Il buon cuore - Anno XII, n. 23 - 7 giugno 1913/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XII, n. 23 - 7 giugno 1913 Religione

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Nel quarantesimo della morte di Manzoni



Mille esempi ed insegnamenti lasciati da Alessandro Manzoni aspettano ancora d’essere fatti fruttificare appieno; ma le discussioni pedagogiche sulla scuola media, avvenute in questi giorni stessi nella Camera e fuori, mi fanno ricordare l’elogio che di lui fece l’Ascoli: «con l’infinita potenza di una mano che non pare, aver nervi, riuscì ad estirpar dalle lettere italiane o dal cervello dell’Italia, l’antichissimo cancro della rettorica». Rendersi consapevoli di ciò che il Manzoni fece ed ottenne contro la rettorica, è uno dei modi migliori per commemorarlo, per sentirlo vivo, per invocarlo presente, per compire in effetto quella estirpazione, la quale fu piena bensì negli scritti suoi, ma, nonostante l’ottimismo dell’Ascoli, non lo è ancora abbastanza nelle lettere e nel cervello italiano.

Prima, del Manzoni, la rettorica vuota e tronfia governava l’arte del comporre in prosa italiana per un vizio pedagogico penetrato nella scuola durante la decadenza di secoli.

Secondo essa non dovevano essere tenute in nessun conto le idee personali che si suscitassero nella testa di un giovane mentre egli stava studiando i suoi libri e i suoi temi scolastici. Una similitudine spiega questo metodo traviato.

Se leggendo un libro anche filosofico vediamo nominato un, personaggio, una città, subito la vista o il suono di quel nome ci fa balenare nella fantasia l’aspetto conosciuto o immaginario di quell’uomo o di quelle mura, ma noi non ci fermiamo a esaminare minutamente quell’aspetto; seguitiamo a leggere; esso sparisce; altri ne nascono e spariscono, e noi continuiamo il nostro studio, senza neppure ricordare in fine tutta quella fantasmagoria concomitante che si è per così dire presentata alla coda dell’occhio nostro mentale, mentre noi guardavamo diritto altrove.

Lo stesso discredito che lo studioso ha per queste distrazioni, la scuola decaduta insegnava tacitamente ad averlo per le idee, che lo studio di un soggetto generasse pian piano originariamente nella testa dello studente. Lo scopo vero dello studio doveva essere quello di appropriarsi le idee che intorno ad esse avevano già formulato autori gravi. Queste sole erano considerate degne di essere poi esposte al pubblico. Il contributo personale, del giovane doveva consistere soltanto nel rimaneggiare la disposizione di queste idee altrui e nel variarne l’ornamento esteriore. Che ne accadeva? Che le impressioni sorte spontanee nell’intelletto dello studioso, messe così in quarantena, finivano per non essere ’da lui coltivate più, ed egli perdeva pian piano la capacità di formarsi delle idee sue sopra i vari soggetti trattati in libri o messici innanzi dall’esperienza quotidiana della vita.

Certo, i grandi ingegni rompevano questa schiavitù, riuscivano a formulare a sè stessi e al pubblico pensieri propri, ma lo sforzo che dovevano fare per vincere queste abitudini scolastiche diminuiva in ogni modo la loro individuale fertilità.

Se noi leggiamo molti fra i prosatori italiani del periodo rettorico, restiamo stupiti a vedere, quanto essi fossero enfatici nella parola, poveri ed impacciati nelle idee; quanto spesso prendessero un tono solenne per annunziare verità elementari e pedestri.

Questa miseria in gala era aiutata dalla indole spontanea della mente italiana, la quale è pronta a comprendere inconsapevolmente uomini e pose, per quel che è necessario a saper regalare la propria condotta dinanzi ad esse; tant’è vero che gli italiani rimasero anche allora abilissima gente d’affari; ma è tarda e scarsa nel formulare, per poterle [p. 178 modifica]tere in iscritto, le sue osservazioni su tutto ciò che le cade sotto gli occhi. Lo studio diretto sul cuore umano e su quello che ne circonda, già poco per natura nostra, e fattosi minimo per l’avversione che incontrava nella scuola, faceva dunque sì che gli scrittori italiani avessero pochissimo da dire. Ma chi ha poco da dire si rassegna raramente a tacere o a dire quel poco, e allora riempie-il vuoto con fiori e fronde, ossia riduce lo scritto a un sonoro giuoco di parole. Questa era la condizione delle prose, che il Manzoni trovò negli usi nostri. Ed egli dette loro un fierissimo colpo. Il sommo scrittore cristiano fece dell’originalità e della sincerità letteraria quasi un dovere di coscienza; non solo considerò degni di essere portati in pubblico i propri pensieri individuali, ma gli unici degni; in materie moralmente e ragioneolmente disputabili dette diritto di cittadinanza alle sole idee che siano nate per la prima volta nella mente d’alcuno, oppure a quelle che essendo nate nella mente altrui siano state rifatte sue da una profonda elaborazione. La rettorica era così espulsa dalla cura di scrivere per esternare l’effettivo lavorìo mentale non per fingerlo. La sovrabbondanza, l’artificio della parola venivano resi inutili e palesati viziosi dal poter occupare il lettore con la ricchezza delle idee. Chi notò giustamente quanto lo stile manzoniano sia sobrio, disse poco se dimenticò di notare che in esso le parole son poche perchè le idee sono molte. Un Manzoni che si fosse limitato a ricercare le superfluità della espulsione senza stimolare in sè la fecondità dell’ideazione, avrebbe, finito per non trovar più materia da scrivere. Egli potè moderare lo scilinguagnolo perchè vivificò la mente. E fu ben osservato da alcuni, che i Promessi sposi, cioè il libro ove è meno spreco verbale, è quello che senza confronto supera per quantità di idee tutti i precedenti libri di prosa. Senonchè l’ufficio del Manzoni non consiste tutto nell’impedire che la parola prenda il luogo del pensiero: questo pericolo è divenuto oggi assai minore d’allora. Consiste nell’impedire il pericolo nuovo, ossia che si cada all’eccesso opposto. Dal, non tenere nessun conto delle idee personali di giovani e quindi dallo spingerli all’imitazione pedantesca o alla vuotaggine accademica, si è passati infatti al vizio di stimolare un’attenzione vivace a qualunque idea che sorga loro nella testa e ad esporle tutte. La letteratura di rapida compilazione, che i tempi nuovi hanno promosso e di cui il giornalismo è il saggio più particolare, ha contribuito a rendere di moda, oltre che nelle scuole anche sotto i torchi, la frequenza delle semplici impressioni improvvisate. Cosicchè, mentre è divenuta comunissima la ricchezza nell’ideazione, è diventata assai rara l’esposizione di idee mature, che ’abbiano preso dal tempo dalla meditazione, dall’esperienza la qualità di convinzioni fondate. In ciò noi siamo diventati francesi, poichè è pro prio dei nostri vicini una estrema facilità a provare impressioni, a rendersene consapevoli, ad esprimerle in forma che sembra definitiva. Sovente essi evitano la rettorica di parole, supplendovi col superficiale scintillio del pensiero. Ma alla leggerezza che una tale abitudine mentale produce in essi, si aggiunge in noi quello di dovere ad un artificio questa nuova somiglianza con loro. Noi italiani, come accennavo, siamo per natura assai meno impressionabili di loro: possiamo andare ad una nostra mèta finale senza accorgerci delle cose che fiancheggiano la via. Il volerci dare come colpiti da tutte le parvenze circostanti; come idonei a descriverle sempre e sempre pronunziare un giudizio sopra di esse, è un forzare le nostre disposizioni spontanee, e quindi fare opera male acconcia alle forze native, che sono le sole veramente feconde. Leggevo poco tempo addietro le memorie di due uomini insigni, un italiano serbatoSi fedele alla natura italiana; un francese lasciatosi andare tutto alla natura dei suoi; il cardinale Consalvi e il cardinale Maury. Il primo, dovendo trattare con Napoleone, rimane il vero uomo d’affari, come porta l’indole nostrana; ci dice quello di cui si è parlato con l’Imperatore; rivela tutta l’abile scherma dei rispettivi discorsi, e basta. L’altro, prima di giungere a ciò sa benissimo come è arredata l’anticamera; chi c’è e chi non c’è; dalle cose e dai volti trae pensieri e formule acute; dà un po’ a quel che è secondario il posto del primario; ha in una parola meno sicura la vista diritta, più ampia la vista laterale. Oggi invece noi, attratti dalla complessità del gioco intellettuale, lo moltiplichiamo ad uso Maury e diveniamo leggeri, senza riuscir sempre ad essere ugualmente brillanti. Alessandro Manzoni, come serve di correttivo al vizio della pomposa povertà antica, può servire di correttivo alla mal preparata ricchezza moderna. Egli infatti, che non accolse se non le sue idee originali o le idee altrui rifatte sue con lavoro proprio, si interdisse tuttavia ogni impressione, ogni giudizio che non fossero stati da lui verificati così bene, da diventare una certezza. Dalla sua straordinaria facoltà di chiudere un pensiero lungo in una formula breve, non si lasciò mai indurre a quelle formule che invece di esporre le idee le simulano. Fu il promotore, ma anche il correttore dell’originalità. E lo fu per la sua severa coscienza morale, la quale gli insegnò che, come è contrario alla verità il ripetere sentenze altrui prima d’averle trovate necessarie e giuste, così è contrario alla verità di buttare in pubblico la prima sentenza nostra che ci passi per il capo. Egli quindi, come fu il maestro dei contemporanei, ha diritto d’esserlo deì moderni: come corresse la povertà italiana colla ricchezza francese, così insegna ancora a temperare questa colla serietà, la ponderazione, Ja coscienziosità veramente italiane. F. CRISPOLTI.