Il cavallarizzo/Libro 2/Capitolo 54
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Cap. 54. Della camarra, e del cavallo, che va col muso in fuora.
L'inventore della camarra divisa in tre differenze, cioè tutta in corame: in de’ corami col ferro sotto la musarola, & in camarra, che habbi il barbazzale, & servi per camarra & capezzone. L’inventor dico della camarra così divisa, e del ligare le code de’ cavalli con quel bel modo che poc’anni sono si solea usare con la feticcia & col sguinzaglio, uso utilissimo veramente, ne fu inventore dico quel eccellentissimo cavalliero, ch’io vi dissi nel proemio, Messer Evangelista Corte; dalla cui virtù & scola uscirono più discepoli eccellentissimi, che da qual’altra sia mai stata, & per aventura sia per essere, & se gl’antichi à gl’inventori & ritrovatori d’alcuna cosa utile & bella dedicavano le statue, & premiavano, à questo divinissimo huomo così morto, come è, si potrebbeno consacrare colossi, & piramidi, & si deverebbe con vive voci honorarlo, & essaltarlo; & io per me non potend’altro, con la mia penna mal temprata, & con la viva voce del cuore sempre l’honoro, & adoro, di quella adoratione che humanamente si deve fare à sì grandi spiriti. Hor l’uso della camarra è d’utile grandissimo à moltissimi cavalli. Ne so perche cagione alcuni la vogliono biasimare, con dire che non si devrebbe usare; e se pur si devesse, si devrebbe usar poco; atteso che dove si ricerca far un effetto con essa, se ne farebbe un’altro se si usasse assai; perche volendo il cavalliere tirar à segno il suo cavallo con quella, dipoi togliendola, per vedersi in libertà, maggiormente ritornerebbe al vitio di prima di andare col muso in fuora; & à distonarsi della testa. Il che se vero fosse, io ancora argomentarei à destruttione, che meno per levarli credenza alcuna da qual si voglia mano, se gli deve portar sguinzaglio attaccato al morso, over musarola alle cinghie; così anco false redine, over capezzone per far questo, & altri effetti necessarij; perche dipoi levandosegli, tanto più per vedersi in libertà ritornarebbe alla credenza, & al vitio di prima, di non voler voltare; ò di portare il muso, e il collo piu su una mano che sull’altra. Et così direi ancora di tutti gl’altri castighi & aiuti; ma perche questo non può stare, così ne anco quello mi par che stia. Perche dipoi che il cavallo havrà preso una bona piega, & in quella fatto buon habito, difficil cosa sia à lasciarla così come veggiamo che la pianta tenera, la qual piega da banda, attaccata, et apoggiata à ramo dritto, viene à crescere anc’essa dipoi senz’appoggio diritta, e bella. La camarra adunque è cosa utilissima; & io havendola per cosa assai manifesta appresso à ciascuno ben intendente dell’arte del cavalcare, non starò à provarla con altre ragioni. L’uso della quale io apresi in quelle belle, & buone scole antiche, nelle quali furono maestri quelli rarissimi huomini messer Giovan Angelo da Cariano di Milano, & M. Gio. Maria della Girola di Corte di Pavia, già mio padre. Dalle quali scole uscirono tanti creati che per aventura non uscirono tanti scolari dalle academie Greche, e discepoli da Pitagora. Et nelle quali furono fatti tanti buoni, & valorosi cavalli che forse meno sarebbe contare il numero de’ soldati in un essercito, che nominare ad uno per uno quelli; Et stupisco quando ci penso. Et con honor di ciascuno sia detto io, non vedo hoggidì in scola nessuna d’Italia, ne fuor d’Italia ch’ardirò dire, che pur ho visto quella di Francia, & quella di Carlo Quinto, cavalli sì perfetti in ogni guisa, come nelle scole suddette erano. Et benedetti siano i maestri d’esse, & i mecenati che li premiavano magnificamente, come ben meritavano le lor rare virtuti. Da quelle scole usciron per non dir de’ Conti, Marchesi & Duchi, e gran capitani, che chiaro è, che mio padre gran tempo essercitò in quest’arte quel gran Prospero Colonna, cavallarizzo del quale era, che sol questo invittissimo, & prudentissimo general capitano di Carlo Quinto Imp. basta ad honorar il mondo tutto non che far fede dell’eccellentia di tal scuola; & honorarla fin al colmo de gl’honori. Si che lasciando da parte si grandi Heroi, e sommi Duci, posponendo anco infiniti cavallieri honoratissimi, per non voler dar sospettione forse di troppo amor filiale ch’io lor porto così morti col mio dire, dico che mentre questi dui divinissimi maestri furono cavallarizzi di quella regalissima Signora donna Isabella d’Aragona Duchessa di Milano, dalle lor scole uscirono tra gl’altri tre chiari soli in quest’arte, messer Giovan Giacomo Catamusto, Gio. Loigi di Riggiero, & il Commendador fra Prospero ricco di Milano, ne usciron anco dipoi Marc’antonio Calavrese, Giacchetto Milanese, & Camillo dalla Mendolara. Il quale, e per il valore, & arte sua, fu caro prima à Monsignor di Memoransi gran Contestabile di Francia dipoi al grand’Alfondo d’Avolo, Marchese del Vasto e generale in Italia di Carlo quinto. E questo basti sol per cenno. Ma ritornando alla camarra che tanto in quelle scuole era usata, dico che l’utile, che ci reca è infinito, perche ritira sotto à segno ogni cavallo, che porgesse più del devere il muso in fuora, & non andasse col collo inarcato lo ferma di testa; lo alleggerisce, lo fa andare più raccolto assai, & unito in se stesso con la forza & virtù sua. Et anco che sia utile ad ogni sorte di cavallo à caval grave però, non ben fermo di testa, di poca schena, e di cattiva bocca, è utilissima; usandosi però come si deve fare. A cavalli gentili di buon animo, & vani di testa usarasse di corame, & à gravi, & malitiosi di ferro; tirata ad honesto segno, à poco à poco; & non nel primo giorno, che si mette al cavallo, giova anco à cavallo, che se ne va di bocca, ò per natura, ò mala creanza appresa; e che se inalbora. E notate che se desiderate che un cavallo vadi leggiero, & fermo di testa alla man d’un Principe; cavalcatelo voi prima col canone & con la camarra tre, ò quattro fiate alle lettioni istesse, alle quali pensate che lo vogli il vostro Principe, & dipoi mettetelo sotto esso, con la sua briglia ordinaria, & vedrete che se ne lauderà molto. Et benchè à cavallo, che vadi col muso in fuori il castigo suddetto della camarra sia ottimo à ritirarlo sotto: non dimeno quello de’ morsi appropriati è perfettissimo. Così anco gl’altri castighi communi che se gli deveno usare al tempo suo debito. Ma se il cavallo dipoi che haverà parato, ò nel parare porgesse il muso in fuora, voi ritirando la redine un poco, & ponendosi la man dritta su l’arco del collo, & con essa premendolo in giù, lo abbasserà, ma non abbassandolo, voi tenendolo pur così fermo, li devete dar del sprone, hor da una, & hor dall’altra banda; e tanto continuare finchè non lo abbassi; & subito abbassato, gli devete fare carezze. Ma se lo abbassasse più del devere, voi alzerete alquanto di più dell’ordinario la man della briglia, e ce la farete sentire, & tenendola così un poco innanzi gli darete col sprone medesimamente hora nell’uno, & hora nell’altro fianco; fin tanto che l’alzi; & la tenghi al segno. Et avertire che ogni volta che tenerete la man della briglia più innanzi, & più alta dell’ordinario sempre farete andare il cavallo più surto & rilevato; ma però la devete tenere anco più leggiera, & più temperata. Et altro non vol dire, che non esser in parte alcuna fastidiosa alla bocca del cavallo, perche va secondandole à tempo à tempo con misura la qual mano si conviene molto più ai ginetti, & à cavalli di gentil bocca e spirito, ch’ad’altri.