Il buon cuore - Anno XI, n. 18 - 4 maggio 1912/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Religione Società Amici del bene

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Mons. Bonomelli a Trecella

Pozzuolo, 2. — Oggi fu qui l’illustre Mons. Geremia Bonomelli per benedire le auspicate nozze della gentile marchesina Franca Resta Pallavicino col distinto ingegnere Alberto Dubini.

Erano trascorsi pochi giorni da un sontuoso ricevimento per un saluto agli sposi da parte di centinaia di amici e conoscenti, ed oggi, quantunque si trattasse di una cerimonia intima, di carattere famigliare, la popolazione di Trecella, ove sorge la magnifica villa dei marchesi Resta Pallavicino, era unanime nel manifestare la propria gioia per il fausto evento, tanto che il paese, dalle prime ore del mattino, appariva imbandierato e adorno degli stemmi della nobile famiglia assai benemerita specialmente per due opere di carità a beneficio dell’infanzia e della vecchiaia.

Il rito civile, coi testimoni dott. Tommasini e ragioniere Carrera, fu compiuto dal sindaco cav. Cereda, il quale rivolse agli sposi gentili parole di congratulazione e di augurio.

La cerimonia religiosa, che avrebbe dovuto svolgersi nella cappella di famiglia, per l’affettuosa insistenza della popolazione, che voleva approfittare dell’occasione propizia per manifestare la propria riconoscenza, venne celebrata nella chiesa parrocchiale, dove la sposa, ammirata come una reginetta nel suo candido abito nuziale, fu trionfalmente accompagnata.

Gli sposi erano attesi all’altare da S. E. Mons. Bonomelli, il quale, nella bella floridezza de’ suoi ottant’anni, sorrideva dolcemente alle due giovinezze a lui ben note.

Testimoni erano due fratelli della sposa, marchesi Uberto e Giovanni, e due zii dello sposo, comm. Francesco Gnecchi e ing. Giuseppe Dubini.

Dopo la benedizione, Mons. Bonomelli rivolse agli sposi nobili e affettuose parole, e rivolgendosi particolarmente alla sposa, ricordò d’averle amministrato la cresima e la prima comunione e d’esser quindi doppiamente contento di poterla benedire in nozze auspicatissime con un giovane degno di lei. «Non è un discorso — disse — che voglio tenervi; voglio solo benedirvi e ribenedirvi, e vi saluto colla certezza della vostra felicità».

Al déjuner famigliare di 35 coperti, si fecero ripetuti brindisi agli sposi, che partirono per la Svizzera, la Francia e l’Inghilterra.

C.

La bronzea voce dei secoli

(Dal Corriere d’Italia).

Era per spirar la vigilia, la trepida ora di aspettazione delle bronzee sorelle, già frementi nell’aereata cella, dominante il mare, quando io m’ebbi (alta ancora la quiete mattutina) quel che è talvolta concesso ai peregrinanti del sogno; di udir cioè la voce delle cose che tramutava in parole il fremito della brezza sorvolante via, con il tacito passo dell’ora precipite. Le cinque campane immote nell’ultima pausa, presaga dell’inno giocondo, sentivan già nelle metalliche fibre, l’onda del canto, come avviene talora nei polsi del poeta in cui il ritmo pulsa del contenuto ardore della parola non detta. Ma quattro di esse, avevano nella celata voce, tutta racchiusa nel robusto vigore del fermo battaglio, alte note di stupore: la quinta più grande, più bruna, più cupa sembrava assorta in un largo sogno fatto di tenebre e di luce. Veniva infatti la luce dell’aurora di aprile a ricoprirla di un chiaro velo stillante come una pura veste nuziale per un prossimo rito di festa.

Ma nell’ampio vano della bocca rotonda era una bruna zona di tenebra, in cui parevano addensarsi tutte le oscure ombre delle memorie tristi, delle memorie lontane che dovevano essere fugate dal primo rintocco solenne. La bruna Marangona, la vecchia suora delle quattro novizie, sapeva lunghe storie di dolori e di gloria, e pareva pensosa di poter accordar la sua voce con quella delle altre, ignare e impazienti di vita, come robuste fanciulle ebbre del sogno di una regalità da lungo tempo promessa. Ed era cosi l’ultima pausa della Marangona tolta dai suoni, non scanditi dalle tenaci labbra di bronzo; ed aveva il suo aspetto qualche cosa [p. 142 modifica]di così grave e di così misterioso che le sorelle, rese ormai quasi timide dall’imminenza dell’attesa ora di festa, l’interrogarono finalmente, per sapere qualche cosa da lei, da lei che sola aveva veduto....

Ed essa favellò, con l’oscuro verbo che è pur nel silenzio degli istrumenti canori, che si comprendono fra loro, e che si fanno comprendere talora anche dai peregrinanti del sogno.

— Come l’accento di un re — così sospirò la Marangona bruna — io regolai un giorno la vita di questo popolo; come il cuore di una madre io ebbi un palpito per ogni gioia e per ogni dolore. V’è nel mio nome la significazione profonda del richiamo destinato a trarre, con la potenza del metallico grido che corre sulle onde (così come a notte i fari lo sorvolano con le file dei raggi additanti) al porto che aspetta; alle madri che implorano; alla città che attende, i nomadi figli, i conquistatori degli azzurri regni, i dominatori delle isole belle, sorrise ai raggi di oriente.

«V’è nel vostro nome — spiegò ancora la vecchia campana — nel vostro nome che quasi ignorate, un profondo senso di dipendenza prona alla mia voce, cui non pensavate, forse; un accorato senso di preghiere e di tristezza, un nostalgico senso di umile devozione di fronte alla meravigliosa maestà del cielo e del mare».

E proseguì la Marangona:

«V’è anche nel vostro nome la varia dolcezza e la tristezza varia delle ore del giorno. Tu ti chiami Nona — disse rivolta alla più vicina — ed è tua la voce del vespro; e quell’altra più piccola è destinata a seguirti fra i cirri rossi del sole declinante, con passo affrettante di umile ancella. Per questo ella vien detta Trottiera o Dietro Nona. Era te e lei vi è pertanto una vostra sorella mezzana. la Mezza-Terza o Pregadi, e il suo suono più dimesso è quello che talora tocca più profondamente i cuori. E tu ultima, tu dalla voce più giovinetta, sai come ti chiami? E’ duplice il tuo nome, ed è l’uno di terrore, di speranza l’altro. Campana del Malefizio o Preghiera, si nomò quella che occupò il tuo posto nei secoli; ma forse ti chiameranno soltanto Preghiera perchè gli uomini più non credono alle oscure malie, ma credono e crederanno sempre — pur se non lo confessino — alla dolcezza suprema della preghiera.... Ma, sorelle mie nuove, chiamate da poco nella cella comune, dove e quando troverete voi la grande, la magica voce del trionfo che fu un giorno là voce della Repubblica? I vostri sonni non mai saranno rotti al fremere delle bianche ali del mare, che sfiorando le onde vengano a portare ai piedi di S. Marco gli allori della vittoria. Non mai, non mai, saluterete i magici riti nuziali, di Venezia con l’Oceano; non mai, non mai saprete le ebrezze dei ritorni trionfali di Oriente. Tutto il passato è chiuso nel mio cuore, nel mio bronzeo cuore, che ebbe attraverso i secoli la molteplice voce del cuore dei popoli, che fu issato quassù perchè il suo palpito fosse tanto possente da destare la più torpida eco della notte dei tempi.

«Io vi compatisco sorelle di oggi — mormorò ancora la campana vecchia — perchè non avete storia. Quando e ne fremono ancora tutte le mie fibre canore — la torre vecchia oscillò, tremò, cigolò, precipitò inesorabilmente come Titano vinto, nello stupore della placida mattina estiva, io rimasi a sommo delle ruine come una gigantesca corolla nera sovra una roccia sanguigna. Le mie sorelle di allora erano infrante e la loro polvere era andata commista a quella del gigante. Ma non poteva morire la voce dei secoli, e non morì perciò la Marangona bruna che aveva per tutti cantato la fede, la speranza, che aveva a tutti distribuito la gloria, ripetuto, vanamente talvolta, la parola di amore. Il bronzeo cuore rimase vigile fra l’ammasso delle cose morte; ed esso fu tratto così chiuso, ma vibrante ancora, dal fantastico monte dei millenari detriti. Cominciò allora il mio esilio che doveva sembrare breve alla mia vita secolare e che parve lunghissimo poichè dormiva la mia voce; finchè lentamente, aspramente, ma trionfalmente, ascesi quassù. Rividi il mare, lo risalutai con breve palpito (che mi fu subito imposto il silenzio), e mi consolai delle cose nuove che mi erano d’intorno perchè l’onda era pur sempre quella, ed uguale era il cielo distesa sovra me, ed uguale anche il cuore degli uomini!

E la Marangona tacque, come assorta ancora nei suoi ricordi, finchè una delle campane giovani sommessamente, velatamente osò rispondere alle sue oscure parole: Quando noi emergevamo, dall’onda cadente in una vicina isoletta e quando fummo tratte quassù; e ancora nella notte passata ascoltando attentamente le confuse voci della sera salienti fin qui udimmo da coloro che ci foggiarono, che ci levarono in alto, e che ci hanno accompagnato, che ci accompagnano ancora con il loro sguardo in questa nuovissima dimora, noi udimmo profonde parole di speranza e di promesse maliose. Sapemmo che sul nostro cielo vedremo passare mirifiche ali che traverseranno lo spazio; così come un giorno tu vedesti quelle bianche dei velieri traversare le acque; e sappiamo anche che, spingendo lo sguardo laggiù nell’estremo lembo di questo nostro mare cilestre, urna cristallina, dove andranno a morire tutti i nostri canti, spingendo lo sguardo verso quel lembo ultimo, d’onde giungevano un giorno i trionfali gridi dei figli della tua bella Repubblica, noi udiremo ancora multiple voci levare in nuovissimo inno il nome d’Italia.

La Marangona ebbe corso tutto il bronzeo seno di speranza alla inattesa confidenza; e quando il segno del sacro rito ha sciolto il confidente silenzio delle cinque campane, l’inno festoso si è dispiegato, volteggiando innalzandosi in volate ebbre di spazio, correnti per il cielo, per le acque serene; disciogliendosi e riallacciandosi in accordi profondi, estenuandosi in grida di gioia, levandosi alto alto in una grande sublime multipla preghiera.

Le campane hanno cantato stamane la gloria di Dio e speranza del popolo come non mai; come non mai la loro voce ha ripetuto presso e lontano con suono dolce e solenne l’annunzio auspicato attraverso i secoli della pace fra gli uomini; ha portato fino ai cuori dei lontani, ovunque fossero creature di fede, la dolce promessa di un domani benedetto da Dio.


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A proposito di Bertoni e Rosmini


L’egregio sac. prof. don Proto Zambruni, spinto dal nobile desiderio di distruggere la penosa impressione suscitata da una polemica intervenuta nell’Unione, ha pubblicata nell’Unione medesima la seguente lettera:

Egregio sig. Direttore,

Voglia consentirmi, di grazia, che io manifesti il modesto mio parere sulla polemica intervenuta nell’Unione, in questi ultimi giorni, circa i rapporti che passarono tra il p. Bertoni, venerabile fondatore degli Stimmatini, e il grande filosofo di Rovereto A. Rosmini, il quale pure fondò l’Istituto della carità: congregazioni religiose, queste, benemerite e riconosciute ambedue dalla Chiesa.

Le figure di questi due venerabili fondatori sono uscite, bisogna confessarlo, non poco malconcie dalla polemica in discorso; e ciò pel modo con cui questa si svolse. Nè è da farne meraviglia, perchè quando si discute, troppo sovente avviene che ci si scaldi; e allora non si sa dove si va a parare.

Ha la sua importanza, non nego, la questione dei rapporti interceduti fra i due fondatori menzionati: e tanto maggiore quanto l’uno di essi, il Rosmini, conta una celebrità, che va ognora allargandosi nel mondo degli studiosi. Ma tale questione nulla, o quasi, importa nello stabilire le reali virtù morali e religiose dei due benemeriti fondatori. Che il Bertoni invero sia stato, o no, amico del Rosmini; che pure essendolo stato, abbia creduto poi di dovere per suoi particolari motivi troncare una tale amicizia; così pure, che egli non abbia approvato la composizione del libro Le cinque piaghe, che il Rosmini andava eseguendo per uno scopo apertamente confessato e irreprensibile, tutto ciò non ha che fare con la santità del Bertoni. La quale, anzi più che su questi piccoli incidenti, si fonda su fatti ben più gravi e significanti, per i quali essa meritò l’onore di essere riconosciuta e additata dalla Chiesa. Del pari, che cosa ci perde, in grazia dei sopra detti incidenti, la santità del Rosmini, non ancora autorevolmente riconosciuta bensì, ma conosciuta ed affermata da migliaia di persone, d’ogni grado, perfino da un Gregorio XVI, d’ogni qualità, perfino da un certo Alessandro Manzoni? La storia della Chiesa, a farsi dagli apostoli, abbonda di esempi di santi, che furono tra loro dissenzienti su certi punti, senza che ciò abbia impedito, che essi venissero riconosciuti e venerati per santi, quali veramente erano.

Or tutto ciò venne perduto di vista dagli egregi anonimi polemisti per modo, che il fatto loro produsse dolorosa impressione, non solo su di me ma anche su altri, a nome dei quali io credo di parlare.

Si lasci pertanto alla critica storica il risolvere la questione; essa lo farà a suo agio e senza passioni. Ma non si sciupi, per amore del Cielo, nessuna gloria della Chiesa. La quale conterà sempre dei santi, che saranno come di viso, così d’indole e di vedute diverse, benchè tutti e sempre d’una carità unica, della carità di quel Cristo che forma a suo modo i suoi santi.

Grazie tante, egregio sig. direttore, del favore, e mi creda il sempre suo dev.mo

Sac. prof. Proto Zambruni.

Cremona, 25 aprile 1912.

UN SALUTO DI MAGGIO


Togliamo dalla Perseveranza:

«La pietà cristiana che ha voluto consacrare alla donna pura, umile e grande l’olezzo di tutte le vite della natura rinascente, ci dà oggi poche pagine primaverili che aprono un po’ d’azzurro sul nostro cielo.

«La signora Laura M. Venier con il suo «Maggio» ha fatto un’opera buona poichè forse è più bello e più consolatore di quanto crediamo, ritornare almeno di tanto in tanto a dissetarci alla fonte purissima delle bellezze spirituali. Il libriccino soave da cui la Vergine, con esaltazione lirica ed artistica, sorride pia ancora e sempre all’Umanità ed alla nostra vita di affanni, di tempeste e di passioni, non ha nulla delle vecchie ingenuità bigotte, delle puerilità credenzone che, ormai ci spiacciono e, per nostra debolezza, ci distaccano anzichè avvicinarci alla luce. Sono poche pagine odorate da un profumo d’intimità soggettiva che piace; la preghiera è, in esse, un riverente ed amoroso studio dei Vangeli, per trarne l’ambrosia del bene, il nutrimento dello spirito; è un bel lembo di cielo stellato sulle antiche pagine, sempre belle e confortatrici, e che noi, assorti nell’affannoso cammino, dimentichiamo troppo facilmente e con leggerezza estrema.

«L’enfasi, l’affettazione, lo sterile e bugiardo misticismo egoistico e d'annullamento dei soliti vecchi libercoli, che riempiono la bocca ma lasciano arido il cuore ed annientano la volontà, non hanno gettato — per fortuna — la loro ombra qui dentro; sicchè, dopo la lettura umana, veramente pia e benefica di queste parole, sentiamo che il sollievo è tale da spingere l’anima ad un volo più alto, in fuoco di carità attiva ed amiamo di più la luce e la vita, la virtù e gli uomini.

«Certo il libriccino non è adatto per tutti, ma troverà molti amici tra quelli che hanno più bisogno d’una voce religiosa, della purezza e forza della fede, tra coloro cioè che, martoriati eppur lusingati dalla propria coltura, dall’inafferrabile anelito di grandi cose, dallo spasimo d’una luce più calda, cercano nell’esercizio di certe pratiche tradizionali del cristianesimo — aventi il profumo georgico della natura — una rispondenza superiore ai nuovi bisogni spirituali. Eppure anche per costoro le allusioni alle rappresentazioni artistiche della Vergine sembreranno talvolta uno sforzo retorico e.... raffreddatore; ma la purezza dell’intento, la sincerità soggettiva dello studio per divenir migliori alla luce dell’esempio che ci viene da un’umile vita grandiosa di Donna, Vergine e Madre ed Ancella della volontà divina, la felice ed originale scelta degli argomenti attinti dalla fonte limpida delle sacre pagine, anzichè da un falso misticismo, o da un fantasioso ed astratto sogno ascetico, renderanno loro il libriccino un amico caro, discreto e confortatore».

(Si vende dalla Casa Editrice L. F. Cogliati a L. 1, a beneficio dei ristauri nelle chiese in Milano di S. Pietro in Gessate e S. Maurizio al Monastero Maggiore.