Il buon cuore - Anno XI, n. 49 - 7 dicembre 1912/Educazione ed Istruzione

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Il Valore del Martirio

(Dal Corriere d’Italia).


La prima questione che si presenti a chi contempli nella integrità del quadro storico, il martirio, è — sembra impossibile — una questione di parole. L’originalità divina del fatto nuovo che col Cristianesimo si pone, prorompendo, non solo suscita una meraviglia di stupore e di sgomento nel mondo degli spiriti, ma porta pure un soffio di rivoluzione nel mondo delle parole: e una parola, sopratutte, è presa, costretta, accampata dalla realtà novissima che è indetta a significare.

Martus — testimone — un vocabolo che non ricorre quasi mai nella stessa letteratura sacra che precede il Vangelo e che sta a designare l’atto indifferente e come impersonale di colui che osserva, dello spettatore: questa parola è trafitta dalla bellezza di una nuova anima tragica, è chiamata a significare e a custodire nella immutata umiltà delle sue proprie fibre la violenza divina di un prodigio onde martire appare colui che rende col sangue e col sangue di sè stesso, la suprema testimonianza non solo di quanto egli vede, ancora, immutabilmente, nell’anima, nella luce dell’eterno.

«Noi non possiamo — dichiarano Pietro e Giovanni innanzi ai Pontefici — non dire ciò che abbiamo inteso».

L’originalità dell’evento donde il martirio trae la magnificenza della sua anima nuova sta tutta nella umiltà di questa testimonianza: hanno veduto, hanno inteso; ma la semplice percezione sensibile non resta inerte nello spirito, un empito di vitalità la fa vibrante di un desiderio che non conosce esitanze, che non teme coercizioni; essi non possono non dire: la percezione si tramuta in visione, la visione in parola, la parola in inno. L’evento al quale essi iianno assistito s’è avverato nella visibile pienezza della storia, in mezzo agli uomini,

a miracol mostrare,

ma nella storia non s’esaurisce, la storia non lo dissecca nella gelida compostezza del documento: esso è del passato, ma il passato non lo possiede: il fatto cristiano che i martiri di tutti i tempi, intendono testimoniare secondo la continuità di una serie di generazioni che non soffre interruzione dagli apostoli a noi è un fatto divino.

Ed in questo, il valore storico e il valore ideale del martirio cristiano: «Martirio» non s’ha se non quando si ponga testimonianza di un fatto: e solo i confessori di Cristo affermano, colla verità, la realtà altissima di un fatto storico, il fatto cristiano, che è ragione e luce alla loro fede: non solo asseriscono delle «idee» ma rendono testimonianza ad una «storia»: e per essa — secondo la dura espressione di Biagio Pascal — «si fanno sgozzare».

Martirio, dunque, non v’è, nella genuina significazione del termine, se non coll’avvento evangelico: la parola antica — martys — resta inerte e come morta finchè l’annuncio divino non le pone in cuore — nella maturità dei tempi — il prodigio di un’anima. Ma non è solo secondo questa valutazione storica — illustrata limpidamente da Paul Allard — che il martirio appare un’«esperienza» originalmente cristiana: è anche secondo valutazioni psicologiche ed ideali che non risultano meno feconde. Perchè il cristiano, che pure affronta con serenità purissima, la prova suprema non è «educato» alla morte, quanto, sopratutto, alla vita: anche nei tre secoli di sangue, santificati dalla persecuzione, quando la minaccia terribile trema ininterrottamente sul suo capo, egli sa che il mandato divino se gli insegna a morire, fortemente, quando la minaccia oscura lo raggiunge, gli impone sopra ogni cosa, incondizionatamente, di vivere e di vivere operosamente, fecondamente: l’accettazione docile della morte violenta non deve attenuare, agli occhi di lui, il valore altissimo dell’ora che Iddio ci ha dato per lavorare.

Il martire, questo sereno innamorato della morte, non è un dispregiatore della vita: a lui non conviene la meditata impassibilità onde lo stoico recide le sue proprie vene; nè l’esaltazione pugnace che getta il soldato a cercare, contro il suo proprio petto, il ferro nemico: il martire è un forte, senza essere un insensibile, è un entusiasta e non è nè un fanatico nè un invasato.

Non il pessimismo amaro del filosofo, per il quale la morte consapevolmente voluta e il termine conclusivo della logica del nulla; il gesto di pallida signoria contro l’impero inesorabile del fato e, sopratutto, l’epilogo di tutta una paziente ascesi della [p. 367 modifica]morte, di una perfetta pedagogia dell’estinguimento: lentamente, di giorno in giorno, lo stoico ha spezzato le fila che lo ricongiungono alla vita; ha reciso le propaggini sottili onde l’anima nostra si risveglia trepidando, sorella e si riconosce avvinta — attraverso al dolore e alla gioia — in vivi e reali vincoli di amore: non più gioisce, egli, non più dolora: la fraternità che egli va predicando resta — come certo loquace umanitarismo di tempi recenti — un giuoco indecifrabile di dialettica filosofica: prima di morire esangue egli è già morto l’atto fisico sussegue e suggella uno stato d’animo profondamente sperimentato: adempie una volontà di morire che è riuscita ad impossessarsi, sovranamente, di tutto l’essere, estinguendo quell’estremo cozzar di contrasti che — nei timori, nelle speranze, nei desideri — fa della morte d’un uomo un’agonia.

La morte del martire, insomma, non è il meditato adempimento di una dialettica concentrata nel nulla: è un atto di entusiasmo: e la sua dialettica è la dialettica del tutto e la sua logica è la logica di Dio.

Lo stoico è l’ultimo gettone di una stirpe morente: muore con lui tutta una gente, tutta una storia, sullo sfacelo che corrode una civiltà imperiale egli getta la sfida grande ed imbelle della sua amarezza: sotto la impeccabile signorilità del suo gesto trema, ghignando, la disperazione di un mondo: e sulle cose che gli muoiono d’attorno egli, morendo, con esse, pronuncia la parola che è la loro e la sua propria condanna: nulla. Il cristiano, invece è il figlio di una gente nuova: un amore lo avvince al cielo e attraverso il cielo, alla terra: un regno di conquista lo chiama alle durezze e agli splendori di una milizia: se un mondo agonizza, nuove terre e nuovi cieli — a mille a mille — s’aprono all’anima sitibonda: e terre e cieli batte il presagio dell’annuncio divino: «Andate e predicate». Trasale nel cuore di lui la speranza di un Dio: la parola rivelatrice della sua vita non è: nulla; è: tutto.

Nessun verace vincolo di amore egli ha reciso: egli conosce tutte le tenerezze pure degli affetti familiari, tutte le effusioni della fraternità gli sgomenti di tutte le speranze turbano il suo cuore: egli è creatura squisitamente umana e perfettamente amante: sa gioire, sa piangere; che più?

Il cammino della morte, se è per lui un tripudio di letizia in Dio, è pure un tormento senza nome: egli di null’altro è accusato se non di essere cristiano: non ha colpe da espiare, non ha reati di che rispondere: la vita e la morte tremano, per lui, nell’attimo di una parola, nella luce di un gesto: basta che egli rinneghi Cristo, che alla domanda giudiziale — Sei tu cristiano — opponga un mónosillabo — no — per, essere reintegrato nella pienezza dei suoi diritti, per meritare intiera la sua libertà.

La singolarità tragica di questa situazione giunge a sbigottire gli stessi giudici, a scompigliare a invertire le stesse finalità e gli stessi modi della procedura penale: la tortura che ha, normalmente, il compito di eccitare il colpevole alla confessione dei suoi delitti, si tramuta, innanzi al martire in una ambigua e terribile suggestione di libertà: egli non deve confessare le sue proprie convinzioni — che la sua fede è già riconosciuta — deve anzi rinnegare, deve, sotto la pressura inesorabile del dolore — chiudere gli occhi esperti al prodigio che li ha percossi. Non alla morte induce, così, lo strazio amaro, ma, tremendamente, alla vita: non a condanna ma a liberazione: il tormento, stringendo, invoca alla vittima per la vittima, la grazia della vita: l’effusione di una disperata pietà umana sembra intenerire le asprezze atroci del cilizio d’acciaio e del ferro incandescente.

(Continua).