Il cedro del Libano/Cuori semplici
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Il giuoco dei poveri | Vecchi e giovani | ► |
CUORI SEMPLICI
Per la millesima volta, forse, in vita sua, l’uomo seduto fra i cespugli della duna trasse il portafogli di pelle chiara, gonfio e caldo, che gli dava l’impressione di un suo stesso membro, e ne tolse un foglietto piegato in quattro: avrebbe potuto non leggerlo, tanto lo sapeva a memoria e le parole, anzi, gli si erano impresse nella carne, vive anch’esse e parte di se stesso; ma no; lo spiegò con cautela, poiché la carta minacciava di aprirsi e quasi di volatizzarsi; rilesse le diaboliche righe: «Figlio d’ignoti, sguattero di bordo sempre in salamoia, Rosa Bini non è pane per i tuoi denti».
C’era la luna, alta sul mare così calmo che sembrava di alabastro; il suo chiarore permetteva all’uomo non solo di rileggere il foglietto, ma di distinguere, entro il portafogli, i biglietti di banca del quale era zeppo: quelli grossi in un reparto, quelli più modesti in un altro: i cartoncini da visita, le piccole fotografie; e il quadrifoglio-fantasma che, dentro un astuccio di carta velina, riserbava tutto per sé un ripostiglio centrale fermato da un gancio a molla.
Anche le cose, intorno a lui, fino alle lontananze dell’orizzonte, gli apparivano nitide e chiare, come sotto un sole bianco; ecco laggiù il piccolo molo, che sembra la coda del nero villaggio dei pescatori steso sul prato di gramigne; poi le antiche ville dei signori del luogo, con portici e balconi inondati di luna; e più in qua i villini recenti e l’albergo nuovo, a un solo piano, rotondo e rosso-giallo, posato come una torta sul vassoio argenteo delle terrazze sul mare: e che era suo. Suo, di sua esclusiva proprietà, col piazzale alberato davanti, la fontana, le statue: suo, del figlio d’ignoti, dello sguattero in salamoia; mentre al suo fianco, oltre la breve duna mobile spinosa di cardi selvatici, il recinto di rete metallica arrugginita, e, in mezzo, fra un’ortaglia grama, la casupola di Amedeo Bini, il salinaro ubbriacone e prepotente, rimaneva sempre la stessa, anzi peggiorata, d’un bianco sporco, il tetto spennacchiato, messa come in bando, come un lazzaretto, lontana dall’abitato.
Eppure quella triste casa era forse ancora, per il quadrato albergatore, la più interessante di tutte, poiché ci viveva, già anziana ma sempre bella, col vecchio padre paralitico, quella Rosa dalle lunghe trecce azzurrognole attorte sulla piccola testa di schiava; che, appunto come una schiava, si era piegata al suo grigio destino.
Adesso egli aveva cuochi patentati ai suoi comandi, sguatteri e camerieri: gli affari andavano bene: tutte le ragazze del villaggio, che sapevano di pesce ma anche di tinture e di profumi, e quelle del borgo dei salinari, ricchi a seconda la prodigalità del sole d’estate, non ricordavano che egli era «figlio d’ignoti» e aveva girato il mondo con un grembiale di tela di sacco avvolto intorno alle reni di pinguino: e neppure badavano alla sua testa già calva e al viso ancora abbrustolito dal fuoco dei fornelli e dalla salsedine dei lunghi viaggi: anche lui le guardava, poiché gli occhi li aveva buoni e vivi, e permetteva che alcune di loro, del resto ben vestite e meglio accompagnate, prendessero posto, nelle sere della stagione, ai tavolini delle sue terrazze: ma in fondo al cuore gli rimaneva come un rimasuglio di salamoia, e l’idea che sulle carte del matrimonio sarebbe stata impressa quella sigla di mistero e di vergogna, quel ricordo di genitori «ignoti» lo allontanava, forse per sempre, da una seconda richiesta di nozze. O forse, dal fondo salmastro del suo rancore, germogliava ancora una speranza, una fantasia, simile a quei fiori delle saline che sembrano morti e son vivi, e per campare, anche tolti dal cespuglio, non hanno bisogno d’acqua, ma si nutrono da sé per anni ed anni.
Che fosse andato a cercare fin laggiù, adesso che l’albergo era chiuso e gli rimaneva tempo e volontà di svagarsi, non sapeva bene neppure lui. La notte di primo autunno era ancora tiepida, e si sentiva anzi, nell’aria, dopo una giornata di sole, un odore quasi primaverile. Al largo, sul mare chiarissimo, si vedevano le paranze, soffuse di azzurro, andare come in sogno; o meglio quali fantasmi, irreali ma quieti; fantasmi felici; come, del resto, tutto aveva del fantastico, in quella notte per sé stessa così diversa dalle altre; e il suo albergo, la sua fortuna, l’ombra medesima che si accovacciava al fianco e in qualche modo gli mostrava il suo corpo, un giorno povero e scarno, adesso forte e squadrato, sembravano all’uomo distaccati e lontani dalla realtà. Poichè in fondo, egli conservava anche un senso melanconico e timidamente stupito della vita: gli sembrava sempre di sentire il vuoto e l’inumano clima del neonato buttato via alla terra, dal calore del grembo materno, come un detrito quasi immondo; e l’umiliazione panica della prima fanciullezza, poi quella, cosciente e fra rabbiosa e rassegnata, della giovinezza pur seria e laboriosa, e lo stesso suo modo di tirare avanti l’esistenza, fra mare e cielo e il caldo e i cattivi odori delle stive e di una umanità grezza, a lui, se non nemica, indifferente, gli davano un senso di deformità quasi fisica, come se egli fosse un gobbo o uno storpio, esiliato dal giardino degli uomini.
Ma la bontà naturale, la sua stessa mansuetudine di bestia maltrattata stendevano una luce quasi mistica intorno a lui; come quella che la luna, adesso, spandeva sulle cose assopite, se non morte.
Assopita doveva essere anche la donna, nella sua casupola, o forse anche lei piegata a risalire il corso della sua grama giornata, poichè si vedeva ancora un barlume non di candela ma di fuoco alla finestra che l’antico cuoco di bordo sapeva essere quella della cucina. Gli sarebbe bastato, come altre volte, scavalcare la rete, per accostarsi alla finestra, e almeno vederla; ma non ne aveva neppure il desiderio: gliel’avevano descritta così fredda e melanconica che l’antico sogno si era pur esso sbiadito e irrigidito; almeno sembrava: come i fiori delle saline.
Sembrava. Poichè il cuore gli si destò dentro, con un improvviso fremito quasi di spavento, quando la porta della casetta si aprì e ne uscì, chiara alla luna, una figura di donna. Aveva stretto intorno alla testa, e legato sulla nuca, un fazzoletto scuro: sulle prime, però, nel barbaglio della sua commossa visione, all’albergatore parve che la donna fosse a testa nuda, coi folti capelli bruni avvolti e annodati come Rosa usava acconciarseli. Ma questa che si avanza fino al cancelletto della rete e lo apre, e s’inoltra nella striscia di sabbia dura che sfiora la duna dov’egli rimane immobile e mortificato, questa non è Rosa: è anch’esso un fantasma, silenzioso e grigio coi piedi nudi, il viso più pallido ed evanescente di quello della luna, coi lineamenti che vi sembrano appena disegnati, e, mistero illogico come quelli dei sogni, gli occhi chiusi. Inoltre aveva in mano uno strano arnese, fatto a cerchio, che all’uomo parve una specie di salvagente: e poichè ella passava dritta, senza vederlo, avanzando fino alla riva, egli ebbe l’impressione che, illusa dal calore della sera, ella, come usano a volte le contadine, andasse a bagnarsi.
Giunta presso l’acqua, invece, si fermò, sedette agile per terra, versò alcune manate di sabbia entro il recipiente e lo scosse a lungo. Era un setaccio: e quando la sabbia fu ripulita, ella, come forse usava da bambina, ne formò uno di quei grossi pani da contadini, tutto ben lisciato intorno, e con la croce nel centro.
— È pazza, o è sonnambula? — egli si domandava: e ne provava, in tutti i casi, un dolore indefinibile, ma più profondo di quanti ne aveva sentiti; quello della fine irrimediabile del suo sogno.
Tuttavia attese ch’ella finisse la sua infantile faccenda: accovacciata presso il pane, ella però non pareva disposta a muoversi: solo, col dito, segnava e cancellava alcune lettere sulla sabbia. Ed egli credeva di leggervi il suo nome.
— È pazza? È sonnambula? — continuava a domandarsi. Nel primo caso avrebbe voluto afferrarla, ricondurla dal padre e dirgli: «Vecchio boia, ecco il pane che adesso fa tua figlia: mastica tu, adesso, se puoi»; se ella era invece malata di sonnambulismo bisognava non svegliarla, poichè poteva morirne.
Che fare? Il tempo passa, già un velo d’umidore sale dal mare, e non è prudente, nè per lei nè per lui, trattenersi oltre in quel luogo solitario dove può anche trafficare qualche malvivente.
Infine egli si decise: imitando il modo furtivo e trasognato col quale ella era venuta, si avanzò fino a lei: non osava parlare, ma ricordava che i sonnambuli, se si svegliano spontaneamente, non soffrono danno.
E attese, un momento, che fu uno dei più ansiosi per il suo trepido cuore d’uomo semplice: ed ella si svegliò: i suoi occhi, nel suo viso di medusa, erano quelli di un tempo: ed anche la sua voce, quando disse, con una certa canzonatura: — Ti avevo veduto, sai.