questo è un miracolo! Ferdinando mio, Ferdinando adorato, che forse il tuo spirito è in questa cara pianta che mi regalasti o desti per la mia festa? -

Io non capivo precisamente quel che voleva dire, ma sentivo che la sua voce tremava e, per farle più paura che mai, ho spinto in su più che potevo il bastoncino. Ma mentre la zia vedendo che il dìttamo seguitava a crescere, continuava a urlare: Ah! Oh! Oh! Uh!, il bastoncino ha trovato un intoppo nella terra del vaso, e siccome io lo spingevo con forza per vincere il contrasto, è successo che il vaso si è rovesciato fuor della finestra, ed è caduto rompendosi a’ miei piedi.

Allora ho alzato gli occhi e ho visto la zia affacciata, con un viso che faceva paura.

- Ah, sei tu! - ha detto con voce stridula. Ed è sparita dalla finestra per riapparire subito sulla porta, armata di un bastone.

Io, naturalmente, me la son data a gambe per il podere, e poi son salito sopra un fico dove ho fatto una grande spanciata di fichi verdini, che credevo di scoppiare

Quando son ritornato alla villa, ho visto sulla solita finestra un vaso nuovo con la pianta di dìttamo e ho pensato che la zia, avendo rimediato al mal fatto, si fosse calmata. L’ho trovata in salotto che discorreva con un facchino della stazione e appena mi ha visto, mi ha detto con aria molto sostenuta mostrandomi due telegrammi:

- Ecco qui due dispacci di vostro padre. Uno di iersera che non ha avuto corso perché la stazione era chiusa, e uno di stamani. Vostro padre è disperato non sapendo dove vi siete cacciato... Gli ho risposto che venga a prendervi col prossimo treno! -

Io, quando il facchino è andato via, ho tentato di rabbonirla, e le ho detto con la mia voce piagnucolosa che di solito fa un grande effetto perché ci si sente il ragazzo che è pentito:

- Cara zia, le chiedo scusa di quel che ho fatto...

Ma lei ha risposto arrabbiata:

- Vergognatevi!

- Però - ho seguitato a dire con voce sempre più piagnucolosa - Io non sapevo che nel dìttamo ci fosse lo spirito di quel signor Ferdinando che diceva lei...

A queste parole la zia Bettina si è cambiata a un tratto. È diventata rossa come il tacchino della contadina, e ha detto balbettando:

- Zitto, zitto!... Mi prometti di non dir niente a nessuno di quel che è successo?

- Sì, glielo prometto...

- Ebbene, allora non ne parliamo più: e io cercherò di farti perdonare anche dal tuo babbo...

Il babbo arriverà certamente col treno delle tre, non essendovene altri né prima né dopo. E io sento una certa tremarella...

#

Sono qui, chiuso nel salotto da desinare, e sento di là nell’ingresso quella vociaccia stridula della zia Bettina che si sfoga contro di me con la moglie del contadino e ripete:

- È un demonio! Finirà male!

E tutto questo perché? Per aver fatto il chiasso coi figliuoli del contadino, come fanno tutti i ragazzi di questo mondo, senza che nessuno ci trovi nulla da ridire. Ma siccome io ho la disgrazia d’avere tutti parenti che non voglion capire che i ragazzi hanno diritto di divertirsi anche loro, così mi tocca ora a star qui chiuso e sentirmi dire che finirò male ecc. ecc., mentre invece io volevo che la zia Bettina finisse col pigliarci gusto anche lei al serraglio di bestie feroci, che m’era riuscito così bene.

L’idea m’è venuta perché una volta il babbo mi portò a vedere quello di Numa Hava, e da allora ci ho sempre ripensato, perché il sentire nell’ora del pasto tutti quegli urli dei leoni, delle tigri e di tanti altri animali che girano in qua e in là nelle gabbie stronfiando e raspando è una cosa che fa grande impressione e non si dimentica tanto facilmente. E poi io ho sempre avuta molta passione per la storia naturale e a casa ho i Mammiferi illustrati del Figuier che li leggo sempre, guardando le figure che mi son divertito tante volte a ricopiare.

Ieri, dunque, nel venire qui alla villa avevo visto nella fattoria che confina col podere della zia due operai che tingevano le persiane della casa del fattore di verde e le porte della stalla accanto di rosso; sicché stamani, dopo il fatto della pianta di dìttamo, appena mi è venuto l’idea del serraglio, mi son subito ricordato dei pentolini di tinta degli operai, che avevo visto ieri alla fattoria, e ho detto fra me che avrebbero potuto far comodo, come difatti mi sono stati molto utili.

Prima di tutto mi son messo d’accordo con Angiolino, il figliuolo del contadino della zia, un ragazzo che ha quasi la mia età ma che non ha mai visto nulla nella sua vita, sicché mi sta sempre a sentire a bocca aperta e m’ubbidisce in tutto e per tutto.

- Ti voglio far vedere qui sull’aia il serraglio di Numa Hava - gli ho detto. - Vedrai!

- Voglio vedere anch’ io! - ha esclamato subito la Geppina che è la sua sorella minore.

- Anch’io! - ha detto Pietrino, un bambino di due anni e mezzo che non sa ancora camminare e che si trascina per terra con le mani e con le ginocchia.

Lì nella casa del contadino non c’eran che questi tre ragazzi perché i loro genitori e i fratelli maggiori eran tutti nel campo a lavorare.

- Va bene... - ho detto. - Ma bisognerebbe poter pigliare i pentolini delle tinte alla fattoria!

- Questo è il momento buono, - ha detto Angiolino - perché è l’ora che i verniciatori vanno al paese a far colazione.

E siamo andati tutt’e due alla fattoria. Non c’era nessuno.
Da una parte, a piè di una scala, c’eran due pentoli pieni di tinta a olio: in uno la tinta rossa e nell’altro la tinta verde; e c’era anche un bel pennellone grosso come il mio pugno. Angiolino ha preso un pentolo; io ho preso l’altro e il pennello e via, siamo ritornati sull’aia di casa sua, dove Pietrino e la Geppina ci aspettavano ansiosi.

- Cominceremo dal fare il leone, - ho detto.

A questo scopo avevo portato con me dalla villa, Bianchino, il vecchio can barbone della zia Bettina, al quale ella è così affezionata. Gli ho attaccato al collare una fune e l’ho legato alla stanga del carro da buoi che era sull’aia, e, dato di piglio al pennellone, ho incominciato a tingerlo tutto di rosso.

- Veramente - ho detto a quei ragazzi perché avessero un’idea precisa dell’animale che volevo loro rappresentare - il leone è colore arancione, ma siccome manca il giallo noi lo faremo rosso, che in fondo viene a esser quasi lo stesso.

In poco tempo Bianchino, interamente trasformato, non era più riconoscibile e, mentre esso si andava asciugando al sole, ho pensato a preparare un’altra belva.

Poco distante da noi c’era una pecorella che pascolava; l’ho legata alla stanga del carro, accanto al cane, e ho detto:

- Questa la trasformeremo in una bellissima tigre.

E dopo aver mescolate in una catinella un po’ di tinta rossa e un po’ di tinta verde le ho dipinto sul dorso tante ciambelline in modo che pareva proprio una tigre del Bengala come quella che avevo visto da Numa Hava, meno che, per quanto le avessi tinto anche il muso, non aveva quell’espressione feroce che faceva una così bella impressione in quella vera.

A questo punto ho sentito un grugnito, e ho domandato ad Angiolino: - Che ci avete anche un maiale?

- Sì, ma è un maialino piccolo: è qui nella stalla, guardi sor Giannino.

E ha tirato fuori, infatti, un porcellino grasso grasso, con la pelle color di rosa che era una bellezza.

- Che se ne potrebbe fare? - ho domandato a me stesso. E Angiolino ha esclamato :

- Perché non ci fa un leofante?

Io mi son messo a ridere.

- Vorrai dire un elefante! - gli ho risposto. - Ma sai che un elefante è grande come tutta questa casa? E poi con che gli si potrebbe far la proboscide?

- A questa parola i figliuoli del contadino si son messi a ridere tutt’e tre e finalmente Angiolino ha domandato:

- O che è ella, codesta cosa così buffa che ha detto lei, sor Giannino?

- È, come un naso lungo lungo quasi quanto la stanga di questo carro e che serve all’elefante per pigliar la roba, per alzare i pesi e per annaffiare i ragazzi quando gli fanno i dispetti.

Che brutta cosa è l’ignoranza! Quei villanacci di ragazzi non mi hanno voluto credere, e si son messi a ridere più che mai.

Io intanto riflettevo per trovare il modo di utilizzare il maialino color di rosa che seguitava a grugnire come un disperato. Alla fine ho risoluto il problema e ho gridato:

- Sapete che cosa farò? Io cambierò questo maialino in un coccodrillo! -

Sul carro c’era una copertaccia da cavallo. L’ho presa e l’ho fermata da un lato, legandola con una fune intorno alla pancia del maialino; poi, risollevando tutta la parte di coperta che avanzava strascicando di dietro, l’ho legata stretta stretta a uso salame, in modo che rappresentasse la lunga coda del coccodrillo. Fatto questo, ho tinto di verde tanto il maialino che la coperta, in modo che, a lavoro compiuto, l’illusione era perfetta.

Dopo aver legata anche questa belva alla stanga del carro da buoi, ho pensato di farne un’altra servendomi dell’asino che ho preso nella stalla e che, essendo di color grigio, si è prestato benissimo a far da zebra. Infatti è bastato che gli dipingessi sul corpo, sul muso e sulle gambe tante strisce, dopo aver mescolato daccapo il rosso col verde, per ottenere una zebra sorprendente, che ho legata con gli altri animali alla solita stanga.

Infine, siccome per rallegrare la scena mancava la scimmia, con lo stesso colore ho tinto la faccia di Pietrino che appunto stava berciando e sgambettando come una bertuccia, e servendomi d’uno straccio strettamente legato gli ho anche fabbricato una splendida coda che ho assicurata alla cintola del marmocchio, sotto la sottanina.

Poi, per rendere la cosa anche più naturale, ho pensato che il vedere la scimmia sopra un albero avrebbe fatto un bellissimo effetto e perciò, aiutato da Angiolino, ho messo Pietrino su un ramo dell’albero che è accanto all’aia, assicurandolo con una fune perché non cascasse.

Così ho completato il mio serraglio e ho incominciato la spiegazione.

- Osservino, signori : questa bestia a quattro zampe con la groppa tutta rigata a strisce bige e nere è la Zebra, un curioso animale fatto come un cavallo ma che non è un cavallo, che morde e tira i calci come i ciuchi ma che non è un ciuco, e che vive nelle pianure dell’Affrica cibandosi dei sedani enormi che nascono in quelle regioni, e scorrazzando qua e là a causa delle terribili mosche cavalline che in quei paesi caldi hanno le proporzioni dei nostri pipistrelli...

- Accidempoli! - ha detto Angiolino. - O che può essere?

- Può essere sicuro! - ho risposto io. - Ma tu devi stare zitto, perché mentre si dà la spiegazione delle bestie feroci, è proibito al pubblico di interrompere perché è pericoloso. Quest’altra belva, che è qui accanto, è la Tigre del Bengala, che abita in Asia, in Affrica e in altri luoghi dove fa strage degli uomini e anche delle scimmie... -

A questo punto della mia spiegazione Pietrino ha incominciato a piagnucolare di sull’albero e, voltandomi in su, ho visto che la fune con la quale l’avevamo legato al ramo s’era allentata ed egli stava sospeso con gli occhi fuor della testa per la paura. In quella posizione pareva proprio una scimmia vera quando sta attaccata agli alberi con la coda, e io ho approfittato subito della circostanza per richiamar l’attenzione del pubblico su questa nuova bestia del mio serraglio.

- Hanno udito, signori e signore? Al solo nome della tigre la Scimmia si è messa a stridere, e con ragione, perché essa è spesso vittima degli assalti di questo terribile animale ferino. La scimmia che loro osservano lassù sull’albero è una di quelle che si chiamano volgarmente bertucce e che vivono abitualmente in cima agli alberi delle foreste vergini, dove si nutrono di bucce di cocomero, di torsoli di cavolo e di tutto quel che si trova a portata delle loro mani. Questi curiosi e intelligenti animali hanno il brutto vizio di scimmiottare tutto quel che vedono fare agli altri, e questo è appunto il motivo per cui i naturalisti hanno messo loro il nome di scimmie... Bertuccia, fate una riverenza a questi signori!... -

Ma Pietrino non ha voluto saperne di far la riverenza, e ha seguitato a piagnucolare.

- Faresti meglio - gli ho detto - a soffiarti il naso... Ma intanto noi passeremo al Leone, a questo nobile e generoso animale che ben a ragione è chiamato il re di tutte le bestie perché col suo bel manto e la sua forza impone soggezione a tutti quanti, essendo capace di mangiarsi anche una mandra di bovi in un boccone... Esso è il carnivoro più carnivoro di tutti i carnivori, e quando ha fame non porta rispetto a nessuno, ma non è tanto feroce come altre belve che ammazzano la gente per puro divertimento; esso invece è un animale di cuore, e si racconta anche nei libri, che una volta, trovandosi egli a Firenze di passaggio, e avendo incontrato per la strada un piccolo bambino che si chiamava Orlanduccio e che si era perso, lo prese delicatamente per la giacchetta e lo riportò pari pari alla sua mamma che se non mori di paura e di consolazione fu un vero miracolo.

Molte altre cose avrei potuto dire intorno al leone; ma siccome Pietrino seguitava a berciare sull’albero che pareva lo scannassero, mi sono affrettato a passare al Coccodrillo.

- Guardino, signori, questo terribile anfibio che può vivere tanto nell’acqua che nella terra e che abita sulle sponde del Nilo dove dà la caccia ai negri e ad altri animali facendoli sparire nell’enorme bocca come se fossero piccole pasticche di menta!... Esso si chiama coccodrillo perché ha il corpo ricoperto di grosse squame dure come le noci di cocco fresco che si vendono nei bar, e con le quali si difende dai morsi delle altre bestie feroci che si aggirano in quei paraggi...

In così dire ho dato una buona dose di bacchettate sul groppone del maialino che ha incominciato a grugnire come un disperato, mentre il pubblico rideva a più non posso.

- La caccia al coccodrillo, signori e signore, è molto difficile appunto perché su quel groppone così duro le armi a punta come la sciabola e il coltello si spuntano, e le armi a fuoco sono inutili perché le palle rimbalzano e se ne vanno via. I coraggiosi cacciatori però hanno pensato un modo molto ingegnoso per pigliare i coccodrilli, servendosi di uno stile a due punte in mezzo al quale è legata una corda, che adoperano così...

E perché quei due poveri ignoranti capissero qualcosa, ho preso un pezzo di legno, poi col temperino vi ho fatto le punte da tutt’e due le parti e vi ho legato uno spago nel mezzo: fatto questo, mi sono avvicinato al maialino, gli ho fatto aprir bocca e vi ho introdotto dentro arditamente il pezzo di legno, seguitando la mia spiegazione:

- Ecco qua; il cacciatore aspetta che il coccodrillo faccia uno sbadiglio, ciò che gli succede spesso, dovendo vivere sempre sulle sponde del Nilo dove anche una bestia finisce per annoiarsi; e allora ficca il suo dardo nell’enorme bocca dell’animale anfibio che naturalmente si affretta a richiuderla. Ma che cosa succede? Succede che chiudendo la bocca viene a infilarsi da sé stesso le due punte del dardo nelle due mascelle, come possono osservare lor signori... -

Infatti il maialino, richiudendo la bocca s’era bucato e mandava certi urli che arrivavano al cielo.

In quel momento, voltandomi, ho visto il babbo e la mamma d’Angiolino, che venivano giù dal campo trafelati. Il contadino gridava:

- Oh, il mi’ maialino!...

E la contadina sporgeva le braccia verso quel moccione di Pietrino, che seguitava anche lui a piangere, e diceva:

- Uh, povera la mi’ creatura!...

È inutile. I contadini sono ignoranti, e perciò in tutte le cose si lasciano sempre trasportare all’esagerazione. A vederli correre affannati e fuor della grazia di Dio pareva che gli avessi ammazzato tutti i figliuoli e tutte le bestie, invece di cercare, come facevo io, di istruire que’ villani tentando di far entrare in que’ cervellacci duri, delle spiegazioni sulle cose che non avevano mai visto.

Ma sapendo quanto sia difficile di far entrar la ragione in quelle zucche, per non compromettermi ho sciolto alla svelta tutte le bestie feroci e, montato sul ciuco, gli ho dato un par di legnate, e via a precipizio su per la strada maestra, con Bianchino dietro, che abbaiava a più non posso.

Dopo aver girato un pezzo, finalmente sono arrivato alla villa. La zia Bettina è corsa sulla porta, e vedendomi sul ciuco ha esclamato:

- Ah, che hai fatto?...

Poi, vedendo Bianchino tutto tinto di rosso, ha dato un balzo indietro impaurita, come se fosse stato un leone davvero; ma l’ha riconosciuto subito e allora gli si è buttata addosso, tremando come una foglia e gemendo:

- Uh, Bianchino mio, Bianchino caro! Come ti hanno ridotto, povero amor mio!... Ah! È stato di certo questo manigoldo!...

E si è rialzata tutta inviperita. Ma io ho fatto più presto di lei, e buttatomi giù dal ciuco, son corso in questa stanza e mi ci son chiuso.

- Starai lì in prigione finché non viene a ripigliarti tuo padre! - ha detto la zia Bettina: e ha chiuso la porta di fuori, a chiave.

Dopo poco ho sentito la contadina che è venuta a far rapporto di tutto quel che ho fatto sull’aia, s’intende esagerando ogni cosa. Ha detto che il maiale sputa sangue, che Pietrino è in uno stato da far pietà, ecc. Basti dire che mi si tiene responsabile anche di quel che non è successo, e infatti è la decima volta che quell’uggiosa ripete:

- Ma ci pensa, lei, sora padrona, se il mi’ Pierino cascava giù dall’albero?...

Lasciamola dire: bisogna compatire le persone ignoranti, perché loro non ci hanno colpa. Tra pochi minuti arriverà il babbo e speriamo che egli saprà distinguere quel che è la verità...