Il capitano della Djumna/Parte seconda/13. Latscimi
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13. LATSCIMI
L'uragano imperversò tutta la notte, con un tuonare assordante, accompagnato da lampi abbaglianti, svegliando più volte l'indiano ed Alì i quali si sentivano di frequente bagnare, non bastando le foglie di banano a ripararli. Pandu invece si ostinò a rimanere sempre fuori, come se temesse che qualche pericolo minacciasse il padrone e l'indiano.
Fu solamente verso l'alba che la pioggia cessò di cadere e che il vento s'indebolì, lasciando in pace gli alberi della foresta.
Essendo finalmente, verso le otto del mattino, ricomparso il sole, Alì e Sciapal decisero di lasciare il loro ricovero e di riprendere il viaggio. Cominciavano a trovarsi a disagio in quella capanna, regnando nella boscaglia un'umidità straordinaria, che poteva cagionare delle gravi malattie, soprattutto quella temuta febbre dei boschi, che mai perdona agli stranieri e che uccide l'organismo più robusto in meno di ventiquattro ore. E poi avevano urgente bisogno di procurarsi dei viveri, soprattutto qualche pezzo di selvaggina, avendone fin sopra i capelli delle frutta, eccellenti senza dubbio, ma poco nutritive.
— Ti senti di poter camminare, padrone? — chiese Sciapal.
— Sono ancora un po' debole, — rispose Alì; — però una passeggiata e una buona boccata d'aria marina mi faranno meglio che rimanere qui, su questo terreno impregnato d'acqua. Dedicheremo questa giornata alla caccia e quando avremo raccolto dei viveri sufficienti per una settimana, daremo un addio a questi luoghi e ci avvieremo verso il sud. Ho una speranza che mi si è fortemente radicata nel cuore.
— Quale, padrone?
— Di ritrovare, un dì o l'altro la nave che tu hai veduta.
L'indiano crollò la testa.
— Dubiti? — chiese Alì.
— Il mare era tempestoso e la nave bruciava. È un miracolo se è riuscita ad approdare in qualche baia.
— Simili miracoli talvolta succedono, mio caro Sciapal.
— Il vento soffiava forte e alimentava le vampe.
— L'incendio può aver distrutto solamente l'alberatura, lasciando intatto lo scafo. Non disperiamo troppo presto. In caccia, Sciapal. Sento il bisogno di porre sotto i denti un po' di carne. Ah! Se avessi un fucile!
— Ti servi bene delle tue pistole, padrone.
— Ma hanno la portata corta.
Presero le loro armi e uscirono. Pandu appena vide il padrone lo guardò, mandando un lungo latrato che aveva un non so che di triste.
— Che cos'ha il tuo cane? — chiese Sciapal. — Si direbbe che ha perduto la sua allegria.
— Non lo comprendo più — rispose Alì. — Mi sembra molto triste, mentre dovrebbe essere lieto vedendomi guarito. Bah! Ritornerà gaio quando gli daremo un pezzo d'arrosto.
Avevano percorso alcune centinaia di passi, osservando attentamente le macchie, colla speranza di poter sorprendere qualche capo di selvaggina, quando fra i rami più alti degli alberi s'udirono delle grida discordi:
— Craaok!... Craaok!...
Alì si era arrestato, armando rapidamente le pistole.
Guardò in aria e vide, appollaiati sui rami d'un enorme tara, una dozzina di stravaganti volatili lunghi oltre un metro, colle piume nere sul dorso, a riflessi brillanti, col ventre e la coda bianchissima e colla testa armata d'un becco mostruoso, lungo una trentina e più di centimetri, grosso dieci o dodici alla base, di colore giallo-aranciato e sormontato da una escrescenza rivolta in aria, in forma d'una virgola.
Quei volatili stavano spogliando l'albero delle sue frutta, operazione più difficile di quanto si creda perché quei disgraziati, non ostante i loro becchi enormi, erano costretti a gettare prima in aria il cibo e poi a prenderlo fra le mandibole spalancate, lasciandolo cadere nell'esofago.
— Che cosa sono, padrone? — chiese Sciapal.
— Dei calaos rinoceronti — rispose Alì. — Degli uccelli ben strani, come vedi.
— Che becchi! Io mi domando, come possono reggerli?
— Non pesano più che se fossero composti di cartapesta. Sono formati da un tessuto spugnoso, coperto solamente da un leggero strato di sostanza cornea, assai dura però e che da al becco una solidità a tutta prova.
— Un becco che è più d'imbarazzo che di utilità, padrone.
— Vedi bene quanto lavoro devono fare quei poveri diavoli per mandar giù un boccone.
— Sono almeno mangiabili?
— Eccellenti, Sciapal e meritano un colpo di pistola.
— E sono ben grassi.
— Molte piume e poca carne; tuttavia cercheremo di abbatterne qualcuno, se si lasceranno avvicinare. Sono astuti ed eccessivamente diffidenti. Ecco che ci hanno già veduti.
I calaos dopo d'aver lanciato un craaok assordante, se n'erano andati, ma Alì che sapeva quali pessimi volatori fossero non s'inquietò. Ed infatti percorsi settanta od ottanta metri, i calaos erano ricaduti su un altro albero che s'alzava fra un caos inestricabile di piante di fusto basso, munito di foglie immense.
— Li sorprenderemo — disse Alì.
Fece cenno a Pandu di non muoversi, poi girò la macchia, seguito dall'indiano e si gettò in mezzo ai cespugli scivolandovi sotto come un serpente. I calaos, non vedendo più i due cacciatori e credendo che si fossero allontanati, si erano rimessi a mangiare.
Alì, avanzando con estrema prudenza, potè giungere inosservato sotto la pianta.
Si rizzò senza far rumore, puntò le due pistole e fece fuoco. Due volatili che si trovavano sui rami più bassi, capitombolarono, girando su se stessi, mentre gli altri fuggivano disordinatamente e sbattendo furiosamente le ali.
Sciapal che aveva veduto dove erano caduti i due colpiti, si slanciò fra le foglie e potè afferrarli prima che cercassero di sgattaiolare fra le radici. Con due colpi dati col rovescio della scure li finì e li portò al padrone, dicendo:
— Chi avrebbe potuto supporre che uccelli così grossi dovessero pesare così poco? Sono tutte penne, signore.
— Te lo avevo detto — rispose Alì.
— È molto se pesano tre chilogrammi fra tutti e due.
— Gli è che questi uccelli sono forniti abbondantemente di sacchi aerei. Fra la pelle e la carne hanno un gran numero di tasche che si riempiono d'aria quando il calaos respira e che si dilatano. Ve ne sono perfino nelle dita e nelle ali, senza contare quelle del corpo. Ecco perché i calaos veduti dall'alto sembrano così pesanti, mentre in realtà sono così leggeri. Tu li credevi grossi per lo meno quanto un'oca.
— Mentre non pesano più d'una gallina, padrone.
— Non importa, Sciapal. La colazione e la cena sono per ora assicurati. Chissà che prima di sera non guadagnaremo il cibo anche per domani. Gettateli sulle spalle e andiamo alla costa. Li arrostiremo sulla spiaggia.
— E vi aggiungeremo delle ostriche, signore.
Quando giunsero alla spiaggia, il mare era ancora agitato e larghe ondate correvano ad infrangersi contro le scogliere, rimbalzando a grande altezza. Essendo il vento quasi cessato, la calma non doveva tardare a ristabilirsi. Alì percorse con lo sguardo la superficie del golfo, poi la spiaggia che si incurvava verso il sud, interrotta da insenature profonde, dove una nave, anche sbattuta dalla tempesta, avrebbe potuto trovare un rifugio sufficiente contro la rabbia delle onde.
— A quale distanza è passata quella nave? — chiese Alì.
— A quattro o cinquecento metri — rispose Sciapal.
— Vi erano molti uomini a bordo?
— Mi parve che l'equipaggio fosse piuttosto numeroso per un pariah.
— Tutti indiani quei marinai?
— No — disse Sciapal, dopo aver pensato qualche istante. — Noi non portiamo mai il berretto, mentre ne vidi alcuni che l'avevano. Quelli dovevano essere europei o per lo meno degli anglo-indiani.
— Dove si sarà rifugiata quella nave! — si chiese Alì, come parlando fra sé. — Certo avrà cercato di cacciarsi entro qualche cala per spegnere l'incendio e riparare alla meglio i danni se...
Si era bruscamente interrotto facendo rapidamente alcuni passi innanzi.
— Sciapal — disse. — Non vedi qualche cosa che le onde trastullano e che spingono verso la spiaggia?
— Sì, padrone. Mi sembra l'albero d'una nave.
— Appartenente forse a quel pariah? Se si arenasse sarei contento.
— Per che cosa farne, padrone?
— Potrebbe fornirci almeno il nome di quella nave. Non di rado lo si imprime a fuoco sull'alberatura.
— A che gioverebbe? — chiese Sciapal.
— Conosco quasi tutte le navi, che frequentano Calcutta ed i piccoli porti della costa e anche moltissimi capitani. Quello che comandava quel pariah potrebbe essere un mio amico.
L'albero a poco a poco veniva spinto verso la spiaggia. Ora sorgeva quasi tutto, agitandosi sulle creste delle onde ed ora affondava per mostrarsi poco dopo.
Aveva ancora appesi dei cordami, delle sartie e dei paterazzi e un'antenna.
Finalmente fu gettato attraverso la spiaggia, rimanendo incastrato fra alcuni scoglietti.
Alì e Sciapal si erano slanciati innanzi, curiosi di osservarlo.
— È un albero maestro — disse il capitano della Djumna.
— È stato segato alla base.
— Non porta alcun nome?
— Nessuno.
Un urlo lamentevole gli fece volgere la testa.
Pandu correva intorno all'albero dando segni di una intensa agitazione e lo fiutava e rifiutava, ora latrando ed ora urlando.
— Padrone — disse Sciapal. — Cos'ha dunque Pandu? Che sia impazzito?
— Vi è sotto qualche mistero che sarei ben lieto di spiegare — rispose Alì che era diventato pensieroso. — O che Pandu ha riconosciuta quella nave o che a bordo vi è qualche persona che conosce.
— E chi?
— Che ne so io? Non trovo naturale l'agitazione del mio cane.
— Che vi fosse qualche vostro amico su quel pariah!
— Può essere — rispose Alì. — Pandu possiede un istinto meraviglioso e me ne ha dato più volte delle prove stupefacenti. Sciapal, è necessario cercare quella nave.
— Domani ci metteremo in marcia, signore. Oggi non affaticatevi troppo.
— Sì, non sono ancora troppo in gambe — disse Alì. — Mangiamo un boccone, Sciapal. L'aria del mare mi ha messo indosso un appetito invidiabile.
Raccolsero della legna, spennacchiarono un calaos e lo misero ad arrostire, poi fecero raccolta di molluschi, essendovene moltissimi dispersi fra le sabbie. Pandu invece non aveva più abbandonato l'albero, dando senza posa segni di un'agitazione inesplicabile. Lo fiutava, lo grattava colle zampe e guaiva lamentosamente.
Qualche volta correva incontro ad Alì, lo guardava latrando a piena gola, poi tornava verso l'albero.
Se avesse avuto la favella, chissà che cosa avrebbe voluto dire e quanto ne sarebbe stato lieto il capitano della Djumna!
Terminata la colazione ed essendosi il golfo un po' calmato, Alì e Sciapal decisero di fare una passeggiata verso il sud, colla speranza di trovare sulla spiaggia qualche altro avanzo del pariah.
Percorsero un paio di chilometri, senza poter scoprire nulla. Salirono anche un'alta scogliera, dalla cui cima si poteva dominare una immensa estensione della costa e del golfo.
— Non vedi del fumo verso il sud? — chiese Alì.
— No, padrone — rispose Sciapal dopo un lungo esame.
— Allora si può sperare che l'equipaggio sia riuscito a spegnere il fuoco. Oh! Noi ritroveremo quel pariah, ne sono certo. Torniamo alla capanna, Sciapal, e domani riprenderemo la nostra vita errante.
Rimontarono verso il nord, seguendo sempre la spiaggia, poi rientrarono nella foresta, fermandosi qua e là a raccogliere qualche mango o qualche banano giunto a perfetta maturanza. Era quasi sera quando giunsero alla loro capanna.
Stavano per entrarvi, quando videro Pandu spiccare tre o quattro salti e digrignare i denti come se si preparasse ad assalire qualcuno. Assai sorpresi da quell'improvviso furore del cane, prepararono le armi, credendo che nei dintorni si nascondesse qualcuno o che quel «qualcuno» si fosse nascosto nella capanna.
— Adagio, Sciapal — disse il capitano. — Pandu ha fiutato un nemico o dei nemici.
— Lo vedo — rispose l'indiano. — Torna ad impazzire!
Alì impugnò le pistole che aveva ricaricato ed entrò con precauzione nella casupola, tenendo le armi tese, pronto a far fuoco.
Con sua sorpresa non vide nessuno. Le foglie di banano non erano state smosse e tutto era in ordine.
D'altronde se vi si fosse nascosto qualcuno, Pandu non avrebbe esitato a slanciarsi sull'imprudente ed a strangolarlo, mentre invece era rimasto al di fuori fiutando il suolo.
— Usciamo — disse Alì.
Guardò il suolo e vide delle orme umane impresse sull'umido terreno, che il sole non aveva ancora asciugato. Erano però così piccine da sembrare quelle lasciate dal piedino d'un fanciullo.
— Qui c'è stato qualcuno? — esclamò Alì. — Un uomo no, di questo ne sono certo.
— Che qualche ragazzo si sia spinto fino qui?
— Può darsi che sia passata per questa foresta qualche tribù e che un fanciullo, staccatosi per cercare delle frutta, abbia scoperto il nostro rifugio.
— Che ritorni?
— Hum! Gli andamani, che io sappia, non si fermano più d'un giorno nel medesimo luogo. Sono d'indole randagia e non riescono ad accasarsi, né ad accamparsi in alcun luogo. Sono più nomadi degli arabi e dei beduini. Non preoccupiamoci, Sciapal.
Rinnovarono il loro giaciglio tagliando altre foglie, divorarono gli avanzi della colazione e qualche frutto, poi si addormentarono incoraggiati anche dalla tranquillità del cane. L'indomani, Sciapal era in piedi, prima ancora che spuntasse il sole.
— Padrone, — disse, prima di partire, — vado a fare provvista di frutta ed a cercare di abbattere qualche altro calaos o un capo di selvaggina. Il mattino è umido e un riposo d'un paio d'ore ancora, vi farà bene.
— Va', Sciapal — rispose Alì. — Non partiremo che dopo il mezzodì, quando il sole sarà ben caldo.
L'indiano prese le due pistole del padrone e s'inoltrò attraverso alle grandi piante ed ai cespugli, procedendo con precauzione e guardando a destra ed a sinistra con grande cura, per non perdere qualche occasione propizia. Sapeva che gli animali non scarseggiavano in quei luoghi e cercava di sorprenderne qualcuno e dei più grossi.
Si era allontanato già d'un chilometro, avvicinandosi verso la costa, quando in mezzo ad un folto gruppo di cespugli, vide ergersi solitario un grand'albero col tronco diritto, di diametro notevole, coi rami rialzati in forma di braccia di candelabri e colle foglie d'un verde assai cupo che formavano, colla loro massa, una specie di cupola di dimensioni gigantesche. Un'esclamazione di gioia gli irruppe dalle labbra.
— Un mhowah! — disse, stropicciandosi allegramente le mani. — Ecco i biscotti! Davvero che non potevo trovare una pianta più preziosa.
Sciapal aveva ragione di essere contento, poiché quegli alberi, che chiamatisi anche mhauah dai malabari, e dai naturalisti cassia latifolia, sono i più utili che crescano in quelle regioni, preziosi al pari dei cocchi dai quali gli indostani sanno trarre molte cose necessarie alla loro esistenza.
I mhowah cominciano dopo il febbraio a produrre. Appena il sole acquista un po' di forza, si coprono, in pochissimi giorni, d'una quantità incredibile di fiori colla corolla giallognola, rassomigliante ad un grano d'uva, carnosa, densa, la quale emette gli stami da un'apertura strettissima.
Giunta a maturanza, la carnosa corolla cade e allora comincia la così detta pioggia della manna delle jungle.
Quella pioggia di bacche, poiché sono vere bacche, continua per parecchi giorni e quelle piccole frutta vengono ogni sera raccolte con grande premura dai contadini. Si calcola che ogni albero ne produca circa centoventi o centotrenta libbre.
Quando quelle corolle sono fresche hanno un gusto gradevole, dolcissimo, ma esalano un acuto odore di muschio che gli europei difficilmente possono sopportare.
Per lo più però si seccano su dei graticci di vimini, finché perdono quel profumo di caimano, poi si pestano, ricavando una specie di farina assai nutritiva, che poi si converte in pani.
Messe quelle bacche a fermentare, ricavasi invece una specie di vino bianco, piccante, ma che non dura però; distillandolo, si ottiene un'acquavite eccellente che può gareggiare perfino col cognac, e dai residui si estrae finalmente un buon aceto.
Più tardi poi, quegli alberi mettono delle frutta grosse come le mandorle, ricoperte d'un mallo color violaceo. Quelle mandorle, che sono bianche, lattiginose, si pestano, ricavando dell'olio buonissimo e una farina che serve pure a fare delle focacce.
Perfino la corteccia dei mhowah è utilizzabile, facendosi delle corde resistenti e anche il legname viene adoperato nelle costruzioni, avendo l'impareggiabile vantaggio di resistere alle distruzioni di quelle formidabili formiche che hanno le tenagliette così dure da sbriciolare perfino le ossa.
Essendo ormai la stagione avanzata, il mhouah scoperto dal malabaro era privo di fiori, ma dai rami pendevano ancora delle frutta. Frugando fra i cespugli, Sciapal era certo di trovarne un gran numero, dovendo le altre essere già cadute.
Stava per aprirsi il passo fra quel macchione di piante per giungere sotto l'albero, quando volgendo gli sguardi verso la sua dritta, gli parve di vedere qualche cosa di oscuro strisciare lestamente sotto i rami.
— Oh!... Oh!... — mormorò, sorpreso. — Che qualche animale mi disputi il raccolto?
Armò prontamente una pistola e guardò attentamente là dove aveva veduto scivolare quella forma indecisa e s'accorse che alcuni rami tremolavano ancora. Senza alcun dubbio, qualche animale cercava di battersela senza farsi scorgere e di guadagnare la foresta.
— Sarà qualche cinghiale, — disse Sciapal, — ma non lo lascerò fuggire senza mandargli una palla nel cranio.
Tenendo nella destra la pistola e nella sinistra il bastone, s'inoltrò fra i cespugli, dirigendosi lentamente verso il punto ove aveva veduto agitarsi quel ramo. Aguzzava gli occhi per vedere se il supposto animale cercava di aprirsi il passaggio, ma nulla riusciva a scorgere.
Pareva che quel cinghiale non fosse disposto ad andarsene così presto. Giunto dinanzi ad un gruppo di rami, Sciapal li mosse e quindi li aprì. Fu tale la sua sorpresa, che rimase immobile, colla bocca aperta, gli occhi sbarrati, senz'essere capace di pronunciare una parola.
Sotto quel cespuglio, ben nascosta fra le foglie, si teneva rannicchiata una ragazzina che, anche a prima vista, pel colorito della sua pelle, pei suoi lineamenti e soprattutto pel costume che indossava, si riconosceva non già per una selvaggia andamana, ma per una bengalese.
— Che cosa fai qui? — chiese finalmente Sciapal, rimessosi dal suo stupore. Quella ragazzetta si alzò lentamente, lasciando cadere alcune manate di mandorle e apparve tutta intera agli occhi, sempre più stupiti, del malabaro.
Era una figurina graziosa, assai esile, colla pelle d'un bronzo chiaro, a riflessi giallastri, con due occhioni intelligenti, biricchini, brillanti come i diamanti neri e con una capigliatura lunga, scarmigliata, pure nerissima. Non dimostrava più di nove o dieci anni, ma aveva già, come le donne del Bengala, il suo sari di percalle annodato attorno alle gambe, e il collo adorno di una collana di quelle conchigliette bianche chiamate suk. Sembrava però che fosse ferita, poiché aveva la fronte cinta da un pezzo di tela macchiata di sangue.
— Che cosa fai qui? — ripetè Sciapal.
La piccola bengalese guardò il malabaro con quei suoi occhioni che mandavano lampi, poi disse, con una voce quasi infantile, ma senza esitare un solo istante:
— Lo vedi: raccoglievo delle frutta di mhowah.
— Ma chi sei tu?
— Una bengalese.
— Una bengalese qui! Su quest'isola! Sei forse prigioniera dei selvaggi?
— No — rispose la piccola indiana. — Mi hanno spinta qui le onde.
— È naufragata la nave che montavi?
— Non lo so. Sono stata trascinata via dalla coperta durante l'uragano, da un colpo di mare.
— Ma quando?
— L'altra sera.
Sciapal si battè la fronte con ambe le mani.
— Forse da una nave che bruciava? — chiese.
Questa volta la piccola bengalese guardò il malabaro quasi con diffidenza, ma poi rispose: — Sì.
— Ma io l'ho veduta quella nave! — esclamò Sciapal. — Era un pariah, è vero?
— Sì, un pariah.
— Dove andava?
— Non lo so.
— Come si chiamava?
— Lo ignoro.
— Ma da chi era montato?
— Da alcuni bengalesi.
— Ma cosa facevi tu a bordo?
— Nulla: mi avevano raccolta presso la foce del Gange, essendo stata abbandonata dalla mia famiglia.
— Sei approdata sola?
— Sì, sola.
— Ma tu sei ferita.
— È nulla — disse la ragazzina, sorridendo. — Ho urtato contro una roccia nell'approdare.
— Ed è dall'altra sera che tu erri sola sotto questi boschi?
— Sì.
— Come ti chiami?
— Latscimi.
— Ebbene, Latscimi, raccogliamo queste mandorle, poi ti condurrò dal padrone.
— Da qual padrone? — chiese la bengalese, guardandolo fisso. — Tu non mi hai ancora detto perché ti trovi qui.
— Io ed il padrone siamo naufraghi: lui è bengalese ed io sono malabaro.
— Come si chiamava la tua nave?
— La Djumna.
La piccina, nell'udire quel nome, trasalì e guardò con stupore il malabaro.
— La Djumna! — esclamò.
— Conoscevi quella nave, forse? — chiese Sciapal.
— Ah! No! Mi pareva di aver udito ancora questo nome, ma forse m'inganno. Ma come si chiama il tuo padrone?
— Alì Middel.
Latscimi tornò a trasalire, anzi fece un gesto di sorpresa, ma subito si frenò.
— Non l'ho mai udito nominare — disse poi.
Poi si curvò rapidamente come se volesse nascondere quell'inesplicabile turbamento e si mise a raccogliere le frutta del mhowah.
Sciapal, che nulla aveva notato, s'affrettò a imitarla, frugando fra i cespugli. Fatta un'ampia raccolta di quelle mandorle, si misero in cammino per ritornare alla capanna.
La ragazza però pareva preoccupata e sembrava che seguisse di mala voglia il suo protettore. Di tratto in tratto si arrestava come se cercasse di raccogliere qualche rumore e lanciava degli sguardi sotto gli alberi, come se temesse di veder apparire qualcuno.
Dopo pochi minuti giungevano alla capanna.
Si può immaginare la sorpresa di Alì, nel veder ritornare il malabaro in compagnia di quella piccina. Quando fu informato di tutto, disse a Latscimi che continuava a guardarlo con strana insistenza:
— Rimarrai con noi, piccina mia, e ti proteggeremo contro gli animali della foresta e contro i selvaggi. Se riusciremo a ritornare in India, io non ti abbandonerò e se tu vorrai, io diverrò per te un vero padre.
— Grazie, padrone — rispose Latscimi. — Tu sei buono.
— Dimmi ora — riprese Alì, — La nave che tu montavi cercava di approdare a quest'isola?
— Non lo so.
— Correva grave pericolo?
— Tutta la sua alberatura era in fiamme.
— Ma come era scoppiato il fuoco?
— Non lo so, trovandomi in quel momento nella stiva. Quando salii sul ponte, le vele ed i pennoni bruciavano.
— Vi erano molti uomini a bordo?
— Una dozzina.
— Tutti indiani?
— Tutti, padrone.
— E non sai dove si recava quella nave?
— Molto lontano, ma non so in quale paese.
— Forse la ritroveremo.
— Ma dove? — chiese Latscimi, con una certa inquietudine.
— Sulle coste meridionali. Vedendosi in pericolo, l'equipaggio avrà cercato di spingerla verso terra.
— Quegli uomini sono cattivi, padrone.
— Forse che sono dei pirati?
— Lo credo.
— Forse t'inganni.
— No, padrone, quegli uomini sono cattivi — ripetè la piccina con suprema energia. — Rubano le persone.
— Allora saranno negrieri, ma io non li temo e andrò a cercarli.
— Mi riprenderanno — disse Latscimi, manifestando un vivo terrore.
— Forse che ti maltrattavano a bordo!
— Mi battevano sempre.
— Bah? Non oseranno strapparti a me. Alì Middel non teme né i pirati, né i negrieri. Partiamo per la costa, Sciapal, o questa umidità ci sarà fatale.
Mangiarono alcune mandorle ed il loro ultimo pezzo di carne secca e si misero in marcia lentamente, essendo Alì ancora debole.
Avevano percorso tre o quattrocento passi, quando Sciapal s'accorse che Pandu non era più con loro.
— Dov'è il cane? — chiese.
— Mi ha lasciato prima che tu tornassi — rispose Alì, — Credevo che si fosse messo in cerca di te.
— Io non l'ho veduto, padrone.
— Forse avrà scoperto qualche selvaggina e sarà occupato a seguirla. Però mi pareva in preda ad una viva agitazione e mi parve, ora me lo rammento, che si fosse diretto verso il sud.
— Che abbia fiutato lo sbarco di quegli uomini?
— Quelli della nave che ardeva?
— Sì, padrone.
— È possibile, Sciapal. Quel Pandu ha un olfatto meraviglioso e fiuta delle persone a distanze incredibili. Quando sarà stanco di correre, ci raggiungerà alla costa.
La piccola Latscimi pareva che avesse prestata molta attenzione a quello scambio di parole. Pur continuando a camminare, si era tenuta molto vicina ai suoi protettori, per non perdere una sola sillaba.
Verso il mezzodì giungevano sulla spiaggia che era inondata da una pioggia di raggi caldissimi. Alì si arrestò respirando a lungo quell'aria pura, impregnata di salsedine vivificante.
Il mare si era calmato dopo la terribile bufera dei giorni precedenti. Solo di quando in quando, qualche lunga ondata veniva a infrangersi, rumorosamente, contro la spiaggia e contro i banchi.
— Ci arresteremo qualche giorno — disse Alì, — Bisogna rinnovare le nostre provviste e poi, mi sento ancora debole, Sciapal. Quel dannato bufalo mi ha guastato la macchina, eppure era prima così solida!
Essendo il sole cocentissimo, si costruirono un nuovo ricovero, avendolo l'altro abbattuto l'uragano, poi scesero sui banchi per cercare delle ostriche.
Ne trovarono a josa, ma furono anche più fortunati, poiché riuscirono ad impadronirsi d'una grossa testuggine marina che avevano sorpresa su di un banco, mentre stava deponendo le uova in un buco scavato nella sabbia. Alla sera, dopo un delizioso arrosto di tartaruga, si sdraiavano sotto la loro capannuccia, mentre la luna sorgeva all'orizzonte, specchiandosi nelle acque tranquille del golfo.