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il piccolo molo, che sembra la coda del nero villaggio dei pescatori steso sul prato di gramigne; poi le antiche ville dei signori del luogo, con portici e balconi inondati di luna; e più in qua i villini recenti e l’albergo nuovo, a un solo piano, rotondo e rosso-giallo, posato come una torta sul vassoio argenteo delle terrazze sul mare: e che era suo. Suo, di sua esclusiva proprietà, col piazzale alberato davanti, la fontana, le statue: suo, del figlio d’ignoti, dello sguattero in salamoia; mentre al suo fianco, oltre la breve duna mobile spinosa di cardi selvatici, il recinto di rete metallica arrugginita, e, in mezzo, fra un’ortaglia grama, la casupola di Amedeo Bini, il salinaro ubbriacone e prepotente, rimaneva sempre la stessa, anzi peggiorata, d’un bianco sporco, il tetto spennacchiato, messa come in bando, come un lazzaretto, lontana dall’abitato.

Eppure quella triste casa era forse ancora, per il quadrato albergatore, la più interessante di tutte, poiché ci viveva, già anziana ma sempre bella, col vecchio padre paralitico, quella Rosa dalle lunghe trecce azzurrognole attorte sulla piccola testa di schiava; che, appunto come una schiava, si era piegata al suo grigio destino.


Adesso egli aveva cuochi patentati ai suoi comandi, sguatteri e camerieri: gli affari andavano bene: tutte le ragazze del villaggio, che sapevano di pesce ma anche di tinture e di profumi, e quelle del borgo dei salinari, ricchi a seconda la prodigalità del sole d’estate, non ricordavano che egli era «figlio d’ignoti»

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