Il buon cuore - Anno XIII, n. 10 - 7 marzo 1914/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIII, n. 10 - 7 marzo 1914 Religione

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Dante e la Verna


«... al quale (la verna) si affisano ancora, dietro il verso di Dante attratti in visione, gli sguardi del genere umano».


J. DEL T.1»co. Essere ricordati da, Dante si attribuisce al.più grande onore. Onde vi fu fino chi giunse alla follia di scrivere: che avrebbe elargito milioni di lire per essere infamato dall’Alighieri, solo cullao nel dolce Pensiero di avere prestato materia all’opera più po.derosa della mente umana. Ora fra tutt’i luoghi, che Dante con frase scultoria ha descritto, parmi che pochi possano reggere al paragone della Verna, che egli in un terzetto ci presenta nella sua cruda natura gebgrafica e ne’ fasti della sua storia. Il Poeta trovasi asceso nel Sole, ed ivi dodici spiriti lucenti più che il pianeta — sono i grandi maestri in divinità — gli vengono a far corona intorno: ed il più dotto di tutti, S. Tomaso d’Aquino, con affetto tutto celestiale, prende a narrare le glorie della vita di S..Francesco d’Assisi. Il. vate mette in bocca a S. Tomaso ’un inno epico; e non poteva fare altrimenti, come duello che celebra le, lodi di bio e de’ celesti e che meglio di qualunque altra forma si presta alla sublimità del soggetto. Io non starò qui a discorrere tutte le lodi, che Convengono all’inno epico delle quali Dante si mo stra perfetto possessore; ma dirò solo col "l’essermann, ch’egli nella trama deI grandioso ed arduo soggetto non ha potuto raggiungere la perfezione dell’arte. Tanto Dante quanto Giotto — risalendo alle tradizioni francescane, e non creando, come hanno supposto parecchi — nel dipingere la vita di San Francesco hanno voluto fare uso dell’allegoria: le nozze di S. Francesco con la Povertà; ma ambedue non sono riusciti alla piena ragionevole personificazione degli enti morali. Il che ne è di grande ammaestramento, come ogni vigore d’artista sia impotente a spirare il soffio della vita in un’arida allegoria: e anche il Milton éd il Klopstock che vollero più tardi tentarne la prova, fecero la fine d’Icaro. Lasciando da parte Giotto, di cui non possiamo intendere la ragionevolezza di dipingere una bellissima donna innamorata che per piacere all’amante ha la veste bianco-rosata in parte sdruscita, ed i piedi scalzi,su uno strato di spini, ci giova rilevare — contro certi fanatici ed ignoranti che non sanno che cosa sia arte — che Dante non ha potuto ottenere la piena personificazione delle mistiche nozze secondo i razionali dettami della natura. E infatti come ’può ammettersi, che un giovine s’innamori di una vedova da più che mille e cent’anni? Come può permettere un marito fortemente preso della sua donna, che gli altri le corrano dietro, perchè sì la sposa piace? Come può verificarsi che una sposa per quanto innamorata del suo consorte voglia servir da bara al suo corpo dopo la morte? Tralasciando questi ed altri punti del canto, che non rispondono certamente alla natura psicologica dell’amore, conviene ammettere però che socco gli altri aspetti il carme a S. Francesco di Dante ha tali bellezze, che vince d’assai tutte le altre opere in onore del Serafico Padre. Nè con ciò intendo di dire che Dante ci abbia pienamente rappresentata la vita e l’opera meravigliosa di S. Francesco: giacchè nessun ancora certamente, compreso S. Bonaventura che andava, in estasi quando ne dettava la vita, ha saputo darci il concetto del grande Patriarca e della,sua opera altissima. Nonostante queste pecche, l’inno dantesco ha pregi così sublimi, che nessuno ha potuto ancora,superarlo e forse non lo supererà mai. Ma per la [p. 74 modifica]massima parte le bellezze di questo canto rimangono tuttavia un’incognita: nè alcuno peranco ha saputo darcene — come in generale si vuole dire pel Poema — un commento pieno e perfetto. A fare l’escgesi dantesca non basterà mai — com’io ho propugnato più volte -- un uomo per,quanto inegnoso e dotto: a spiegare Dante si rende indispensabile un’accolta di uomini profondamente versati nelle singole materie, che l’Alighieri — unico esempio al mondo — ha posseduto in sommo grado. Nel caso particolare dell’inno a S. Francesco — oltre la dichiarazione del polisenso — il commento dovrebbe illustrare le varie forme letterarie e le varie scienze dal Poeta toccate. Sembrerà a taluni che io metta troppo legna al fuoco, e a qualche altro darò materia da ridere. Eppure è così: sotto ogni aspetto, secondo, il mio proposto, si potrebbe fare un’interpretazione ben lunga e importantissima: e senza considerare il Poema sacro dai vari lati, dirò con Giovanni Pascoli, non si arriverà mai a comprenderlo ed a gustarlo interamente. Come abbiamo detto dianzi, Dante non poteva scegliere forma migliore dell’inno per celebrare le glorie di S. Francesco. Quasi indubbiamente questi fu il primo canto che risuonò sulle labbra dell’uomo meravigliato e riconoscente a Dio e a’ celesti, e certo per l’altissimo suo argomento rimase sempre il canto più lirico e più sublime che si usasse presso tutti i popoli. A Dante si avveniva bene ancora la terza rima, perchè questa generalmente-è la forma di cui si servirono gl’italiani nella lirica sacra; - come gli si avveniva bene rappresentare San Francesco sotto il mistico aspetto di amante riamato dalla Povertà, perchè non essendo l’inno che una significazione speciale dell’ode e canzone, ne segue l’indole che prevalentemente tratta argomenti d’amore. L’inno deve avere concetti forti, sublimi, e soavemente affettuosi, stile rapido, immaginoso ed animato assai: inoltre dev’essere breve, perchè i grandi affetti durano poco, possedere più che mostrare unità, con parole nuove e ben appropriati latinismi e trapassi d’idee, detti comunemente voli, che hanno la virtù di farc ascendere l’arte alle cime eccelse della perfezione. Chi ben osservi, tutte queste qualità si trovano nell’inno dantesco. Nel solo terzetto, che noi prendiamo ad esaminare, sono tali e tante bellezze, clie parrà incredibile a chi è profano in siffatto" genere di studi. Il Poeta, che toglie a cantare un fatto storico, deve curare grandemente laabrevità, ma far spiccare nello stesso tempo i particolari più importanti di questo fatto. Ebbene nell’inno a S. Francesco, Dante non poteva tralasciare la Verna, ove il Santo dimorò per vario tempo e ricevette le Stimmate. Dopo aver ricordati i gesti precedenti della vita di San Francesco, dalla Siria dov’egli Negia presenza del Soldan superbo Predicò Cristo trasporta il Serafico Padre sul monte della Verna.

E’ un tratto/ di arte sapientissimo, è uno de’ voli più sublimi ch’io abbia mai veduti nella Divina Commedia. In tre versi ci descrive la natura geografica geologica del luogo e il fatto prodigioso delle Stimmate, lasciando alla nostra mente il pascolo di tante altissime considerazioni, che sgorgano naturalmente dal fatto medesimo. Si poteva dire di più in un terzetto! E con che precisione, con che chiarezza, con che efficacia da non trovare paragone! Che stupenda ipptiposi! Un dotto:francescano, il P. Adolfo Martini; direttore della Verna, mi ha domandato, se Dante abbia visto il Calvario italiano. Ho pensato un poco, poi ho detto: sì certamente, Dante ha visto la Verna! Egli non poteva descriverla con parola sì scultoria se non l’aveva veduta. Veramente tutti i luoghi vorrebbero l’onore di avere data ospitalità a Dante; ma per alcuni da documenti sincroni e sigillati e da descrizioni che risentono la personale presenza del Poeta, non si può mettere in dubbio. Quanto alla Verna, da nessun scrittore autorevole ho visto ventilata la questione: ma io credo di non andare lungi dal vero nell’ammettere senza dubbio che Dante ha veduto questo famoso monte. E infatti, se Dante non l’avesse veduto, come poteva farcene una descrizione così precisa e viva? Non si possono ritrarre persone e luoghi in un modo così animato, se non si sono prima ben visti e se non hanno commosgo profondamente la nostra immaginazione. E storicamente la prova infallibile del fatto l’abbiamo da ciò che Dante da giovine fu alla battaglia di Campaldino, e al tempo dell’esilio percorse più volte il Casentino, come si ha da’ suoi biografi, ed incontestabilmente poi dalle sue lettere, che scrive dalle falde della Falterona. Dante vide àdunque certamente più volte la Verna; e francescano di mente di cuore, probabilissimamente anche terziario, al cospetto del sacro monte si sentì fremere della più alta ammirazione e venerazione. Ma Dante fu anche alla Verna? La cosa potrebbe essere materia di molti studi e dare buone risultanze di probabilità. Certamente, con molta più ragionevolezza di Polenta, di cui si è parlato tanto per la famosa ode del Carducci, si potrebbe esclamare almeno in tono enfatico: Dante pregò alla Verna! Senza dubbio però la vista della Verna ferì la fantasia del Poeta a tal punto, che la descrisse in un modo al tutto vivo e scultorio. Tutte le parole e tutti i concetti di questa mirabile terzina sono espressi con inarrivabile proprietà ed originalitàNel crudo sasso intra Tevere ed Arno. — Il monte Alvernia è chiamato crudo, non solo, secondo me, come seccamente espongono i commentatori, perchè è aspro, ma anche perchè rispetto a S. Francesco (per metonimia) vuolsi dire, crudele in quanto che ivi il Serafico Patriarca ricevette le dolorose Stimmate. — Sasso nel linguaggio dantesco significa montagna; e il Poeta l’appropria in particolare all’Appennino Tosco-Emiliano (Par. XXI, 106). — Ai no [p. 75 modifica]mi propri Tevere ed Arno non precedono gli. articoli, 4z ciò per proprietà filologica e geografica, perchè la circoscrizione è molto lata, mentre per maggior precisione Dante avrebbe dovuto ricorrere al Raspina e al Corsalone che scorrono a due chilometri dalla Verna. Dirà taluno in questi ’tempi, in cui tanto poco si cura e si studia la lingua di. Dante, che queste sono minuzie: ma io rispònderò con Quintiliano che i grandi scrittori guardano molto anche alle cose piccole. Non senza grave ragione il Poeta nella perifrasi, che circoscrive l’Alvernia, preferisce nominare due famosi fiumi, il Tevere e l’Arno; per dire, secondo me, che a Roma, sede del cattolicismo, dove passa il Tevere, era il cuore di Francesco, e che a Firenze, dove passa l’Arno, era il cuore dell’esule Poeta. Religione e Patria adunque,, i due più sublimi ideali, sono qui avvinte in mirabile unione. Da Cristo prese l’ultimo sigillo. — Vedete il grande cattolicot, che ammette senza dubbio il fatto prodigioso delle Stimmate. Alcuni moderni, che hanno voluto indagare la vita di S. Francesco e specialmente questo fatto, hanno dette cose da far andare in bestia, se non ci movessero piuttosto a commiserazione. Non vi è paradosso che non sia uscito dalle loro labbra. Kael con Hase, Voigt, Miilltr, Paolo Sabatier, Nino Tomassia ed altri ci hanno dipinto in San Francesco un socialista, un ribelle alla Chiesa e al Papato, un antesignano di Lutero, e per-. sino un mito. Il fatto delle Stimmate è stato da loro giudicato un fenomeno patologico. Dante all’incontro, a cui non manca profonda fede religioSa, studio largo ed accurato, e conoscenza dei tempi a sè tanto vicini, ci’ presenta S. Francesco qual’è veramente il più grande campione della Chiesa Cattolica, ed il fatto delle. Stimmate un avvenimento soprannaturale che riveste una certezza indiscutibile. Ecco, o lettori, il cattolico saldissimo, che non si affida solo alla umana ragione che ha corte cali, ma abbracciando la rivelazione che illustra e compie la scienza, nella sua fede

na. — L’ultimo sigillo, perchè ultimo di tempo e ultimo di valore, siccome quello che veniva da Dio medesimo. Che le sue membra du’ anni portarno. — . E’ la riprova materiale delle Stimmate. Imperocchè non dobbiamo credere che Dante ammettesse tutto a chiusi occhi, ma egli era un profondo osservatore, un critico finissimo, un biologo acutissimo, che, non si sarebbe lasciato facilmente ingannare; e difatti egli si assoggettava solo al dolce aspetto della verità dopo prove chiare ed evidenti, provando e riprovando (Par. III), al contrario di tanti filosofastri moderni che per spirito soggettivista negano anche la luce nel sole quando ripugni alle loro teorie. Ma Dante nel Crocifisso della Verna dovette vedere qualche cosa di più di quello che finora si è detto: egli dovette ravvisare e venerare in Lui, che per Cristo, si era fatto pupillo, cioè conculcatore di tutte le cose terrene, il precursore del grande Riformatore della civile e religiosa società, del’Veltro dal Poeta profetato e tanto sospirato. Difatti Taddeo Bareoli, pittore della scuola sanese del principio del ’400, che era molto vicino alle tradizioni dantesche, ci dipense in un quadro, che si consetva nel Museo di Perugia,’ S. Francesco che mostra le sue Stimmate e coi piedi schiaccia l’invidia, la superbia e l’avarizia, le tre fiere allegoriche adunque di Dante, che fanno guerra alla felicità dell’uomo, e che dal Veltro saranno perseguidte e sbandite dal mondo. Parte adunque grande, importantissima ha la Verna nella vita e nel poema di Dante — parte che niuno finora ha segnalata. — Essa ci riporta agli anni giovanili dell’Alighieri, quando combatteva sui colli di Campaldino per la gloria della patria, e ne usciva con grandissima allegrezza, coronata la fron’e dell’alloro della vittoria. Ci riporta ancora più strettamente ai giorni dell’esilio dell’infelice Poeta, quando era costretto a mangiare lo pane altrui e dissetarsi di

Sta come torre ferma che non crolla Giammai la cima per soffiar de’ venti.. ruscelletti, che dei verdi colli Deil Cosentin discendon giuso in Arno (Inf. XXX). Ci riporta anzi propriamente a tutta la sua vita di cattolico fervente e di sommo ammiratore ed esaltatore dello stimatizzato della Verna, in cui egli ravvisava il salvatore della religione e della soceità nel secolo XIII. Povero Alighieri! Quando, suonata l’ora della sventura, si troverà a peregrinare id.’ Casentino, forse si renderà ben tetragono ai colpi di ventura, riguardando alla Verna, su cui si era rinnovellata la Passione di Cristo: ritemprerà l’animo nel pensiero tutto francescano, che l’uomo non si sazia che al fonte dell’eterna verità e felicità ch’è Dio (Par. IV, 126): e mentre fin dalla puerizia matura la trama del grande Poema, a cui ha posto mano e cielo e terra, alla Verna rapirà uno di quei quadri che rendono insuperabile il suo Paradiso. Pompeo Nadiani.

Da Crissto S. Francesco prende la suprema approvazione dell’Ordine, dopo averla ottenuta da due Sommi Pontefici. Ecco ancora, o lettori, qui il profondo canonista, che sa che gli Ordini religiosi debbono essere approvati dal Papa, e che la sanzione del Papa è sanzione di Dio, secondo le celebri paiole di G. Cristo: Quodcumque ligaveris, ecc. — Da Cristo, e non da Gesù, riceve San Francseco le Stimmate, perchè è il Sacerdote inimcgato sulla Croce che deve imprimere nelle membra di Lui vittima di espiazione,.questo segno- speciale di soddisfazione. — Prese, non l’ottenne, perchè gli si doveva per giustizia — corona Justitiae — in ragione dei suoi meriti, preclarissimi: è la sete del martirio (dirò coll’illustre marchese F. Crispolti), che non ha potuto saziare in Siria, ma che viene a chiamarlo colle piaghe sanguinose della passione di G. Cristo sul monte della Ver [p. 76 modifica]Il Cattolieismo in Cina.

Il i Giornale di Pechino n pubblica interessanti notizie relative alla nomina fata. dal Parlamento cinese del Presidente della repubblica nella persona di Yuen-Si-Kai, e sulla partecipazione del catolicismo a questa solennità civile. In quella occasione il ministro degli affari esteri Lu-Tseng-Tsiang — il quale si è convertito al cattolicismo nel 1911 alla missione dei Lazzaris’zi di Pechino — scriveva a monsignor Farlin, vicario apostolico di Pechino, la seguente lettera per invitarlo ufficialmente alla cerimonia: «Questa mattina fui gradevolmente sorpreso quando seppi che il Presidente aveva dato l’ordine d’invitarvi alla cerimonia della sua installazione. In considerazione _dell’ordine speciale, espresso dal Presidente, il vosero posto è stato premurosamente scelto e riservato, e voi sarete invitato a presentare le vostre congratulazioni nella gran sala Tai-NuTien, dopo il-corpo diplomatico e il rappresentante dell’imperatore Chuen-Toung. lo sono designato dal Presidente per introdurvi e farvi da intreprete. La vostra assenza recherebbe dispiacere al I-residente; ho sentito dire che siete il solo rappresentante religioso che sia invita.zo. Vi prego, monsignore, di gradire l’espressione dei miei sentimenti di rispetto. R. Lu-Tseng-Tsiang». «All’ora stabilita — dice il giornale — gli invitati vanno ad occupare il posto loro designato. Notiamo mons. Jarlin, vescovo di Pechino, in veste piscopale, che solo tra tirai i capi religiosi è stato personalmente invitato da S. Ecc. Yuen-Si-Kai e che solo parimenti tra i capi religiosi sarà fra poco ricevuto in udienza speciale, avendo S. E. Lu-Tseng -Tsiang come interprete, per presentare le congratulazioni della popolazione cattolica cinese. Subito dopo il ricevimento del corpo diplomatico un’udienza fu concessa a mons. Jarlin, il quale, come,capo della Chiesa cattolica in Cina, pronunziò parimenti un discorso a cui, dopo la traduzione fatta da S. E. Lu-Tseng-Tsiang, rispose il Presidente Yuen assicurando il prelato della grande sua ammirazione’ per i precetti della religione cattolica, come pure della libertà di cui desiderava che godessero in Cina la Chiesa catwlica e i suoi fedeli». chiosano con giusta letizia le Queste notizie ottime i Missioni cattoliche» — devono recare grande conforto a tutti i veri cristiani, a Lutti specialmente i sostenitori delle missioni. Il fatto di cronaca su accennato ha un grandissimo significato che non occorre illustrare. Esso dice la considerazione che il nuovo governo cinese ha della religione cattolica; dice quanto questa, mediante le Missioni, si sia saputa affermare: dice specialmente quali debbano essere gli sforzi dei cattolici nell’approfittare di queste magnifiche disposizioni della grande repubblica cinese, col favorire le missioni che hanno reso possibile l’atto di marcata disnzione su riferito.