Il figlio del Corsaro Rosso/Parte I/Capitolo V - La fuga della fregata

../Capitolo IV - La caccia al conte di Ventimiglia

../Capitolo VI - Il bucaniere IncludiIntestazione 27 luglio 2016 75% Da definire

Parte I - Capitolo IV - La caccia al conte di Ventimiglia Parte I - Capitolo VI - Il bucaniere

Capitolo V
La fuga della fregata.


La Nuova Castiglia, salpate le sue âncore e spiegate le sue vele, approfittando di una fresca brezza che soffiava dalla parte di terra, si era messa arditamente in marcia, muovendo verso la bocca del porto, niente atterrita per la presenza dei galeoni e delle caravelle.

I suoi fucilieri, quei terribili filibustieri che quasi mai sbagliavano un colpo e che erano armati di grossi archibugi tutti di buon calibro, si erano disposti in un lampo dietro le murate, sopra le quali avevano arrotolato le brande, aprendo subito un fuoco infernale sui ponti delle navi avversarie, per abbattere i timonieri e gli ufficiali.

Altri si erano lestamente arrampicati sulle coffe, per lanciare bombe, delle quali quei formidabili scorridori del mare facevano molto uso e con buon successo.

Le navi spagnuole, fidando nella loro superiorità, avevano accettato risolutamente la lotta; stringendosi le une alle altre per impedire il passo alla nave nemica e opporle una formidabile barriera.

Disgraziatamente per loro, avevano da fare con un uomo di mare che ben altre ne aveva vedute e che era rotto a tutte le astuzie, e per di piú con un veliero estremamente maneggiabile e che poteva spostarsi rapidamente.

Per alcuni minuti fra la fregata ed i galeoni fu un continuo scambio di cannonate, senza causare troppi danni né da una parte né dall’altra, facendo accorrere sulle calate tutta la popolazione di San Domingo; poi vi fu un po’ di sosta, perché la Nuova Castiglia, con un’abile manovra, si era spostata in modo da far convergere il fuoco degli spagnuoli verso le case del porto.

Era vero che a questo modo si esponeva al tiro delle artiglierie dei forti che potevano incrociare i loro fuochi senza danneggiare la città, ma il luogotenente del conte non era uomo da esporre lungamente la sua nave alle palle nemiche.

Con due fulminee bordate, la Nuova Castiglia ripiegò verso il centro della rada, scatenando da parte dei forti un uragano di cannonate; poi prese il suo slancio verso la bocca del porto, ora minacciando di passare a tribordo della squadra ed ora a babordo.

I suoi venti pezzi della batteria e le due caronade del cassero tuonavano furiosamente, specialmente contro le caravelle, mentre i suoi fucilieri spazzavano a fucilate i ponti altissimi dei galeoni, abbattendo, con una precisione matematica, timonieri e ufficiali.

Urla feroci s’alzavano su tutte le tolde, mescolandosi, confondendosi col fragore delle artiglierie e lo scrosciate degli archibugi.

Anche la folla che si accalcava sulle calate, quantunque esposta al fuoco delle artiglierie, urlava ferocemente:

— Morte ai filibustieri! Distruggeteli! Massacrateli!

La Nuova Castiglia continuava intrepidamente la sua marcia, coprendo di palle e di bombe le navi nemiche e minacciando di abbordarle.

Salda di costole, bene armata e condotta da uomini abituati a battersi quasi ogni giorno, non tentennava nelle sue mosse.

Rispondeva ai galeoni e alle caravelle, quasi colpo per colpo, con una insistenza feroce, mentre le due caronade della coperta avventavano di tratto in tratto delle bordate di mitraglia.

Giunta a cento passi dai galeoni, sfilò superbamente sulla loro fronte con tutti i suoi formidabili archibugieri a babordo; poi, con una mossa improvvisa, inaspettata, girò a destra della squadra dove c’era ancora abbastanza spazio per navigare lungo la costa. Una piccola caravella tentò di chiudere il passo, gettandosi dinanzi alla prora per lasciar tempo ai galeoni di muoversi.

Era un topolino che tentava di arrestare un leone.

La Nuova Castiglia la urtò poderosamente col suo solidissimo tagliamare e la sfasciò completamente passando in mezzo ai rottami; poi, dopo aver scaricati tutti i suoi pezzi d’un colpo solo, fuggí fuori dal porto.

— Ebbene, che cosa ne dite, signor conte? — chiese Mendoza, il quale fumava furiosamente, con le mani affondate nelle tasche e le gambe allargate.

— Che con simili uomini, si potrebbe conquistare il mondo — rispose il signor di Ventimiglia. — Non so se un’altra nave se la sarebbe cavata cosí bene, mio caro.

— Ecco che i galeoni si mettono in caccia, ma che cosa sperano di fare? Di raggiungere la nostra nave? Eh, cari miei, non conoscete ancora la Nuova Castiglia!

— Mi pare che l’abbiano conosciuta or ora.

— Il signor Verra li farà correre.

— E allora corriamo anche noi e cerchiamo di lasciare San Domingo prima che spunti il sole. Gli spagnuoli rivolgeranno tutta la loro rabbia contro di noi e ci daranno una caccia spietata.

— E se ci prendono, ci impiccheranno, signor conte, — rispose Mendoza.

— Forse quelle due corde non sono ancora state intrecciate. Conosci anche tu la città!

— Abbastanza per condurvi alla Puerta del Sol.

— Ci lasceranno poi uscire, a quest’ora?

— Oh, non lo sperate, capitano, — rispose il filibustiere.

— E perché condurmi là dunque?

— Perché il bastione vicino è in parte diroccato e potremo trovare il modo di scendere nel fossato e anche...

Si era interrotto, guardando il conte, e rimanendo con la bocca aperta.

— E dunque? — chiese il corsaro.

— Sono un vero stupido, capitano!

— Perché?

— Ma sí che noi possiamo passare per la Puerta del Sol senza esporci al pericolo di fiaccarci il collo in fondo al fossato. In verità io invecchio troppo presto.

— Sei impazzito, Mendoza?

— No, signor conte, ma stavo per diventare un cretino. Non siete vestito da alabardiere, voi?

— Pare di sí!

— Noi ci presenteremo alle guardie della porta e voi direte che avete ricevuto l’ordine di scortarmi e di farmi uscire. Potrete aggiungere, se non vi dispiace, che io sono una spia che va a sorvegliare i bucanieri. A un soldato si crede sempre.

— E tu affermavi poco fa che stai per diventare un cretino? — disse il conte ridendo. — A me pare invece che tu diventi ogni giorno piú furbo, vecchio squalo. In marcia! Non voglio trovarmi ancora a San Domingo al sorgere dell’alba.

Gettarono le vesti e la spada di Martin in mezzo ad un folto cespuglio e volsero le spalle al porto, internandosi in una stradicciuola che serpeggiava fra siepi e splendidi filari di banani e di palme. Essendo tutta la popolazione accorsa sulle calate, non vi era anima viva nei dintorni, cosicché poterono attraversare indisturbati la città e giungere dinanzi alla Puerta del Sol, che era in quel tempo una delle principali di San Domingo e che metteva nell’aperta campagna.

Due alabardieri, armati di lunghe picche, passeggiavano a breve distanza, fumando e chiacchierando. Scorgendo il conte e il suo marinaio, si fermarono per sbarrare loro il passo; poi uno dei due, accortosi di aver da fare con un soldato, chiese:

— Oh, camerata, dove vai?

— Ho l’ordine di scortare quest’uomo fuori della città — rispose franco il signor di Ventimiglia.

— Chi è?

— Un corriere governativo.

— Senza cavallo?

— Sa dove trovarlo. Sbrigatevi ad aprire la porta; abbiamo molta fretta.

— E non ti hanno dato nessuna carta?

— Non sono un soldato, io?

— È vero, ma ci hanno dato anche il comando di impedire l’uscita a qualunque persona.

— Era per i borghesi, quello.

— Aspetta che chiamo l’anziano: io non voglio assumermi questa responsabilità.

Entrò in una vicina caserma e uscí subito con un altro soldato, munito di una lanterna, il quale trascinava con gran fracasso un enorme spadone.

— Guarda questi uomini, Barrejo — disse la sentinella.

— Fulmini! — mormorò Mendoza. — Il guascone! Ora siamo fritti!

Il conte trasalí e portò rapidamente una mano sulla pistola di Martin, pronto ad impegnare una lotta disperata. Il guascone si avvicinò a loro e non poté trattenere un gran gesto di stupore nel riconoscere la propria corazza e le proprie vesti che il conte indossava.

— Ah, camerata! — esclamò sbarrando gli occhi.

Poi, volgendosi verso le due sentinelle, disse loro:

— Continuate la ronda voi, io conosco queste persone.

Aspettò che si fossero allontanate, poi, dopo aver alzato una seconda volta la lanterna per guardare bene in viso il conte ed il suo compagno, chiese:

— Che cosa fate ancora qui, nei miei panni, signore? Siete ben voi che mi avete dato quei venti dobloni!

— Sí, messer Barrejo — rispose il signor di Ventimiglia.

— E che cosa siete venuti a fare qui?

— A offrirvi altri dieci dobloni, se non vi rincresce.

— Per tutti i venti del mare di Biscaglia! Volete far di me un milionario?

— No, voglio ingrassarvi, perché siete troppo magro.

— Tutti i guasconi sono magrissimi, signor conte. Ma che muscoli d’acciaio abbiamo!

— Chi sa che un giorno non li veda al lavoro! Orsú, volete guadagnare altri dieci dobloni?

— Che cosa devo fare?

— Una cosa semplicissima. Aprirci la porta e lasciarci andare in campagna.

— E null’altro? — chiese il guascone con stupore.

— Nient’altro. Vi avverto che abbiamo detto ai vostri camerati che siamo corrieri del governatore.

— E non avete paura d’incontrare i bucanieri? Si dice che stiano organizzandosi per tentare un colpo di mano sulla città.

— Non vi occupate di questo, messer Barrejo. Apriteci la porta e altre dieci monete d’oro andranno a ingrossare il vostro piccolo tesoro.

— Vi apro anche tutte quelle della città — rispose don Barrejo. — Venite, signor conte. I miei camerati non vi daranno alcun fastidio.

Afferrò un’enorme chiave che stava appesa ad un chiodo e aprí la pesante porta laminata di ferro, conducendoli attraverso un massiccio bastione forato nel mezzo da uno stretto passaggio.

— Eccovi in campagna — disse dopo aver aperta un’altra porta. Mi permettete di scortarvi per qualche tratto?

— Vi ho detto che noi non abbiamo paura — disse il conte.

— Non ne dubito, signore, ma che volete, mi piace immensamente la vostra compagnia.

— Non sarà per sorvegliarci, spero — disse Mendoza.

— Oh! un guascone!... Noi non siamo abituati a mentire.

— Allora venite — disse il conte. — Potreste darci qualche preziosa informazione.

— Sono tutto a vostra disposizione, signor conte — rispose il guascone.

— Potreste, per esempio, dirci dove potremo trovare dei cavalli.

— Vi è un corral a mezzo miglio di qui, annesso ad una grande fattoria. Se avete ancora di quei bei dobloni, potrete acquistarne finché vorrete.

— Le nostre borse sono ancora assai fornite, malgrado il salasso fatto alla mia.

— Vi guiderò io.

— Ed i vostri camerati che non vi vedranno tornare non si allarmeranno?

— Vadano al diavolo! — disse Barrejo alzando le spalle. — Non sono padrone di fare una passeggiata notturna e di scortare delle persone raccomandate da Sua Eccellenza il Governatore?

— Oh, è vero! — disse il conte ridendo. — Noi siamo personaggi importantissimi.

— Che viaggiano però senza carte — aggiunse maliziosamente il guascone.

— Le teniamo sempre sulla punta delle nostre spade.

Il soldato capí a che cosa voleva alludere il conte e, quantunque guascone, credette opportuno di troncare il discorso.

Si erano inoltrati per una viuzza fiancheggiata da bellissime agavi, piante tessili che danno dei fili elastici e fini e dalle cui foglie gli indiani estraggono una bibita fermentata detta pulque, molto spumante e anche molto gradevole. Di là da quelle enormi siepi, si estendevano immense piantagioni di canne da zucchero e di caffè, le maggiori risorse di quella fertilissima isola.

Per la tenebrosa campagna volavano sciami di Moscas de luz, insetti che tramandano una luce ben piú potente delle nostre lucciole, e nei solchi delle piantagioni e attorno agli stagni muggivano i grossi rospi gialli e neri con appendici cornute e fischiavano migliaia e migliaia di batraci.

I tre uomini camminarono in silenzio per un buon quarto d’ora, rischiarando la via con la lanterna; poi, giunti ad una biforcazione, il guascone si fermò.

— Ci lasciate? — chiese il conte.

— Questo dipende da voi, signore — rispose il soldato.

— Che cosa volete dire?

— Signor conte, io sono un uomo d’onore e sono un cadetto d’una famiglia nobile della Guascogna. Già voi saprete che, piú o meno, noi siamo tutti nobili nel mio paese, ma anche poveri, poveri, perché i nostri padri non ci lasciano per eredità che una buona spada e delle lunghe lezioni di scherma.

— Che cosa volete concludere, signor Barrejo?

— Che vorrei sapere chi siete e perché siete fuggito da San Domingo, mentre era stato dato l’ordine d’impedire l’uscita a tutti gli abitanti.

Il conte rimase un momento muto, guardando il soldato, poi disse:

— Scommetterei che voi già lo sapete.

— Forse.

— Sono il capitano della fregata che entrò nella rada ieri mattina che due ore fa è stata cannoneggiata dagli spagnuoli.

— Dei filibustieri, non è vero?

— Siete molto perspicace, signor Barrejo. Ora andrete ad avvertire certamente il governatore.

— Io? — esclamò il guascone. — Io tradirvi? Mai! Siamo uomini d’onore, noi.

— Allora avrò soddisfatta la vostra curiosità.

— Signor conte, se vi facessi una proposta?

— Dite pure.

— Noi guasconi siamo gente di guerra e non amiamo lasciar arrugginire inutilmente le nostre spade. La mia dorme da due anni in San Domingo e minaccia di non saper piú uscire dal fodero. Volete arruolarmi? Coi filibustieri vi è sempre occasione di menar le mani.

— E anche di morire piú facilmente! — aggiunse Mendoza.

— Ho trentadue anni e ne ho già abbastanza della vita — disse il guascone. — Mi volete, signor conte? Vi giuro che sarò una buona lama.

— E poi lo liberereste da molti fastidi — aggiunse il marinaio, a cui non dispiaceva affatto quel fracassone.

— Sia! — disse il signor di Ventimiglia. — Un bravo soldato di piú sulla mia nave non sarà d’impiccio.

— Voi non siete spagnuolo, quindi potete passare al nemico — disse Mendoza.

— Sono un soldato di ventura e null’altro, e come tale posso offrire la mia spada ed il mio braccio a chi meglio mi piace.

— Conoscete S. Josè?

— Conosco mezzo San Domingo.

— Sapreste condurci nella tenuta della marchesa di Montelimar?

— Anche con gli occhi bendati.

— Andiamo a procurarci dei cavalli, prima di tutto. Io non dubito che gli spagnuoli ci diano la caccia.

— Potete esserne certo, signor conte — rispose il guascone. — Ci lanceranno anche addosso qualche banda dei loro terribili cani.

— In cammino allora, Barrejo — disse il conte. — Non ho alcun desiderio di farmi mordere i polpacci da quelle bestiacce.

— Dovremo prendere la via dei boschi, signor conte. Le vie sono battute dalle ronde e potrebbero arrestarci.

— Ve ne sono molte fuori della città?

— Eh, un bel numero.

— Andiamo a visitare i boschi.

Il guascone gettò via la lanterna, la cui luce poteva tradirli e attirare qualche ronda in perlustrazione o alla caccia di bucanieri.

Quelle bande di soldati, formate da cinquanta uomini ciascuna, erano incaricate di impedire ai bucanieri, alleati dei filibustieri, di dare la caccia ai numerosi tori selvatici che in quell’epoca scorrazzavano liberamente per le foreste dell’isola.

Non osando gli spagnuoli affrontare quei terribili cacciatori, i quali non sbagliavano mai un colpo, avevano deciso di affamarli e perciò avevano istituite quelle compagnie volanti.

Dapprima le avevano munite d’armi da fuoco, ma siccome non volevano imbattersi nei bucanieri, né impegnare mischie con loro, quando s’accorgevano della loro presenza preferivano fare delle scariche di moschetteria in aria.

I cacciatori, avvertiti del pericolo, se ne andavano tranquillamente da un’altra parte.

I governatori delle varie città, accortisi della gherminella, avevano tolto alle ronde le armi da fuoco, armandole solamente di alabarde, ma senza ottenere, come si può capire facilmente, alcun risultato pratico.

Se prima erano i bucanieri che scappavano, ora erano gli alabardieri che se la davano a gambe appena udivano uno sparo; sicché i combattimenti erano rari come le mosche bianche, ché nessuno aveva il desiderio di giocare la pelle inutilmente.

E quelle erano le famose ronde dette cinquantine, colle quali i governatori speravano di distruggere tutti i bucanieri, — ed erano molti — che infestavano le immense foreste dell’isola, sempre pronti a prestare man forte ai filibustieri della Tortue, quando si trattava di tentare qualche buon colpo.

Il guascone fece attraversare ai suoi due compagni una vasta piantagione di canne da zucchero, poi si gettò risolutamente in mezzo alle boscaglie, formate per lo piú da enormi piante di cotone selvatico, con i cui tronchi cavi gli indiani e i negri formavano canoe capaci di contenere perfino cento uomini.

— Il corral lo troveremo di là da questa boscaglia — aveva detto il soldato al conte. — Risparmieremo tempo e non correremo il pericolo di imbatterci in qualche cinquantina. Cercate solo di non far rumore, poiché fra queste macchie i tori non mancano, e vi so dire io se sono pericolosi quando s’infuriano o vengono disturbati!

La marcia non tardò a diventare difficilissima, con molto dispiacere di Mendoza, abituato a passeggiare solamente sulle tolde delle navi e ad arrampicarsi sulle alberature.

A quei tempi San Domingo, al pari della vicina Cuba e della Giamaica, aveva delle foreste, antiche quanto il mondo, le quali accumulando foglie su foglie e imputridendo rami e tronchi, dovevano preparare quel meraviglioso ordimento vegetale, che piú tardi doveva cosí ben servire agli intraprendenti piantatori.

I cotoni selvatici s’alzavano dovunque, mescolati, anzi confusi, con palme gigantesche, reggendo non si sa in quale modo i loro giganteschi fusti, non avendo per sostegno che una crosta di terra non più alta di due piedi affatto insufficiente alle smisurate radici.

Erano soprattutto i foltissimi cespugli, vere macchie per le imboscate, che facevano brontolare Mendoza, anche perché si mostravano formidabilmente armati di acutissime spine.

Il guascone, che aveva fatto parte piú volte delle cinquantine, per buona fortuna non esitava mai a scegliere la via, quantunque sotto quelle immense arcate di verzura regnasse un’oscurità quasi completa.

— Ho la bussola nella testa — ripeteva sfondando a colpi di spadone i cespugli per aprire il passo al conte.

E pareva infatti che quel diavolo d’uomo, che camminava con piena sicurezza senza mai fermarsi, avesse la facoltà d’orientarsi come i piccioni viaggiatori. Chi invece era incerto e non poco era Mendoza, il quale, quantunque uomo di mare, non ignorava come fosse facile smarrirsi in mezzo alle boscaglie.

Quella marcia faticosissima durò tre ore, poi il piccolo drappello si trovò dinanzi ad una vasta pianura interrotta da un gran numero di stagni.

Un fracasso indiavolato s’alzava fra le alte erbe e i canneti che la coprivano. Muggivano milioni di rospi, fischiavano le rane americane e di quando in quando, a tutto quel baccano, si univano delle urla rauche, somiglianti al fragore dei tamburi, dei cannoni.

Il guascone si era arrestato, bestemmiando in francese o in spagnuolo.

— Ehi, camerata, avresti per caso perduta la bussola che tu affermavi d’avere dentro il cervello? — chiese Mendoza.

Il guascone stette un momento zitto, poi picchiandosi furiosamente la corazza che gli rinserrava il petto, rispose:

— Pare proprio che si sia guastata.

— Chi?

— La mia bussola.

— Ecco una faccenda seria per la gente di mare.

— E anche qualche volta per la gente di terra, — rispose l’avventuriero, il quale appariva sconcertato. — Come mai mi sono smarrito? Eppure queste boscaglie le ho scorse piú volte.

— Spero, don Barrejo, che non avrete l’intenzione di farci divorare dai caimani, — disse il signor di Ventimiglia.

— Ci tengo alle mie gambe non meno di voi, — rispose il guascone. — Volete un consiglio, signor conte? Aspettiamo l’alba.

— Ed intanto schiacciamo un sonnellino — aggiunse Mendoza. — L’erba è folta e fresca e dormiremo meglio che su una branda della Nuova Castiglia.

— E i caimani intanto cenerebbero con i vostri piedi — disse il guascone. — Non chiudete gli occhi, signore, ve ne prego. Io so come sono pericolose queste paludi!

— Avete un sigaro, don Barrejo? — chiese il conte.

— Sono ben provvisto, signor conte, ed è tabacco di Cuba, il migliore che si coltivi in tutto il golfo del Messico.

— Datemene uno, e aspettiamo che il sole spunti. Spero che non ci farete perdere in mezzo alle boscaglie di San Domingo.

— Zitto, signore!

— Che cosa c’è ancora? Se è qualche caimano, lo taglieremo in due a colpi di spada. Anzi, non ho ancora visto lavorare la vostra draghinassa.

— Altro che caimano! È una cinquantina che s’avvicina. Zitti!

Tutti si misero in ascolto, dopo essersi gettati dietro l’enorme tronco d’un albero di cotone selvatico. Pareva che un grosso drappello uscisse dal bosco. Si udivano i passi pesanti e cadenzati di uomini abituati a marciare in colonna.

— Adesso ci prendono! — borbottò Mendoza. — Che splendida passeggiata notturna! Era molto meglio restarcene a San Domingo.

— Zitto, eterno brontolone! — sussurrò il conte. — Sai che le cinquantine non desiderano altro che di andarsene pei fatti loro. Non ti muovere, e vedrai che nessuno verrà a cercarti dietro a questa pianta.

— Ben detto, signor conte, — disse il guascone. — D’altronde basterebbe sparare un colpo di pistola per far scappare quei poveri diavoli. Da quando i governatori hanno avuto la pessima idea di privarli delle armi da fuoco, non si sentono piú in grado né di darci, né di fare battaglia.

— Purché non abbiano con loro dei cani, — disse Mendoza.

— Ecco quello che temo, — rispose il guascone. — Voi avete però quattro pistole. Datene una a me e vedrete che scapperanno come lepri, benché non manchino di coraggio, questo ve lo assicuro io. Lo spagnuolo è sempre stato un buon soldato e nemmeno io, se avessi in mano una spada contro un buon bucaniere armato d’archibugio volterei le spalle, eppure sono un guascone.

— Ricco di guasconate! — disse Mendoza, un po’ ironicamente.

— Mi vedrete all’opera, camerata, — rispose il soldato, un po’ piccato. — Silenzio, s’avanzano.

Un grosso drappello era sbucato di fra le canne e le erbe e avanzava lungo la fronte della foresta. Si trattava veramente d’una di quelle famose cinquantine, armate esclusivamente d’alabarda e di spade, senza nessuna bocca da fuoco. Era composta tutta di alabardieri con elmetto e corazza, difese affatto insufficienti contro le grosse palle dei bucanieri.

Era preceduta da un doz di Cuba. Questi cani ferocissimi sono molto grossi, molto robusti e d’un coraggio a tutta prova, e gli spagnuoli li usavano specialmente contro gli indiani, i quali avevano una paura terribile di quelle bestiacce.

A quei doz cubani si deve piú che altro la conquista delle numerose colonie del golfo del Messico. Si può anzi dire che la Colombia fu conquistata piú da loro che dagli avventurieri.

Il cane, giunto in vicinanza del grosso albero del cotone, si era fermato, aspirando fragorosamente l’aria, e la cinquantina, che era guidata da un ufficiale, si era subito disposta su quattro linee abbassando le alabarde.

— Camerata, — sussurrò Barrejo, rivolgendosi a Mendoza — voi occupatevi di quel cagnaccio e badate di non sbagliare il colpo o vi salterà alla gola.

— È un affare che sbrigherò io, — rispose il filibustiere.

— Alla cinquantina penseremo io e il signor conte.

Tutti e tre avevano armato le pistole e si tenevano l’uno presso l’altro, pronti a sguainare le spade.

Il doz cubano fiutava sempre, volgendo la testa massiccia verso l’enorme albero e ringhiando sordamente. Doveva aver sentito che là si nascondeva il nemico.

Un grido s’alzò fra gli uomini d’avanguardia della cinquantina:

Ay, perrito!

Il cagnaccio, udendo quel comando, si slanciò furiosamente, sperando di azzannare i misteriosi avversari che non osavano mostrarsi.

Mendoza, che lo teneva d’occhio, fu pronto a sparare e gli fracassò il cranio, mentre il conte ed il guascone facevano fuoco contro la cinquantina, tirando a casaccio.

Allora gli spagnuoli, credendo d’aver dinanzi qualche grosso drappello di quei terribili bucanieri che non sbagliavano mai la mira, in un lampo si dileguarono, gettandosi in mezzo ai canneti delle paludi.

— Ecco la cinquantina sgominata! — disse il guascone ridendo. — Lavoriamo tuttavia di gambe, perché domani mattina tornerà qui e se si accorgerà, dalle nostre tracce, d’aver avuto da fare con soli tre uomini, ci darà una caccia terribile. Corriamo, signor conte!

— E queste sono le splendide passeggiate che si fanno a San Domingo — disse Mendoza. — Preferisco quelle che si fanno sulla tolda della Nuova Castiglia.

Si erano messi a correre, come se avessero altri molossi alle calcagna.

Il guascone, che aveva le gambe piú lunghe di tutti, marciava con una rapidità incredibile lungo la fronte della boscaglia, dietro però la prima linea degli alberi, per paura che la cinquantina, rimessasi dalla sorpresa, si fosse nuovamente ordinata e formata per la caccia.

— Questo briccone ha giurato di farmi morire completamente sfiatato! — brontolava Mendoza, il quale sbuffava come un bufalo. — Quanto durerà questa storia?

Pareva proprio che il guascone possedesse una resistenza incredibile e muscoli di acciaio, poiché non rallentava nemmeno un momento la sua corsa.

Il figlio del Corsaro Rosso si mostrava non meno resistente, anzi, aveva maggiore slancio, come se fosse già abituato alle lunghe corse.

Quella galoppata furiosa durò un’ora, poi il guascone si fermò.

— Può bastare — disse. — La cinquantina ha avuto piú paura di noi e non ha osato darci la caccia. Prima che ne incontri altre o che si rifornisca di cane, passerà del tempo e noi potremo raggiungere la villa della marchesa, senza essere piú disturbati.

— Se non sapete nemmeno dove si trovi! — disse Mendoza, il quale aspirava, come un mantice da fucina, la fresca brezza notturna.

— Camminando sempre, si va anche a Parigi — rispose Barrejo.

— Nel mio paese si dice che tutte le vie conducono a Roma — aggiunse il conte.

— Ma non alla villa di Montelimar — ribattè Mendoza il quale sembrava di pessimo umore.

— Voi, camerata, brontolate sempre contro il vostro capitano — disse il guascone. — Anche questo è un brutto vizio.

— Mi correggerò col tempo.

— Siete ormai troppo vecchio per farlo.

— I filibustieri sono sempre giovani. Lo sanno gli spagnuoli.

— Oh, non lo nego, amico! Avete sempre il fuoco nel petto.

— E non le vostre gambe.

— Orsú, che cosa facciamo ora, don Barrejo? — chiese il conte.

— Io per conto mio, farei colazione — disse Mendoza. — Questa corsa mi ha messo un appetito da pescecane.

— Contentati di accendere la tua pipa, per ora — rispose il conte. — Se non basta, stringi bene la cintura.

— Ottimo consiglio! — sentenziò gravemente il guascone.

— Che non farà bene a nessuno — brontolò Mendoza — Mettetelo in pratica voi.

— Ne avete qualche altro da suggerirci don Barrejo? — chiese il conte.

— Sí, quello di sdraiarci in mezzo a queste fresche erbe e di tirare il fiato fino all’alba.

— E i caimani? — chiese Mendoza. — prima avevate una gran paura di quelle bestiacce.

— Sono lontani da qui, e poi non chiuderemo gli occhi.

— Visto e considerato che non vi è di meglio da fare, lo metto in esecuzione — disse il conte, lasciandosi cadere fra le erbe e allungandosi con visibile soddisfazione. — Sono due giorni che io e questo eterno brontolone non ci riposiamo: è vero, Mendoza?

— Saranno forse di piú — rispose il filibustiere imitandolo.

Il guascone guardò attentamente in tutte le direzioni, si chinò, accostò un orecchio a terra, ascoltò attentamente e poi, a sua volta, si allungò fra le fresche erbe, dicendo:

— Nulla: possiamo riposarci.

Non era però troppo facile socchiudere gli occhi.

I grossi rospi muggivano sempre, con un crescendo spaventoso; i caimani facevano del loro meglio per imitarli ed i batraci gareggiavano fra di loro per fischiare con maggior furore, come se si fossero messi d’accordo per impedire a Mendoza di schiacciare un sonnellino, fosse pure d’un quarto d’ora.

Era però molto tardi, e l’alba non doveva tardar molto a spuntare. Nel Golfo del Messico il sole tramonta presto e si alza anche molto presto.

Alle tre e mezzo, durante l’estate, il cielo si tinge dei primi riflessi dell’aurora e le stelle scompaiono.

I tre filibustieri — poiché ormai anche il guascone si poteva considerare come tale — si riposavano da un paio d’ore, tendendo continuamente gli orecchi, per paura che i cani delle cinquantine, li sorprendessero, quando le tenebre cominciarono a diradarsi.

— In marcia, signor conte — disse il guascone, alzandosi rapidamente. — Cercherò di orientarmi.

— È stata accomodata la bussola piantata in mezzo al vostro cervello? — chiese Mendoza beffardamente.

— S’incaricherà il sole di rettificarla — rispose l’avventuriero.

— Speriamo che sia un abile meccanico.

— Vedrete, camerata.

Stavano per mettersi in cammino, quando udirono a breve distanza uno sparo.

— La cinquantina! — gridò Mendoza facendo un salto.

— Sí, che spara con le sue alabarde! — osservò il guascone sorridendo. — Io scommetto invece che è la colazione che giunge. Signor conte, siete conosciuto fra i bucanieri?

— Se non io, erano troppo noti i tre corsari: il Rosso, il Nero e il Verde.

— Questa archibugiata deve averla sparata un bucaniere.

— Andiamo a trovarlo — rispose il signor di Ventimiglia.

Attraversarono di corsa una folta macchia e, giunti sul margine, scorsero, in mezzo ad una radura erbosa, un uomo piuttosto attempato, vestito malamente.

Aveva un grembiale di pelle ed un largo cappello di feltro in testa e stava ritto accanto ad un gigantesco bue selvaggio il quale stava spirando. Vedendo quegli stranieri, il cacciatore fece alcuni passi indietro, e gridò con voce minacciosa:

— Chi siete? Rispondete, o vi uccido prima che possiate giungere fino a me!

— Siamo filibustieri, camuffati da spagnuoli — rispose il conte in francese purissimo, perché l’intimazione era stata fatta in quella lingua. — Io sono il figlio del Corsaro Rosso e nipote del Verde e del Nero.

— Del Corsaro Nero! — gridò il bucaniere, lasciando cadere l’archibugio e facendosi innanzi. — Di quello che con Grammont, Laurent e Wan Horn ha espugnato Vera-Cruz? Io ho combattuto con lui! Tonnerre de Brest! Signore, sono ai vostri ordini! Comandate!