Filosofia

Canto III
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VII.

                         L’un giorno passa,
E Gulnara non vede, e l’altro,... e il terzo,
E non giugne Gulnara; Oh, quel che il labbro
Promise allor, non obbliò la bella,
Ch’ei visto il Sol più non avrìa! Ma spento
È il quarto omai, sorge la notte, e sorge
Coll’ ombre la tempesta. Oh, com’ei tende
L’orecchio al mar che freme, al mar che mai
Così non ruppe il sonno suo. Più fero,
Il suo fero desìr, come si desta
Al rugghio di que’ flutti un tempo suoi,
Quand’ei fendeva i gorghi procellosi,
E la procella amava, che il suo corso
Fea più rapido ancor! Ahi, l’eco or solo
Del suo fragor, voce diletta! egli ode,
E l’ode invano! Spaventoso è il mugghio
De la bufera, ma più spaventoso
De la sua torre sovra il culmin mugghia
Il tuon dal grembo d’atra nube; avvampa
Rotto il baleno tra le fitte spranghe,
Caro a Corrado or più d’amica stella;
A quel fulgor trascina appo lo grata
La sua catena; ivi speranza il guida

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Che non sia vano l’orrido periglio;
Ivi la man grave di ferri al Cielo
Solleva, e prega; .... prega che pietoso
Un fulmin scenda a incenerirlo; il voto
Empio, e il duro metàl schiudon la via
A la folgore invan, di piombar sdegna,
Sdegna ferir; tremenda in alto scoppia,
Lungo n’è il rombo,....vien manco,... si perde..
Solo è Corrado, al misero simìle,
Cui l’amico infedel lascia nel pianto!....