Il capitano della Djumna/Parte prima/1. Le oche emigranti

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Parte prima Parte prima - 2. Un dramma misterioso

Parte Prima


1. LE OCHE EMIGRANTI


Un sole ardente, infuocato, si rifletteva sulle giallastre e tiepide acque della profonda baia di Port-Canning, esalanti quei miasmi fetidi che scatenano così di sovente febbri tremende, mortali per gli europei non acclimatizzati, e peggio ancora, il cholera, così fatale alle guarnigioni inglesi del Bengala. Non un soffio d'aria marina mitigava quel calore che doveva toccare i 40 e forse più gradi. Le grandi foglie piumate dei cocchi, d'aspetto maestoso, disposte a cupola, o dei pipai, o dei rimiri, o dei palmizi tara, o quelle lunghe e sottili dei bambù, pendevano tristamente, come se quel sole le avesse bruscamente private dei loro succhi.

Il silenzio poi che regnava su quelle acque e su quelle isole fangose che si distendevano verso il golfo del Bengala, era così triste, che produceva una profonda impressione. Pareva che tutto fosse morto in quell'estrema regione della più ricca e della più vasta provincia dei possedimenti inglesi dell'India.

Pure, malgrado quella pioggia di fuoco, e malgrado i miasmi che s'alzavano da quei bassifondi sui quali imputridivano enormi ammassi di vegetali, una piccola scialuppa coperta da una tenda bianca, navigava lentamente fra quelle isole e quei banchi di sabbia e di fango, ma con una certa precauzione. Due uomini, uno che stava seduto a prora tenendo in mano un fucile a doppia canna e un altro a poppa che manovrava dolcemente un paio di quei corti e larghi remi detti pagaie, la montavano.

Il primo era un giovanotto alto, un po' magro, dalla carnagione bianchissima, con due occhi azzurri, due baffetti biondi, la fronte alta, le labbra vermiglie. Indossava un vestito di tela bianca, fregiato sulle maniche coi distintivi di tenente ed aveva il capo riparato da un ampio cappello di paglia. L'altro era invece un uomo sulla cinquantina, basso di statura ma tarchiato, con una lunga barba già brizzolata, una fronte rugosa, la pelle assai abbronzata, i lineamenti duri, angolosi.

I suoi occhi, di colore oscuro, non si staccavano dal giovanotto come se volesse prevenire ogni suo desiderio, mentre le sue mani callose manovravano, come se fossero due fuscelli di paglia, le pesanti pagaie.

Era vestito come il compagno, ma sulle sue maniche non si scorgeva alcun grado. Invece del cappello di paglia portava però un berretto da marinaio. Quei due uomini, insensibili al calore come le salamandre, continuavano ad avanzarsi in mezzo alle isole, agli isolotti ed ai banchi, ma sempre con prudenza.

— Vedi? — chiese ad un tratto il giovanotto, volgendosi verso il rematore. — Vedi, Harry?

— Sì, signor Oliviero, ma si tengono fuori di portata. Voi li avete troppo spaventati i giorni scorsi.

Un sorriso sfiorò le labbra del giovane tenente.

— È il caldo che li tiene lontani dalle isole, mio vecchio Harry — disse.

— Ma anche il vostro fucile. È una settimana che tuona contro tutti i volatili della baia.

— È l'unica distrazione che offre Port-Canning, ma se verranno dei compagni lasceremo in pace i volatili e andremo a scovare le tigri. Si dice che a Raimatla ed a Jamera abbondino.

— È vero, signor Oliviero, ma è meglio che i vostri amici rimangano al forte William. Le tigri sono pericolose, signore, e se dovessi perdervi io morrei di dolore.

— Non temere, vecchio mio. Le tigri sono meno pericolose di quello che si crede e ardo dal desiderio di affrontarne una. Quando tre mesi or sono lasciammo il Gallese, credevo, venendo di guarnigione in India, di ucciderne almeno una alla settimana.

— Vi dico, signor Oliviero, che fanno paura quelle bestiacce. Quando navigavo con vostro padre, ne cacciammo più d'una a Ceylan e vi so dire che quegli animali sono terribili.

— Povero padre!...

— Zitto, signor Oliviero, o vedrete il vecchio quartiermastro Harry a piangere come una femmina. Là!... Guardate le anitre braminiche che s'alzano di già. Scommetterei una rupia contro un penny, che ormai conoscono la nostra barca.

Uno stormo di volatili grossi come le nostre anitre, ma colle penne dai riflessi azzurregnoli e brillanti, che fino allora si teneva seminascosto fra le larghe foglie galleggianti degli jhil, che sono piante acquatiche simili al loto e le cui radici formano una specie di rapa assai ricercata, si era alzato rumorosamente volando verso un gruppo d'isolotti deserti.

— Che questa sera debba tornare a Port-Canning senza un volatile? — disse il giovanotto. — La mia riputazione di cacciatore andrà perduta.

— Non ancora, signor Oliviero — disse Harry, che aguzzava gli sguardi verso un isolotto le cui sponde erano coperte di paletuvieri dai rami arcuati. — Laggiù potrete prendere una splendida rivincita.

— Dove, vecchio mio?

— Là, guardate.

Il giovane tenente volse gli sguardi nella direzione indicatagli da Harry e scorse, ritti sui rami dei paletuvieri, una fila di esseri bianchi, alti assai e perfettamente immobili. — Dei pescatori! — esclamò.

— Sì, ma colle ali — disse il vecchio Harry, ridendo.

— Colle ali!... Sono uomini, vecchio mio.

— Ma no, signor Oliviero.

— Sono alti come uomini.

— Ma sono arghilah o se vi piace chiamarli meglio, uccelli aiutanti.

— Ne ho vedute delle centinaia passeggiare gravemente per le vie di Calcutta in cerca di carogne, ma a tale distanza mi sembrano più uomini che uccelli.

— L'inganno è facile.

— Ma cosa vuoi che ne faccia di quegli uccelli mostruosi che vivono di carogne!

— Non vi dico di ucciderli, tanto più che gl'indiani sarebbero capaci di farvi qualche cattivo tiro.

— Lo dici sul serio?

— Sì, signor Oliviero, perché credono che nel corpo di quei mangiatori di carogne si trovino le anime dei sacerdoti di Brahma. Ma se ci avviciniamo, vedrete che dietro a quegli arghilah si alzeranno quelle grasse oche che sono così deliziose.

— Avanziamoci con prudenza, allora, vecchio mio. Ci tengo alle oche.

Harry riafferrò le pagaie e spinse lentamente il battello verso quel banco contornato di paletuvieri, procurando di non far rumore.

A duecento metri, gli arghilah erano perfettamente visibili. Erano almeno una trentina e si tenevano gravemente allineati, colla testa affondata nel loro mostruoso gozzo e appoggiati su una sola zampa, come è loro costume quando sono in riposo.

Quei volatili, che gl'indiani chiamano anche filosofi, sono di statura veramente gigantesca, poiché sorpassano in altezza il metro e mezzo e dal becco alle zampe misurano sovente perfino due metri e trenta centimetri, mentre da un'ala all'altra superano i quattro. Sembrano cicogne giganti, ma sono ben più brutti, anzi veramente ributtanti colla loro testa calva, rognosa, traforata da due occhi piccoli e rossastri, col loro becco enorme in forma d'imbuto e col loro gozzo violaceo che serve d'anticamera ad uno stomaco che può dare dei punti a quello d'uno struzzo. Il loro dorso è coperto di penne grigiastre e rigide, mentre il ventre ed il petto sono coperti di piume bianche e assai lunghe. Il loro collo invece è quasi nudo, calloso, quasi violaceo, rassomigliante a quello dei condor delle Ande. Le loro gambe poi sono lunghissime, giallastre, armate di artigli d'una certa robustezza.

Nel Bengala sono numerosissimi, specialmente nelle città dove hanno cura di purgare le vie dalle immondizie. Funzionano da spazzini, ma il letamaio è il loro stomaco e quale stomaco!... Tutto sparisce entro quel becco monumentale che si spalanca come un abisso senza fondo. Spazzature, carogne di animali, sorci, corvi interi, ossa, che poi rigettano dopo un certo tempo, e perfino si trovarono nei loro gozzi dei gatti interi male digeriti e delle tartarughe di terra di dieci pollici!

Quegli uccellacci, assorti nella loro laboriosa digestione e mezzo addormentati, pareva che non si fossero ancora accorti dell'avvicinarsi dell'imbarcazione. Solamente qualcuno, di tratto in tratto, emetteva una specie di fremito cupo simile a quello che lanciano gli orsi. Ad un tratto però rialzarono bruscamente le teste, tesero i loro lunghi colli, aprirono le loro ali smisurate e s'alzarono maestosamente, producendo un fragore strano e provocando una rapida corrente d'aria.

Quasi subito, dietro ai paletuvieri si lanciò in aria uno stormo di altri uccelli somiglianti alle oche, col collo però più lungo, le ali ornate di nero e la testa adorna d'un ciuffo.

Il giovane tenente puntò rapidamente il fucile e lasciò partire i due colpi, mentre il vecchio Harry diceva con aria soddisfatta:

— Vedete che non mi ero ingannato. Le oche contavano sulla vigilanza degli arghilah.

Due volatili, colpiti a morte dal piombo del cacciatore, caddero in acqua; uno fu raccolto, ma l'altro, quantunque gravemente ferito, attraversò il banco e andò a cadere su di un isolotto coperto di verzura.

— Non la perderò di certo quell'oca — disse il tenente. — Mi parve più grossa di questa.

— Andremo a cercarla — rispose Harry.

Riprese le pagaie, fece fare al battello il giro del banco e lo arenò sulla sponda dell'isoletta.

Il tenente balzò agilmente a terra non senza aver prima ricaricato il fucile, non ignorando come in quelle isole si trovino numerosi e pericolosissimi rettili, e si mise a frugare fra i cespugli. Qualche minuto dopo riusciva a scoprire l'oca.

L'aveva afferrata per le zampe e stava per ritornare al battello, quando con sua grande sorpresa vide sfuggire dal di sotto di un'ala un piccolo involto che era assicurato con una fibra vegetale lucente, come se fosse coperta da uno strato di seta.

— Cos'è questo?... — chiese, stupito.

Esaminò con viva curiosità quel pacchetto: era un pezzetto di tela rigata, un pezzo di quella cotonina usata dagli indiani, accuratamente sugellata con una sostanza gommosa, pesante pochi grammi.

Lo tastò colle dita e s'accorse, con crescente stupore, che conteneva qualche cosa di rigido, come un foglio di carta piegata più volte od un cartoncino.

— Harry — disse.

Il vecchio battelliere salì sulla sponda, dicendo:

— Cosa desiderate, signor Oliviero?

— Tu, che hai viaggiato molto tempo in India con mio padre, sapresti dirmi se gl'indiani usano adoperare le oche come noi i colombi messaggeri?

— Mai, signore.

— Nemmeno i birmani o gli arracanesi?

— No, di questo sono certo.

— Emigrano le oche?

— Tutti gli anni.

— Dunque questi uccelli possono venire molto da lontano.

— Anche dalle isole del sud.

— Guarda cos'aveva quest'oca.

— Un pacchetto!

— Con dei documenti, forse.

— Apritelo, signor Oliviero. Non si sa mai...

Il tenente, vinto dalla curiosità, lacerò con precauzione la tela e vide sfuggire vari foglietti di carta piegata in quattro, già ingialliti e un po' umidi. Li raccolse vivamente e li aprì coi dovuti riguardi temendo che si lacerassero. Erano coperti da una calligrafia fitta, ma un po' grossolana, scritta con un inchiostro verdastro, ma non tutte le parole erano complete. Pareva che l'umidità le avesse guastate, però si potevano, con un po' di pazienza, forse ricostruire.

— Cos'è questo? — si chiese il tenente, con crescente stupore. — Come mai questi documenti si trovano sotto un'ala di quell'oca!

— È scrittura inglese — disse il vecchio Harry. — Chi sarà il nostro compatriota che ha scritto questi fogli?

— Vediamo.

Il tenente passò rapidamente i foglietti che erano cinque ed in fondo lesse:

«Alì Middel, comandante della Djumna.

«Dipartimento marittimo del Bengala».

— È un anglo-indiano di certo — disse il tenente.

— Leggete, signor Oliviero. Chissà quale terribile istoria apprenderemo da quei foglietti.

— Ritorniamo nel canotto, Harry. Questo sole ci brucia vivi e può causarci qualche insolazione.

Lasciarono l'isolotto e ritornarono al battello, sedendosi sulla banchina di poppa, che era la meglio riparata.

Il tenente accese una sigaretta, poi cominciò la lettura di quegli strani documenti, mentre Harry, sedutosi di fronte a lui, porgeva attento orecchio.