Il capitano della Djumna/Parte seconda/11. L'assalto dei bhainsa

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11. L'ASSALTO DEI BHAINSA


Quella promessa doveva sembrare straordinaria, inverosimile, in quel momento ed in cima a quell'albero; eppure il malabaro aveva parlato con tutta serietà e non doveva tardare a mantenere la promessa.

Quell'albero su cui si erano posti in salvo, era un borasso, a foglie in forma di ventaglio, pianta assai comune in quei climi e una delle più utili e delle più strane.

Come si disse, era alta una quindicina di metri, col tronco svelto che si assottigliava all'estremità superiore, coperta di foglie folte, disposte a ventaglio, lunghe un metro e mezzo e larghe come un parasole.

Era carica di frutta grosse come la testa d'un bambino, a tre anni, arrotondate, colla corteccia giallastra.

Il malabaro estrasse il suo coltello di manovra che teneva stretto nella fascia, s'alzò in piedi, strappò un pezzo di foglia, e foggiò una specie di bicchiere in forma di corno, poi recise un ramo dei più giovani, che da poco aveva fiorito e vi mise sotto quello strano recipiente, mantenendolo ritto con alcuni filamenti vegetali.

Ciò fatto arrotolò altre foglie, recise altri rami giovani, ve le sospese sotto e attese.

Poco dopo da quei tagli, Alì che stava attento, vivamente curioso di sapere in qual modo il malabaro poteva offrirgli una tazza di vino, vide colare nei cornetti di foglie un liquido che spandeva un odore leggermente alcoolico.

— Bevi, padrone — disse il malabaro, quando uno di quei bicchieri fu pieno. Alì assaggiò quel liquido, poi lo bevette avidamente. Era dolce, leggermente piccante e aveva il sapore del vino.

— Ma è davvero eccellente! — esclamò. — Ho bevuto ancora qualche cosa di simile, il toddi.

— Sì, ma questo è migliore, padrone — disse Sciapal. — Bevi pure; i rami continueranno a darcene per molto tempo.

— Purché non ci ubriachiamo e poi capitomboliamo dall'albero.

— Se lo lasciassimo fermentare ci ubriacheremmo, ma lo berremo prima.

— Si potrebbe anche estrarre dello zucchero da questo liquido, ma bisognerebbe possedere un recipiente spalmato di calce per impedire la fermentazione e del fuoco per farlo condensare; però pel momento non possediamo l'uno e non possiamo accendere l'altro.

— È vero, padrone. Aspetta un momento.

Staccò una di quelle frutta, l'apri con un colpo di coltello ed estrasse due specie d'uova, grosse come quelle di un'oca e bianche.

— Mangiale, padrone — disse, porgendogliele.

Alì si mise a rosicchiarne una e la trovò buonissima. Aveva il sapore delle nostre mandorle.

— Ecco un albero che è la vera provvidenza, specialmente in questo momento, — disse. — Per due o tre giorni potremo tirare innanzi a dispetto degli assedianti.

Aprirono altre frutta facendo raccolta di quelle grosse mandorle, ritirarono i cornetti già pieni di liquido e accomodatisi meglio che poterono, si misero a far colazione, senza preoccuparsi dei bufali.

Questi, dal canto loro, pareva che pel momento avessero rinunciato all'idea di sloggiare gli assediati. Alcuni, sdraiati all'ombra degli alberi, ruminavano pacificamente, mentre gli altri pascolavano attorno al borasso, ma non perdevano di vista i due prigionieri.

Anzi, qualcuno si spingeva di tratto in tratto sotto l'albero, guardava i due uomini coi suoi brutti occhi iniettati di sangue e urtava il tronco colle robuste corna, come se volesse accertarsi della sua resistenza.

Ad un tratto però quella calma fu bruscamente interrotta dalla comparsa di Pandu.

L'intelligente animale, che fino allora si era tenuto celato in mezzo agli alberi, vedendo che la prigionia del suo padrone si prolungava troppo, era bruscamente balzato fuori e si era scagliato coraggiosamente sul bufalo più vicino, azzannandogli un orecchio.

Il grosso ruminante, sentendosi lacerare quella parte delicata, parve che impazzisse. Si mise a girare su se stesso, spiccando salti indiavolati e muggendo furiosamente, ma il bravo cane, quantunque venisse sbattuto in tutti i sensi, teneva duro e stringeva con maggior energia, incoraggiato dalle grida di Alì e Sciapal, i quali avevano bruscamente interrotta la colazione. Gli altri bufali, vedendo il loro compagno in pericolo, si precipitarono in suo aiuto, galoppando all'intorno e abbassando le formidabili corna.

Pandu, comprendendo che stava per venire sventrato, abbandonò l'avversario, ma non lasciò il campo. Sfuggendo a quelle cariche disordinate, con un'agilità sorprendente, balzava ora addosso all'uno ed ora addosso all'altro, abbaiando ferocemente, mordendo i garretti a questo od a quello, o la estremità delle lunghe code o gli orecchi e senza mai lasciarsi prendere.

— Bravo Pandu! — gridava Alì. — Mordi bene!

— Strappa loro gli orecchi! — urlava Sciapal.

I bufali, resi furiosi da quegli assalti che si moltiplicavano e contro i quali non potevano difendersi, galoppavano all'impazzata, fracassando i cespugli, falciando coi robusti zoccoli le alte erbe, muggendo e scagliando cornate in tutte le direzioni.

Alì, temendo pel suo valoroso cane, credette giunto il momento di far uso delle sue armi. Armò le pistole e fece fuoco su di un vecchio maschio, che passava di galoppo sotto l'albero.

Colpito replicatamente, ma non mortalmente, avendo la pelle assai dura, il bhainsa s'impennò come un cavallo toccato dallo sperone, poi, comprendendo che quei proiettili dovevano essere stati mandati dai due assediati, si scagliò a testa bassa contro l'albero.

L'urto di quell'enorme massa fu così violento, che il borasso oscillò violentemente, scricchiolando.

Sciapal aveva avuto il tempo di aggrapparsi alle grandi foglie, ma Alì, che aveva ancora in mano le pistole, perduto bruscamente l'equilibrio, fu scaraventato nel vuoto.

Il disgraziato emise un urlo terribile, credendo di andarsi a sfracellare contro il suolo, ma fortunatamente, pel colpo subito dal tronco elastico dell'albero, cadde molto più lontano, nel bel mezzo d'un folto cespuglio di mussenda. Quel capitombolo che doveva riuscirgli fatale, da quell'altezza di quindici metri, in altre circostanze non avrebbe avuto nessuna conseguenza in causa dei rami che avevano ammorzato il colpo, ma vi erano i bufali. Vedendo precipitare quel corpo, quindici o venti si scagliarono a testa bassa contro il cespuglio. Alì, quantunque stordito da quella repentina caduta, si era affrettato a balzare in piedi.

Vedendo rovinarsi addosso quella valanga di corpi enormi, si gettò prontamente fuori dal cespuglio mettendosi a fuggire attraverso alla foresta, ma gli era impossibile gareggiare con quegli animali che corrono come i cavalli. In un istante fu raggiunto da uno dei più agili e scagliato in aria con una violenza inaudita.

Sciapal, pallido, atterrito, impotente, vide il capitano roteare tre o quattro volte nel vuoto, poi piombare fra la biforcazione di un grosso albero e rimanere imprigionato fra le foglie ed i rami.

— Padrone! — urlò, curvandosi innanzi. — Sei ferito?

Alì non diede segno di vita. Steso fra i rami folti di quell'albero, che gl'impedivano di cadere a terra, giaceva inerte, colle braccia penzoloni. Sotto di lui, i bufali balzavano come indemoniati, cercando di urtare il ramo che era poco alto da terra, ma senza riuscire nel loro intento, mentre gli altri, aizzati senza posa dal valoroso cane, correvano attorno al borasso. Parve finalmente che ne avessero abbastanza di quei morsi e di quell'avversario instancabile e così lesto che sfuggiva alle loro corna, poiché cominciarono a sbandarsi galoppando verso l'interno dell'isola. Alcuni continuarono a inseguire Pandu ancora per pochi minuti, ma vedendo gli altri allontanarsi, non tardarono a seguirli. Quando il fracasso prodotto da quella valanga di corpi enormi si perdette in lontananza, Sciapal, che pareva pazzo di dolore, si lasciò scivolare a terra e corse sotto l'albero, fra i cui rami giaceva Alì.

— Padrone, sono fuggiti! — gridò. — Scendi che non corriamo più alcun pericolo e...

S'arrestò di colpo, gettando un grido d'orrore: delle gocce di sangue tiepido gli erano cadute sul viso.

— Grande Siva! — esclamò. — L'hanno ucciso!

S'arrampicò sul tronco e giunse ben presto accanto al padrone.

Alì, pallido come un cencio lavato, cogli occhi semichiusi, pendeva inerte fra i rami, come se fosse morto. La sua giacca di tela bianca era macchiata di sangue, il quale usciva a larghe gocce da un foro perfettamente circolare, prodotto senza dubbio dal corno del bufalo. Sciapal gli posò una mano sul cuore, ma sentì che batteva ancora.

— Speriamo — mormorò. — il padrone è robusto.

Sciapal era magro come tutti gl'indiani, ma possedeva dei muscoli di ferro. Prese Alì fra le robuste braccia, lo liberò dai rami che lo imprigionavano, poi adagio adagio, senza scosse, lo calò in mezzo ad un cespuglio che stava sotto, servendosi della sua larga fascia.

Ciò fatto balzò a terra, lo spogliò della giacca e della maglia azzurra ed esaminò la ferita. Il disgraziato aveva ricevuto una cornata sotto la sesta costola e l'aguzza arma del bufalo gli era entrata per parecchi centimetri, ma senza produrre guasti interni, almeno così sperava Sciapal, il quale, come quasi tutti i suoi compatrioti, aveva una certa conoscenza in fatto di ferite. La settima costola però era stata spezzata brutalmente ed Alì doveva essere svenuto in causa del dolore, il quale doveva essere stato tremendo.

— La guarigione sarà lunga, ma il padrone non correrà pericolo alcuno — disse il malabaro. — Temevo di peggio.

Avendo scorto a breve distanza uno stagno, si strappò un pezzo di dubgah, andò a inzupparlo d'acqua e lavò accuratamente la ferita, poi delicatamente ricongiunse la costola spezzata.

Ciò fatto gli fasciò il petto per arrestare l'emorragia che poteva avere gravissime conseguenze.

— Ora fabbrichiamo un ricovero — disse. — Il trasporto alla costa è assolutamente impossibile senza una barella.

Stava per alzarsi, quando Alì apri gli occhi emettendo un sordo gemito.

— Sciapal — mormorò.

— Eccomi, padrone — disse il malabaro, curvandosi su di lui.

— Cos'è... accaduto? Provo... un acuto dolore... qui... al fianco destro.

— Hai ricevuto una cornata da un bufalo, padrone.

— Il bufalo! Ah! Sì... mi ricordo... ero stato gettato in aria... sono fuggiti, adunque?

— Sì, padrone. Pandu li ha costretti a riguadagnare la foresta.

— Pandu! È vivo ancora? Dov'è? Lascia che lo veda?

— Il bravo animale sarà occupato a perseguitare i bufali per impedire loro di ritornare.

— Coraggio Pandu! Sono ferito gravemente?

— Hai una costola spezzata e una ferita profonda, ma guarirai.

— Ma non potrò muovermi per lungo tempo, Sciapal.

— Non ci sono io?

— Ma tu solo non puoi trasportarmi alla costa ed io non sono capace di reggermi in piedi.

— Rimarremo qui, padrone. Costruirò un ricovero per difenderci dagli animali e dalle intemperie, io caccerò colle tue armi assieme a Pandu e tu riposerai tranquillo. Fra un mese o quaranta giorni, noi potremo rimetterci in marcia.

— Un mese, immobile! Non poteva toccarmi una disgrazia maggiore, Sciapal.

— Consolati che sei ancora vivo.

— È vero.

— Basta: sdraiati su queste fresche foglie e riposa tranquillo, io ti costruirò una capannuccia, poi andrò a cercare i pavoni e delle erbe che rimargineranno presto la tua ferita. Tu sai che noi indiani ne conosciamo di quelle che sono efficacissime.

— Lo so, Sciapal. Prima cerca le mie pistole.

— So dove si trovano.

— Credi che ritorneranno i bhainsa!

— Non lo credo; ma poi ci troveranno al riparo. Sciapal sa costruire delle solide capanne. Dormi, padrone: io penserò a tutto.