Allegorie dell’ottavo capitolo

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Capitolo ottavo Capitolo nono
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ALLEGORIE DELL’OTTAVO CAPITOLO


Io dico seguitando, ch’assai prima ec.

Nel presente canto non è alcuna ordinaria allegoria come ne’ passati, perciocchè non ci si descrive [p. 247 modifica]alcuna cosa che quasi nel precedente non sia stata allegorizzata, e però alcuna breve cosetta che ci è, in poche parole si spediranno. Dicono adunque alcuni, le due torri le quali 1’autore scrive essere in questo quinto cerchio, e le fiamme su fattevi, avere a dimostrare il trascendimento della furia degl’iracundi, il quale trasva sopra ogni debito di ragione: e vogliono le tre fiamme fatte sopr’esse, avere a dimostrare le tre spezie degl’iracundi descritte nel canto precedente: ma questo senso non mi sodisfa, anzi credo, e le torri e le fiamme, semplicemente essere state descritte dall’autore a continuazione del suo poema; perocchè qui pareva essere di necessità porre alcuna cosa, per la quale segno si desse a Flegias, che, dovechè si fosse, venisse a dovere i due venuti a riva a passare all’altra riva, siccome subitamente venne e perciò intorno ad esse più non mi pare da por parole. Per Flegias, i cui costumi descritti sono poco avanti, assai ben si può comprendere, l’autore intendere il vizio dell’iracundia, i cui effetti quanto più possono, son conformi a’costumi del detto Flegias; e benchè la pena datagli da Apolline, secondo Virgilio, non sia corrispondente a questo vizio, non perciò toglie che qui per lo detto vizio attamente porre non si possa; conciosiacosachè Virgilio, dove descrive la pena postagli da Apolline, abbia ad alcuna sua operazione rispetto, e non a quella per la quale l’autore vuol qui che egli significhi l’iracundia: e se contro a Virgilio s’osasse dire, io direi che in questa parte l’autore avesse avuta assai più conveniente considerazione di lui. Il navicar [p. 248 modifica]l’autore con Virgilio nella palude di Stige, puote a questo senso adattarsi; essere di necessità ad alcuno, il quale non vuole nel peccato dell’ira divenire, quanto più leggiermente può passare superficialmente le tristizie di questa vita, le quali sono infinite, sempre accompagnato dalla ragione; acciocchè non essendosi in quelle oltre al dovere lasciato tirare, possa senza pervenire nel peccato della ostinazione, del quale nel seguente canto si tratterà, trapassare a conoscer con dolcezza di cuore le colpe che ci posson tirare a perdizione. Della città di Dite, la qual dice l’autore che avea le mura di ferro, e de’ demoni che sopra la porta di quella incontro a Virgilio uscirono, e oltre a ciò 1’avergli serrata la porta della detta città nel petto, tutto appartiene a dover dire con quelle cose le quali nel seguente canto della detta città dimostra; e però quivi, quanto da Dio conceduto mi fia, ne scriverò.