Le novelle della nonna/Il fortunato Ubaldo
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- Il fortunato Ubaldo
Mentre la Regina stava per incominciare la novella, quando tutti i ragazzi le erano già seduti d’intorno a bocca aperta, e i grandi attendevano anch’essi, a poca distanza, una carrozza di Poppi si fermò davanti all’aia, e il vetturino schioccò la frusta per avvertire che qualcuno portasse il trapelo. - Per l’appunto ora! - esclamò Beppe, il maggiore dei figliuoli di Maso, al quale spettava di accompagnare i forestieri fin su verso Camaldoli. - Va’ via! Che aspetti? - esclamò la Carola. - Lo sai che tocca a te. - Ma per l’appunto di domenica e a quest’ora, quando la nonna ci racconta la novella, - ribatté il ragazzo. E si alzò pian piano, svogliatamente, per andare a prendere il mulo nella stalla. Intanto dalla piccola carrozza era sceso un signore e si avanzava verso l’aia dei Marcucci, seguìto da una signora. Vedendo tutti quei contadini riuniti attorno alla vecchia, i due viaggiatori s’erano fermati ad ammirare quel quadro grazioso e gentile. Vezzosa, spinta dalla Carola, s’era alzata prontamente ed era andata incontro ai visitatori offrendo loro di riposarsi e di rinfrescarsi. - Non vogliamo disturbarvi; - disse la signora guardando con ammirazione la bella contadina, - ma domani ripasseremo di qui, tornando da Camaldoli, e allora accetteremo la vostra offerta. Intanto Beppe aveva portato fuori dalla stalla il mulo, e i due forestieri, accompagnati da Vezzosa, risalirono in carrozza e partirono salutando. Cecco era rimasto a sedere, ma non gli era sfuggito nulla di quella scenetta, e quando la moglie gli tornò accanto, le disse: - Vedi, la gente di città non crede di trovare in queste campagne una donnina come te, e ne fa le meraviglie. - Via, smetti! - disse Vezzosa sorridendo di compiacenza, - lascia raccontar la nonna. - Bambini, - incominciò la vecchia, - questa volta non vi racconterò una novella casentinese. Ne so una delle Marche, che ho imparata da una contadina di quei paesi, e, tanto per variare, ve la vo’ dire.
- C’era dunque a Recanati un ragazzo per nome Ubaldo, il quale rimase orfano di padre e di madre. Questo ragazzo non aveva altro che uno zio, avarissimo, il quale, tanto per non aver seccature e godersi in pace i pochi campi d’Ubaldo, disse al nipote: «Sai che devi fare? Devi andare per il mondo. Almeno potrai far fortuna. Se resti qui, sarai sempre un mezzo pitocco!» e lo mandò via dandogli soltanto un bastone e tre scudi. Ubaldo aveva sentito tanto magnificare la chiesa di Nostra Signora di Loreto, che, invece di prendere un’altra via, imboccò quella che conduce al Santuario e, giuntovi, snocciolò, dinanzi alla grata della Santa Casa, che si crede sia stata portata lassù una notte dagli angioli, tutte le orazioni imparate da piccino. Poi uscì, e nello scendere in piazza vide un morto steso in terra, circondato da una enorme folla di persone. Ubaldo sentì dire che il cadavere abbandonato era quello di un mendicante, spirato la sera prima. - Era forse un miscredente o un assassino? - domandò il ragazzo. - No, era anzi un sant’uomo; - risposero le persone presenti, - e anche se la fame lo avesse straziato, non si sarebbe attentato a rubare un pezzo di pane dal fornaio, né una mela da un albero. - Perché dunque gli negano di esser sepolto in terra santa? - domandò Ubaldo. - Perché il povero Marco non ha da pagare le spese del funerale, - risposero i circostanti. - Santa Vergine, come sono interessati i preti di questo paese, che tengon la chiesa aperta ai vivi e ricusano di aprirla ai morti! Se occorre del denaro, ecco tre scudi; non ho altro, ma li do volentieri per mettere un cristiano sottoterra. Il proposto fu avvertito; prese i tre scudi, recitò alla lesta le preghiere dei defunti, fece calare il povero Marco in una fossa e poi se ne andò a cena. Ubaldo prese due pezzi di legno, ne formò una croce, che mise sulla fossa del mendicante, e dopo aver recitato devotamente il De profundis prese la via d’Ancona. Ma dopo poco fu sopraggiunto dalla notte, e sentendosi lo stomaco vuoto si rammentò che non aveva di che comprarsi un pezzo di pane. Si mise dunque a cogliere le more sulle siepi e, cogliendole, guardava gli uccelli che raggiungevano il nido, e pensava: «Quegli uccellini son più felici dei cristiani; non hanno bisogno né d’alberghi, né di fornai, né di macellari; sono padroni del cielo, e la terra del buon Dio si stende sotto di loro come una tavola sempre apparecchiata; i moscerini sono la loro caccia; i granellini il loro pane; i fiori del biancospino, dei rosai salvatici, le bacche di ginepro, le ulive, sono le loro frutta; hanno diritto di prender tutto senza pagare. Per questo gli uccellini sono allegri e cantano tutto il santo giorno!». Volgendo nella mente questi pensieri, Ubaldo rallentava il passo, e alla fine si sedé appiè di una quercia e si addormentò. Ma mentre dormiva placidamente, gli apparì un santo, vestito di stoffa a ricami d’oro e con l’aureola intorno alla testa. Quel santo gli disse: - Sono Marco, il mendicante cui tu hai spalancato le porte del paradiso comprando per il suo corpo un pezzo di terra benedetta. Nostra Signora, di cui ero tanto devoto in terra, mi ha collocato fra i Santi e mi ha concesso di discendere a te, apportatore di lieta novella. Non credere che gli uccelli del cielo sien più felici de’ cristiani, perché il figlio di Dio ha sparso per questi il suo sangue e gli uomini sono i preferiti della SS. Trinità. Ascolta dunque ciò che hanno fatto le Tre Persone per ricompensare la tua pietà. Vi è là su quel colle un castello, che tu riconoscerai facilmente alle quattro torri che lo circondano; ne è padrone un cavaliere, chiamato Federico, il quale sta per morire. Egli ha una nipotina bella come il sole e docile come un agnellino. Va’ stamani al castello e fai dire al signore che «tu vai per quella cosa che lui sa». Federico ti riceverà bene e tu capirai il resto. Ricordati però che se hai bisogno d’aiuto, dovrai dire:
O morto mendicante, presto accorri;
Chi la tomba ti die’, tosto soccorri!
Dette queste parole, il Santo scomparve e Ubaldo si destò. Prima di tutto, appena ebbe liberati gli occhi dal sonno, ringraziò Iddio della protezione che gli concedeva; poi si diresse verso i colli per cercare con l’occhio il castello. Albeggiava appena e la nebbia gl’impediva di scorgere gli oggetti a venti passi di distanza; ma udì sulla sua testa un volar di piccioni e si figurò che essi tornassero al castello dopo un primo giro mattutino. Seguì la direzione che essi avevano tenuta, e quando il sole ebbe diradato la nebbia, vide dinanzi a sé un superbo castello con quattro potenti torri ai fianchi. Ubaldo varcò il ponte levatoio. - Chi sei? - gli domandò la sentinella. - Avvertite il barone Federico che «io vengo per quella cosa che lui sa», - rispose Ubaldo. Il signore fu subito avvertito dell’arrivo del giovinetto e gli mosse incontro tentennando la testa, perché era vecchio e malato, e appoggiandosi al braccio della nipotina, che era invece bella come il sole e fresca come una rosa, tanto che a vederli parevano, lui, la quaresima, e lei, il carnevale. Tutti e due fecero mille garbatezze a Ubaldo e, introdottolo nella grande sala d’onore, lo fecero sedere sopra uno sgabello riccamente trapunto, a poca distanza dal seggiolone del vecchio, il quale, in attesa del desinare, ordinò gli fossero serviti dei rinfreschi. A dir la verità Ubaldo non capiva il perché lo avevan ricevuto a quel modo, ma era così felice di veder la ragazza andare e venire per la sala, cinguettando come una capinera, che non chiedeva spiegazioni. Ogni volta che la guardava, gli appariva più bella e più gentile, e si sentiva battere il cuore. «L’uomo che se la potrà condurre a casa sua, sarà felice davvero!» pensava Ubaldo. Finalmente fu servito il pranzo, e il vecchio si sedé in capo tavola, mentre aveva Ubaldo a dritta e Imelda a sinistra. Allorché le mense furono tolte e nella sala non vi rimase altri che il barone Federico, la nipote e il giovine viandante, il signore prese a dire: - Ospite mio, io ti ho trattato degnamente, ma l’accoglienza che ti ho fatto non è stata come avrei voluto, perché la mia casa è colpita da lungo tempo da una grave sciagura. Prima che questo flagello piombasse su di me, nelle mie scuderie avresti veduto cento cavalli e un numero quattro volte maggiore di buoi; ma il Diavolo s’è insediato nelle scuderie e nelle stalle, e cavalli e buoi sono spariti a venti e trenta alla volta. Tutti i risparmi, pazientemente ammassati, sono stati inghiottiti dall’acquisto di nuovi cavalli e di nuovi buoi, i quali sono periti come i primi. Ora io sono rovinato, né tutte le preghiere né i pellegrinaggi hanno potuto stornar da me il terribile flagello. Se domani un signore mi facesse offesa, io non potrei spedire un drappello di cavalieri a punirlo. Tutte le mie terre sono incolte per mancanza di bestiame... Guarda! E lo condusse a una finestra della sala, dalla quale, a perdita d’occhio, si vedevano infatti campi coperti di sterpi, invece che di mèssi biondeggianti al sole di luglio. Il vecchio continuò: - Avevo sperato nell’aiuto di mio nipote Corrado, il quale è andato a Venezia per fare la guerra ai turchi; ma egli non torna, e io ho fatto bandire nel contado e ovunque, che l’uomo il quale mi libererà dal flagello, avrà in moglie la mia Imelda ed erediterà i miei feudi. Molti giovani baldi e prodi son già venuti; ma dopo aver vegliato nella scuderia, sono spariti come i cavalli e i buoi. Io pregherò il Signore affinché tu sia più avventurato degli altri. Ubaldo, il quale aveva l’anima rinfrancata dalla recente visione, rispose che con l’aiuto di Nostra Signora di Loreto, sperava di trionfare sul demonio nascosto. E per ottenere quell’aiuto rimase in preghiera tutto il giorno. Giunta la sera, prese il suo bastone e supplicò Imelda di pregare anche lei per la sua vittoria su lo spirito maligno. Il vecchio signore lo condusse da sé nella stalla, che era immensa e, quasi alla metà, era divisa, per mezzo di un impalancato, dalla scuderia; ma tutto era vuoto e i ragni avevano tessuto le loro tele sulle mangiatoie. Quando Ubaldo fu rimasto solo, accese un fuoco di sterpi sul pavimento di pietra, e, inginocchiatosi, pregò fervidamente. Passò la prima ora e Ubaldo non udì altro che lo schioppettìo della fiamma; passò la seconda e non sentì altro che il mugolìo del vento attraverso la porta sconnessa; passò la terza e non sentì altro che il rumore che facevano i tarli nel legname; ma alla quarta, un rumore sordo si fece udire sotto il pavimento, e all’estremità della stalla, nell’angolo più scuro, Ubaldo vide alzarsi lentamente una pietra e uscir dalla terra la testa di un drago. Quella testa del mostro era più grossa di quella di un bove, schiacciata come il capo delle vipere, e torno torno aveva una corona di occhi luminosi di varî colori. Il drago posò le due zampe, armate di artigli rossi, sull’orlo del pavimento, fissò Ubaldo, e quindi lasciò il suo antro sibilando. A mano a mano che ne usciva, si vedeva svolgersi il corpo enorme, coperto di squame. Benché Ubaldo fosse coraggioso, pure sudò freddo a quella vista, e quando sentì l’alito ardente del mostro, gridò:
O morto mendicante, presto accorri;
Chi la tomba ti die’, tosto soccorri!
In quel momento stesso la figura luminosa del mendicante fatto Santo gli apparve a fianco. - Non temere, - gli disse. - I protetti dalla Madre del Signore schiacceranno sempre i mostri della terra. Marco, ciò detto, stese la mano e disse alcune parole note solo agli eletti del Cielo. In quell’istante il mostro cadde su un lato colpito dalla morte. La mattina dopo, quando il sole fu alzato, Ubaldo andò a destare la gente del castello e la condusse nelle stalle. Alla vista del drago morto, i più arditi indietreggiarono. - Non abbiate timore, - disse il giovane. - Nostra Signora di Loreto mi ha assistito; il mostro che divorava il bestiame e i cavalli, è esanime. Cercate delle corde e trascinatelo sul ciglio di qualche burrone dove lo precipiterete. Egli non può più nuocere ad alcuno. Fu fatto ciò che Ubaldo aveva ordinato, e quando s’andò a misurare la lunghezza del drago, si vide che era più di cento braccia. Il vecchio signore esultava di esser liberato da tanto nemico e mantenne la promessa fatta a Ubaldo, dandogli Imelda in isposa. Il giovane, una volta marito della bellissima fanciulla, ricomprò bestiame e cavalli, fece lavorar le terre, armò uomini forti per difenderle; e il barone Federico, prima di morire, ebbe la felicità di sapersi di nuovo possessore di molte ricchezze. I due sposi erano così felici che non sapevano, nelle loro preghiere, che cosa domandare a Dio e non potevano altro che ringraziarlo; ma una sera che stavano per mettersi a tavola, ecco che fu introdotto un cavaliere così alto che con la testa toccava le travi del soffitto. In quel cavaliere Imelda riconobbe il cugino Corrado. Egli giungeva dalla guerra contro i turchi per sposare la cugina, e sapendo ciò che era accaduto nella sua assenza, aveva provato una rabbia sorda, che tuttavia seppe celare ai due sposi, poiché era assuefatto a fingere. Ubaldo, che non aveva alcun sospetto, lo accolse con ogni sorta di cortesie, e gli assegnò la più bella camera del castello. Il giorno dopo condusse Corrado a fare un giro nelle sue terre, che in quel tempo erano coperte di mèssi. Ma Corrado, vedendo tutto quel ben di Dio, s’arrabbiava sempre più e odiava quell’intruso, che non solo era padrone di tante e ricche terre, ma che aveva anche sposato sua cugina Imelda. Un giorno il perfido Corrado invitò Ubaldo ad andare a caccia insieme con lui in prossimità del mare, e lo condusse in un bosco folto sul cui limitare v’era un mulino a vento abbandonato. Il Gigante aveva ammucchiato sotto il mulino molte fascine. Quando furono giunti in quel luogo, Corrado si volse verso il castello e disse a un tratto al cugino: - Corpo di Satanasso! io scorgo di qui il castello e anche il cortile. - Dove? - domandò Ubaldo. - Dietro quel boschetto di lecci. Non vedi le finestre della sala d’onore? Eppure sono visibili a occhio nudo! - Sono troppo basso di statura, - replicò Ubaldo. - Corpo di Satanasso! - esclamò Corrado, - eppure a quelle finestre vedo mia cugina, che parla con alcuni cavalieri ai quali dispensa le rose che portava in petto. Ubaldo si alzò in punta di piedi. - Quanto desidero di vederla! - disse. - Sangue di Satanasso! ci vuol poco. Sali sul mulino e sarai più alto di me. Ubaldo seguì il consiglio e salì la scaletta tarlata. Quando fu giunto in cima, il cugino gli domandò che cosa vedeva. - Non vedo altro che gli alberi, che mi paiono piccini, - rispose, - e delle case che non sono più grandi delle conchiglie che la burrasca getta sulla spiaggia del mare. - Guarda più vicino, - disse Corrado. - Più vicino non vedo altro che la pianura verdeggiante. - Anche più vicino, - replicò il Gigante. - Più vicino ancora non scorgo se non prati fioriti. - Ma guarda sotto a te! - Sotto a me! - gridò Ubaldo spaventato. - Invece della scala per discendere, vedo le fiamme che salgono! Ed era vero, perché Corrado aveva portato via la scala e dato fuoco alle fascine ammucchiate; e il vecchio mulino era circondato da una fornace ardente. Ubaldo si raccomandò al Gigante di non lasciarlo morire di una morte così tremenda. Corrado invece gli voltò le spalle e si allontanò fischiando. Allora il giovane, sentendosi soffocare, ripeté l’invocazione:
O morto mendicante, presto accorri;
Chi la tomba ti die’, tosto soccorri!
In quel momento comparve il Santo, tenendo nella destra un arcobaleno di cui l’estremità opposta era immersa in mare e spargeva rugiada fitta fitta; e dall’altra teneva la scala di Giacobbe, che riunisce la terra al cielo. L’arcobaleno spense l’incendio, quindi Ubaldo si servì della scala per discendere e tornò al castello sano e salvo. Corrado, nel vederlo, rimase a bocca aperta, e incominciò a tremare come una canna; quindi, per evitare che il cugino lo punisse della sua ribalderia, corse a prender le armi e fece sellare il cavallo; ma mentre stava per uscire dal cortile e imboccare il ponte levatoio, Ubaldo posò una mano sulla groppa del cavallo e disse: - Non temere, cugino; nessun essere vivente saprà quello che è successo fra noi. Tu sei angosciato perché Iddio mi ha dato prosperità maggiore che a te. Io voglio però guarirti dal male dell’invidia, che ti dilania il cuore. Da oggi fino al giorno della mia morte, tu avrai la metà di tutto quello che mi appartiene, meno mia moglie. Va’ dunque, e non ruminare contro di me pensieri malvagi. L’atto di questa cessione fu rogato da un notaro in tutte le regole, e Corrado ebbe ogni anno la metà del prodotto dei campi e del bestiame. Ma questa generosità di Ubaldo non aveva fatto altro che invelenire maggiormente il cugino, perché i benefizî immeritati non procurano né soddisfazione né vantaggio. Egli non voleva più assassinare Ubaldo, perché morto lui perdeva la metà delle rendite de’ feudi; ma lo odiava, come lo schiavo oppresso e bastonato odia la mano che lo schiaccia e percuote. Un’altra cosa poi aumentava la rabbia dell’invidioso, ed era il vedere che tutto prosperava intorno ad Ubaldo. Non gli mancava altro che un figlio per essere perfettamente felice, e Imelda mise al mondo un maschietto, bello e forte, che nacque senza piangere. Ubaldo mandò inviti a tutti i signori dei castelli vicini pregandoli di assistere al banchetto del battesimo, e i convitati giunsero da Ancona, da Loreto, da Fermo, da Camerino e da Recanati, tutti accompagnati da nobili dame e con seguito numeroso. Il battesimo del figlio dell’Imperatore non avrebbe richiamato maggior numero di cavalieri né di dame. Tutti erano già riuniti nella sala d’onore, e Ubaldo, insieme con la comare e il compare, era andato in camera d’Imelda per prendere il neonato e portarlo nella cappella, quando sulla porta della stanza comparve pure Corrado, con un sogghigno sul viso di traditore. Imelda, nel vederlo, gettò un grido, poiché sul volto del cugino ella aveva letto delle sinistre intenzioni, e il suo cuore di madre non l’ingannava. Corrado entrò in camera curvandosi e facendo inchini, e, dopo averle fatto i mirallegri, la ringraziò del dono. - Di qual dono intendi parlare, cugino Corrado? - domandò la povera donna mostrandosi oltre ogni dire meravigliata. - Me lo domandi? Non hai forse unito un figlio alle ricchezze di Ubaldo? - disse il Gigante. - È vero, - rispose Imelda. - Ebbene, sappi che un atto legalmente rogato mi dà diritto alla metà di tutto ciò che appartiene ad Ubaldo, meno la tua gentil persona. Mi scuserai dunque se vengo a richiedere la metà del bambino nato da poco. Tutti coloro che erano in camera mandarono un grido; ma Corrado rispose che voleva la sua parte del bambino, aggiungendo che, se gliela ricusavano, la prenderebbe da sé; e fece vedere un coltello da caccia che teneva infilato alla cintura. Vi fu un momento di terrore, e il Gigante ne approfittò per stendere le braccia fino alla culla, afferrare il piccino e darsela a gambe. Prima che Ubaldo pensasse a inseguirlo, egli era già fuori del castello, e col piccino in collo montava un cavallo già sellato, che pareva attenderlo, e via di carriera. Figuriamoci come rimanesse Imelda a vedersi portare via il bambino, e qual dolore ne risentisse Ubaldo! Egli però non si smarrì d’animo e disse:
O morto mendicante, presto accorri;
Chi la tomba ti die’, tosto soccorri!
Apparì infatti il Santo, con la ricca veste e l’aureola intorno al capo, e disse: - Ubaldo, Nostra Signora di Loreto ti salverà. Guarda nella direzione in cui è fuggito Corrado; vedrai che tu non scorgi più il fuggiasco, ma vedi una casa nuova. Ebbene, in quella casa senza uscite, che la Madre di Dio ha fatto sorgere a un tratto per custodire il ribaldo, è imprigionato il tuo bambino. Corri a liberarlo da Corrado, che lo vuole uccidere. Ubaldo corse fuori, seguìto da gran parte d’invitati e di servi, e giunto alla casa vide, dalle solide inferriate, che il cugino affilava sopra una pietra la lama del coltellaccio che prima portava alla cintola, dicendo: - Se Ubaldo non mi dona l’altra metà della rendita de’ suoi beni in cambio della vita del figliuol suo, è un padre snaturato. Non vedo il momento che egli torni a ramingare, e che io possa insediarmi nel castello. E arrotava sempre il coltellaccio. - Rendimi mio figlio! - urlò Ubaldo attraverso le inferriate. - Non son così pazzo; cedimi tutto quello che possiedi e lo avrai. Ubaldo esitò. Non poteva ridurre la moglie e il bambino alla miseria. Invece di rispondere, egli invocò il vecchio Santo:
O morto mendicante, presto accorri;
Chi la tomba ti die’, tosto soccorri!
In quel momento cento mani invisibili legarono strettamente il Gigante, la casa sparì come per incanto, e il ribaldo fu sollevato di peso e ricondotto in camera di Imelda, dove lo seguì Ubaldo col bambino fra le braccia. Appena tutti vi furono penetrati, quella stanza venne illuminata da un chiarore celeste, e il Santo comparve sopra una nube a fianco della Vergine Maria. - Eccomi fra voi, o miei fedeli, - disse la Madre di Dio. - Marco, il mio buon servo, mi ha fatto abbandonare il Paradiso per venire fra voi a risolvere una controversia. - Se siete la Madre del Signore, non permettete che mi si tolga il figlio che mi avete dato. - Se siete la Regina del Cielo, fatemi rendere ciò che mi è legalmente dovuto, - aggiunse Corrado sfrontatamente. - Ascoltatemi, - ordinò Maria. - Tu, Ubaldo, e tu, Imelda, avvicinatevi a me; fin qui io non vi diedi altro che le gioie della vita; ora voglio far di più per voi due: voglio darvi le gioie della morte. Voi mi seguirete nel Paradiso del Figlio mio, ove non penetrano altro che gli eletti, ove i dolori, i tradimenti, le malattie sono ignoti; in quanto a te, Corrado, sei nel pieno diritto, se vuoi, di dividere la nuova proprietà che è stata concessa ai tuoi cugini, e morrai come loro; ma per discendere bensì nelle profondità dell’Inferno, dove sei atteso per i gravi peccati commessi. Il Demonio ti farà lieta accoglienza nel suo regno dei dannati. Nel terminare queste parole, la Vergine stese la mano, e il Gigante scomparve in una voragine, mentre i due sposi e il bambino s’inchinavano uno sull’altro come una famiglia addormentata e sparivano nell’azzurro del cielo, trasportati da una nuvoletta vaporosa. Nel luogo ove avvenne il miracolo, la gente del paese costruì un santuario, e gli afflitti e i devoti vi recarono copiose offerte di monili d’oro e di gemme. Una notte i saraceni sbarcarono, non visti, sulla spiaggia vicina, e dopo aver saccheggiato il castello, che era guardato da pochi monaci, ritornarono ai loro bastimenti, portando seco tutti i voti ricchissimi e dando fuoco al castello. Però la memoria del miracolo è viva ancora negli abitanti del contado, e nessuno passa dinanzi al luogo dove sorgeva il castello del barone Federico, senza dire: - Vergine benedetta, fatemi morire come Ubaldo, Imelda e il loro bambino! La vecchia aveva appena cessato di parlare, quando Beppe tornò col mulo sull’aia. - Se sapeste, babbo, quante domande mi hanno fatto quei due signori che ho accompagnati! Volevano sapere quanti si era, che cosa si faceva tutti radunati sull’aia, e chi era quella bella sposina che li aveva invitati a rinfrescarsi. Hai capito, zia Vezzosa? - Spero che tu avrai risposto garbatamente, - disse la Carola, mentre la cognatina arrossiva. - Lasciate fare a me, che a parlare non mi vergogno. E volete un po’ sapere chi è quel signore? - Sicuro che lo vogliamo sapere. - Ebbene, è il nuovo ispettore forestale. Il sor Paolo, che è stato a Camaldoli fino a ora, va in Piemonte, e questo è venuto a far vedere alla moglie se le piace il posto prima di condurla lassù. Lui c’era già stato, perché ha fatto gli studî a Vallombrosa, ma la moglie no. A proposito, il sor Paolo, che era venuto incontro ai forestieri, quando li ha visti ed ha sentito che volevan ripartire domani, s’è subito opposto. Vuole che restino da lui qualche giorno. Perciò la signora mi ha detto di avvertire la garbata sposina che domani non ripasseranno, e fino a domenica non scenderanno a Camaldoli. - Proprio il giorno di Pentecoste! - esclamò Vezzosa. - Tanto meglio, così ci troveranno tutti in casa e non interromperemo le nostre faccende per riceverli. - Sapete che cosa diceva il nuovo ispettore? - disse Beppe rivolto al babbo suo. - Che quassù vi è bisogno di rimboscare, e che egli vuole in pochi anni coprire le nostre piagge di abeti, come c’erano al tempo antico. - Tanto meglio, - disse il capoccia, - il legname è la ricchezza di questi posti. Mi contenterei che ci distribuissero degli alberi giovani da piantare. - E li distribuiranno! - rispose Beppe con tono sicuro. - Con quel signore non mi perito a parlare, e glielo dirò. - Via, ciarlone, va’ a letto! - ordinò la Carola, - domattina bisogna esser desti all’alba, che il da fare non manca. Beppe si alzò a malincuore, perché aveva voglia di raccontare dell’altro; ma prima di andare a letto consegnò a Maso le due lire che aveva avuto dai signori, e mormorò nell’orecchio alla Regina: - Dite, nonna, la novella che non ho udito, me la raccontate domani? - Sì, - rispose la vecchia sorridendo a quel suo nipotino, nel quale le pareva di riveder Maso, - domani avrai la novella e parleremo dei signori. - Se volete ve ne parlo subito, - rispose Beppe. - Lei è una donnina garbatissima, ma che parla poco; il marito è un uomo gioviale e vuol bene alla moglie quanto... indovinate un po’, nonna, quanto? - Ci vuol poco: quanto Cecco a Vezzosa. - Per l’appunto! - Senti che confronti fa quel monello! - esclamò Cecco. - E che ne sai tu del bene che voglio alla mi’ moglie? - Dovrei esser cieco per non accorgermi che gliene vuoi tanto, tanto; ma anche la Vezzosa te ne vuole, e di molto. - Via, a letto! - ordinò la Carola. E il ragazzo non se lo fece ripetere, perché con la mamma non si scherzava.