Il capitano della Djumna/Parte seconda/15. Gli andamani

../14. L'odio di Garrovi

../16. La fuga dei prigionieri IncludiIntestazione 17 dicembre 2016 75% Da definire

Parte seconda - 14. L'odio di Garrovi Parte seconda - 16. La fuga dei prigionieri

15. GLI ANDAMANI


Non si poteva ingannarsi sulle loro intenzioni: quei bruti muovevano diritti verso la piccola capanna occupata da Alì e da Sciapal.

Giunti a trenta passi s'arrestarono, disponendosi in circolo attorno al ricovero. Stettero alcuni istanti immobili, come se ascoltassero, poi si misero a strisciare innanzi.

Narsinga aveva veduto tutto. Con un grido avrebbe potuto destare bruscamente Alì e Sciapal e metterli in grado di far fronte a quell'improvviso assalto, la piccina invece stette zitta.

Forse aveva il suo scopo; forse pensava che quei selvaggi, malgrado il loro aspetto poco rassicurante, potevano essere meno pericolosi dell'odio implacabile di Garrovi.

Radunatisi attorno alla capannuccia, i selvaggi vi si precipitarono dentro emettendo urla formidabili.

Alì e Sciapal, che dormivano profondamente, non ebbero nemmeno il tempo d'impugnare le armi. In meno che lo si dica, si trovarono legati e avvolti strettamente da reti vegetali che impedivano loro qualsiasi movimento.

I selvaggi, compiuta la loro opera, sospesero le reti a due bastoni, come avevan fatto per Narsinga e si cacciarono sotto i boschi, camminando velocemente.

All'alba, dopo d'aver scambiato più volte i portatori, si arrestarono in una radura circondata da fitte boscaglie, e in mezzo alla quale si rizzavano alcune misere capanne, aperte da tutti i lati e riparate da ammassi di foglie disposti senz'ordine.

L'entrata nel campo dei rapitori, fu salutata da un concerto indiavolato di urla rauche, che ben poco avevano di umano.

Una ventina di donne, miserabili creature quasi completamente nude, magre tanto da far paura, tremanti per la febbre e una dozzina di demonietti affatto nudi e spalmati di fango per difendersi dalle punture degli insetti, uscirono correndo da quelle tettoie, festeggiando i rispettivi mariti e padri con urla da guastare gli orecchi meglio costruiti e con sgambettamenti da scimmie.

I selvaggi deposero i prigionieri sotto una capannuccia, sbarazzandoli delle reti che li tenevano prigionieri, ma legandoli solidamente ad alcuni pali piantati profondamente in terra, poi se ne andarono senza aggiungere sillaba.

Alì, che era furioso, lanciò al loro indirizzo una interminabile filza d'insolenze, senza ottenere alcuna risposta, anzi senza nemmeno far loro volgere la testa.

— Non ti comprendono, padrone — disse Sciapal.

— Ma se posso spezzare questi legami, mi farò comprendere a calci. Bruti!... Selvaggi ributtanti!... Cosa avevamo noi fatto loro, per assalirci? E anche tu, piccina mia, sei caduta nelle mani di quei furfanti! Ah! Se vi fosse stato Pandu, non ci avrebbero di certo sorpresi e avremmo fatto pagar caro l'assalto!

— Ma cosa vorranno fare di noi, padrone?

— Non lo so, Sciapal.

— Che vogliano metterci allo spiedo? Mi hai detto che gli andamani sono antropofaghi.

— Lo si crede da taluni, ma altri naviganti l'hanno negato.

— Dunque non sei certo che siano mangiatori di carne umana?

— No, Sciapal.

— Ma allora, perché ci hanno fatti prigionieri?

— Speriamo di saperlo. Toh! Ecco uno di quei furfanti che viene verso di noi.

Un selvaggio, un po' più alto dei suoi compagni, ma non meno brutto, coi capelli tinti di ocra rossa, colle braccia adorne di conchigliette bianche e le anche coperte da un pezzo di stoffa scolorita, s'avanzava verso la loro capanna, ma con una certa diffidenza.

Giunto dinanzi ai prigionieri; rivolse loro alcune parole in una lingua che nessuno comprese.

Vedendo che nessuno rispondeva e che lo guardavano come per chiedergli ciò che voleva dire, li interrogò in bengalese:

— Da dove venite?

— Toh! — esclamò Alì, — Il nostro selvaggio conosce la nostra lingua! Parrebbe che gli andamani abbiano avuto qualche contatto coi nostri compatrioti del golfo.

Il capo selvaggio doveva averlo compreso perfettamente, poiché sorrise.

— Sono stato nel Bengala, nella mia gioventù — disse poi.

— Tu!

— Sì, rapito da alcuni indiani che erano qui sbarcati — rispose il selvaggio.

— Ed ora sei diventato il capo della tua tribù?

— Sì, dopo d'aver ucciso quello che comandava prima.

— Un bel briccone! — esclamò Alì, — Ed ora, vuoi dirmi perché ci hai assaliti?

— Perché voi uomini del Bengala, sapete fare molte cose che noi non siamo in grado di procurarci. In quella grande città ove rimasi come schiavo due anni, ho veduto delle cose meravigliose e voi me le fabbricherete.

— E credi tu che noi siamo capaci di farle?

— Certo.

— Ma noi non siamo che marinai.

— Sono contento di saperlo, poiché mi costruirete una di quelle grandi case galleggianti.

— Noi sappiamo guidarle, ma non fabbricarle.

— Tu lo dici perché non vorresti farmela, ma io ti costringerò.

— E se io mi rifiutassi?

— Quando la fame ti tormenterà lo stomaco, ti metterai al lavoro se vorrai mangiare.

— Sei un grande furfante, capo di selvaggi.

— Poi costruirete per me una di quelle grandi abitazioni che ho veduto nella città e delle case minori pei miei sudditi.

— E poi? Desideri qualche cosa d'altro?

— Sì, di quelle armi che tuonano come le folgori e che uccidono a grande distanza.

— E vorrai anche della polvere per farti saltare in aria, pazzo selvaggio! — urlò Alì.

— Vi lascio due giorni di riposo, — continuò il capo, — poi vi metterete al lavoro.

Ciò detto, girò sui talloni e se ne andò, senza rispondere alle insolenze di Alì e di Sciapal.

— Ma costui è pazzo! — esclamò il capitano. — Se continuava ancora un po', spezzavo i legami e lo strangolavo!

— E poi ci avrebbero uccisi, padrone — disse il malabaro.

— Sciapal, bisogna fuggire o quella canaglia ci farà morire di fame.

— Non domando di meglio, padrone, ma mi pare che non sia cosa facile spezzare queste corde. Se avessimo almeno un coltello! Ma quei furbi ci hanno prese tutte le armi.

— Cercheremo di rodere le funi.

— Ma ci sorvegliano. Guarda quei selvaggi nascosti dietro a quei cespugli; non ci perdono di vista.

— È necessario tentare la sorte. Noi non siamo in grado di costruire una nave senza gli arnesi necessari. E poi, costruire dei palazzi e delle armi! È pazzo, Sciapal, te lo dico io.

— Ma è un pazzo che ci darà da fare.

— La vedremo.

In quell'istante alcuni selvaggi, usciti da una capanna, si diressero verso di loro recando certi canestri di foglie intrecciate, che deposero sotto la tettoia. Slegarono ai prigionieri le mani, stringendone invece le corde delle gambe, poi si sedettero al di fuori, tenendo in pugno le loro lance ed i loro archi.

Quei canestri contenevano dei pezzi di scimmia cucinati al forno, alcune cheppie arrostite, dei cattivi manghi macerati in acqua ed esalanti un acuto odore di terebentina e una di quelle noci chiamate dagli indiani tavarcarrè, grosse come la testa d'un uomo, che le onde spingono sovente su quelle isole, rubandole alle foreste delle isole Seychelles, frutta assai pregiate per le loro virtù medicinali e che si pagano carissime anche nei luoghi ove crescono, ma poco adatte per una colazione.

I tre prigionieri, malgrado la loro situazione fosse poco brillante, fecero molto onore al pasto, forse temendo di non veder regnare più tanta abbondanza nei giorni seguenti.

Quand'ebbero finito, i selvaggi tornarono a legarli, ma dovettero lottare a lungo e chiamare in loro soccorso parecchi altri compagni per vincere Alì, il quale non la voleva capire di lasciarsi attaccare al palo. Alcuni però uscirono malconci da quella lotta e più d'uno ebbe il naso schiacciato dal robusto pugno dell'uomo di mare.

— Rassegniamoci, padrone, — disse Sciapal, vedendo Alì fare sforzi disperati per spezzare i legami — o questi selvaggi perderanno la pazienza e finiranno coll'ammazzarci.

— Non l'oseranno, Sciapal — rispose l'anglo-indiano.

— Sono selvaggi, padrone.

— Ma quel furfante di capo sa quanto sia possente l'Inghilterra in India e non oserà toccarci un dito.

— Siamo in mezzo ai boschi e affatto abbandonati da tutti. Chi ci vendicherebbe?

— Gli uomini della nave fiammeggiante — disse Narsinga, che fino allora era sempre rimasta silenziosa.

Alì guardò la piccina con sorpresa.

— Speri che abbiano approdato? — le chiese.

— Sì.

— Allora avevano manifestata l'intenzione di poggiare su quest'isola?

— Venivano proprio qui, padrone — disse Narsinga, guardandolo fisso.

— Ma tu prima ci avevi detto che ignoravi la loro rotta.

— È vero.

— Per quale motivo?

— Lo saprai più tardi.

— Dimmi almeno chi sono quegli uomini.

— Vuoi saperlo?

— E me lo chiedi?

— Bengalesi guidati da un marinaio bianco che si chiama Harry.

— Non so chi sia questo Harry.

Questa volta fu Narsinga che guardò Alì con sorpresa.

— Non lo conosci? — chiese.

— No.

— Ed il tenente Oliviero?

— Nemmeno.

— Allora conoscerai forse un giovanetto che si chiama Edoardo.

— Edoardo! — esclamò Alì, che ebbe un lampo di speranza.

— Sì, Edoardo Middel.

Alì emise un grido, ma una di quelle grida di gioia che di rado erompono da un petto umano.

— Edoardo! Mio fratello! Qui! — esclamò con voce rotta. — Fanciulla! Bada di non ingannarmi!

— Non t'inganno, padrone.

— Ma chi sei tu! Parla!

— Una fanciulla che doveva commettere un terribile attentato a bordo della nave che conduceva qui i tuoi salvatori.

— Tu! Così piccina! Eh via! Tu vuoi scherzare!

— No, padrone.

— Narrami tutto o tu mi farai impazzire.

— Sì, parla, racconta — disse Sciapal.

— Sì, parlerò, ma bisogna che tu, padrone, mi conceda la vita d'un uomo.

— La vita d'un uomo! Ma di chi?

— Quella d'un uomo che tu odi.

— Io!

— Sì, padrone.

— Ma dove si trova quest'uomo?

— Su quest'isola.

— Ma dove?

— A breve distanza.

— In questo accampamento forse?

— No, ma è vicino e se i selvaggi non ti avessero fatto prigioniero ed io non avessi lasciato che ti sorprendessero, forse a quest'ora ti avrebbe ucciso. Io avrei però cercato di salvarti, poiché io non volevo che tu morissi.

Alì e Sciapal guardavano Narsinga come istupiditi: essi si domandavano se eran svegli o se sognavano.

— Ma spiegami tutti questi misteri, — disse finalmente Alì, — od io impazzirò davvero.

— Promettimi di non far male a quell'uomo e ti spiegherò tutto.

— Ma voglio sapere il nome suo.

— È mio padre adottivo.

— Non ne so di più.

— Te lo dirò poi, il suo nome.

— Ebbene ti prometto che non gli farò alcun male.

— Conto sulla tua parola.

— Il suo nome?

— Garrovi.

Questa volta non fu un grido di sorpresa, quello che irruppe dal petto del capitano fu un vero ruggito.

— Lui! — gridò con un intraducibile accento d'odio. — Bisogna che lo uccida!

— Mi hai promesso di salvarlo, padrone.

— Ti dico che lo ucciderò.

— Sì, lo uccideremo padrone — disse Sciapal. — Tu hai da vendicare i tre misoriani, la tua Djumna, l'oro del presidente della «Young-India» ed io il colpo di scure.

— Ho la tua promessa — ripetè Narsinga.

— Ma io nulla ho promesso ancora, — disse Sciapal, — e se lo risparmierà il padrone, lo strangolerò io Garrovi.

Narsinga chinò la testa sul petto e due lagrime le spuntarono sul ciglio, le prime forse da quando era nata. Nel veder piangere quella piccina, Alì si sentì stranamente commosso.

— Bizzarra creatura! — esclamò. — Ma lo ami tu quel tizzone d'inferno.

— Mi ha amata come fossi sua figlia e forse di più.

— Lui! È impossibile!

— Sì, padrone, ed ha assassinato e rubato per me.

— Tu menti per salvarlo.

— No, te lo giuro su Siva.

— Odimi, fanciulla: narrami tutto quello che sai, poi giudicherò se Garrovi merita la morte.

— Interrogami.

— È vero che Edoardo, mio fratello, è qui?

— Sì, padrone. La nave che Sciapal ha veduto, era montata da Edoardo Middel, da un vecchio marinaio che si chiama Harry e da un tenente dei sipai del Bengala.

— Ma come ha saputo, mio fratello, che io ero qui?

— Garrovi mi ha narrato che il tenente dei sipai aveva ucciso un uccello sotto le cui ali vi erano delle lettere.

— L'oca emigrante! — esclamò Sciapal. — Avevi ragione di sperare, padrone.

— Ora si comprende tutto. Quel tenente si sarà recato da mio fratello e fors'anche dal presidente della «Young-India».

— Sì, anche dal presidente — disse Narsinga. — Fu lui che scoprì Garrovi e che armò il pariah che doveva recarsi in queste acque.

— Avevan dunque fatto prigioniero Garrovi? — chiese Alì.

— Sì, e lo avevano imbarcato.

— Assieme a te?

— Oh no! Io mi era imbarcata di nascosto.

— Per che cosa fare?

— Per cercare di far fuggire mio padre. Approfittando della mia piccola statura, mi ero nascosta in una cassa contenente le sue vesti, portando con me parecchi istrumenti, succhielli, delle piccole seghe, degli scalpelli ecc., tuttociò insomma che poteva occorrere per fare un foro nei fianchi della nave.

— Te lo aveva suggerito Garrovi?

— No, poiché dopo che era stato fatto prigioniero, più non avevo potuto avvicinarlo.

— Quanta astuzia e quanta intelligenza in quella testina! — esclamò Alì, con ammirazione. — Continua, piccina.

— Temendo di venire scoperta e sbarcata, attesi che il pariah fosse lontano dalle coste del Bengala, prima di lasciare il mio nascondiglio e comparire dinanzi a Garrovi, il quale era stato rinchiuso in una piccola cabina di poppa. Credo che solamente da quell'istante Garrovi meditasse la perdita della nave. Tuo fratello ed il presidente della «Young-India» gli avevano promesso salva la vita se conduceva la nave nel punto ove aveva lasciata la Djumna e per di più gli avevano promesso di lasciargli l'oro rubato, ma egli ti temeva. Sapeva che lo avresti ucciso.

«Correndo io il pericolo di venire ad ogni istante scoperta, Garrovi schiodò due tavole del pavimento e mi nascose nella sentina. Non uscivo che di notte con infinite precauzioni, per mangiare ciò che egli serbava per me. Il suo piano per rovinare la nave fu presto ideato. Voleva disalberare il pariah prima, poi sabordarlo per farlo affondare.

«Non potendo e non osando egli lasciare quella cabina, dovetti incaricarmi io del penoso e lungo lavoro. Ogni notte, munita d'una piccola e sottile sega, lavoravo con accanimento, fino al completo esaurimento delle mie deboli forze.

«Io non sapevo chi erano gli uomini che montavano il pariah, né conoscevo lo scopo del loro viaggio; sapevo solo che Garrovi era prigioniero, che correva il pericolo di venire ucciso e che dalla perdita della nave dipendeva la sua salvezza.

«Quando scoppiò la tempesta, l'albero maestro cedette, ma non cadde del tutto. L'equipaggio, accortosi a tempo del pericolo, rilegò l'alberatura. Fu allora che Garrovi, perduta la speranza, mi comandò di sabordare la nave, ma il tempo mancò.

«Un fulmine incendiò l'alberatura, un pezzo cadde nella stiva nel momento in cui io passavo, per salvarmi nel mio nascondiglio, e caddi ferita nella fronte.

«Ero scoperta, ma nel momento che mi trasportavano sul ponte, Garrovi, che era uscito attraverso le tavole del pavimento, comparve improvvisamente. Seppi poi, poiché io era svenuta, che egli mi aveva strappata dalle mani del tenente dei sipai, che con un colpo di scure aveva fracassato il timone del pariah e che poi erasi gettato in mare nuotando verso quest'isola.

«Riuscì a salvarmi, ma le onde, spingendolo violentemente contro la spiaggia, gli avevano spezzata una gamba.»

— Ma dove si trova ora? — chiese Alì.

— Nascosto in mezzo alla foresta.

— Guarito.

— No, poiché approdammo la notte che Sciapal vide la nave fiammeggiante.

— Ma l'ami tu quell'uomo?

— L'ho amato.

— Ed ora?

— Lo compiango.

— Strana creatura!

— Egli aveva rubato per me, padrone.

— A quale scopo?

— Voleva farmi ricca.

— Ma tanto ti amava, quel furfante?

— Alla follia.

— Eppure non sei sua figlia.

— No, poiché egli mi raccolse su di una via, morente di fame.

— Ma chi erano i tuoi genitori?

— Non lo so. Quando Garrovi mi trovò, ero assai piccina, forse non contavo due anni.

— Eri stata abbandonata o perduta?

— Lo ignoro. Padrone, perdonerai a Garrovi? io non lo amo più, perché so ora quanto era cattivo, ma mi adorava.

— Una parola, prima.

— Parla.

— Credi che la nave montata da mio fratello sia qui?

— Garrovi lo crede.

— Ma lo hai tu veduto?

— Sì, ieri notte. Non può muoversi e mentre voi dormivate, io sono andata a trovarlo per portargli delle mandorle.

— Ammirabile piccina!

— Ebbene, padrone, perdonerai a quell'uomo?

— Forse — disse Alì, come parlando a se stesso. Poi, volgendosi al malabaro:

— Sciapal, — disse, — bisogna fuggire e tentare di raggiungere mio fratello.

— Ma come vuoi fare? Non vedi padrone che questi brutti nani ci sorvegliano attentamente e che hanno degli archi, degli arpioni e delle lance?

— Oh! Se potessi spezzare queste dannate corde!

— Posso tentarlo padrone — disse Narsinga.

— Tu?

— Ho i denti piccoli; ma molto acuti ed un'altra volta ho roso le corde che stringevano Garrovi. Ho la testa libera ed il corpo pure e posso curvarmi verso di te.

— Se tu potessi farlo!

— Aspetta la notte e proverò.

— Ma dove fuggiremo? — chiese Sciapal.

— Nei boschi, per ora — rispose Alì.

— Bisognerebbe avere delle armi.

— È vero ma... Toh! Un'idea!

— Quale?

— Aspetta, Sciapal. Se posso riavere le mie pistole, questi brutti nani non mi riprenderanno di certo.

Poi volgendosi ad uno dei suoi guardiani, gli disse:

— Va' a dire al capo che devo parlargli.