Pagina:Il buon cuore - Anno XI, n. 18 - 4 maggio 1912.pdf/5


IL BUON CUORE 141


monca e debole, ciò che equivale — come a non aver nessuna fede — a non rispettare altresì alcuna morale.

Davanti alle suggestioni del piacere, al fascino della bellezza, al fuoco delle passioni, oh ci vuol ben altro che parlare a noi di dovere, di sacrificio, di dignità umana, di bellezza e gioia di virtù: senza fede sono parole che non danno eco, meno poi azione efficace sulla viziata volontà, disarmata innanzi alla prepotenza della passione.

La morale laica — che prescinde dal sentimento religioso ci dà la morale del suicidio, del duello, del determinismo morale, del fatalismo che toglie ogni libertà e responsabilità parificando tutti: Nerone a San Francesco di Sales, Messalina a S. Agnese, il mondo pagano a Luigi Gonzaga: non siamo più liberi, non più responsabili, tanto fa dunque l’empio ed il furfante come il pio ed il caritatevole.

Giustamente dunque disse Cristo che il credere in Lui è giustizia, la massima delle giustizie, la creatrice forza di santi e virtuosi, poichè credere a Cristo vuol dire seguirlo, imitarlo, ricopiarlo in noi. Strana fede quella che lo confessasse col suono della voce, lo negasse coi fatti: in quello negate la fede, giacchè non trovate la morale. Se sta scritto che senza la fede impossibile il contatto con Dio, è pur scritto che senza l’opere la fede è morta. S. Giacomo soggiunse: Se mi dai la fede senza le opere, dammi le opere ed io ti mostrerò la fede.

B. R.

Educazione ed Istruzione


Mons. Bonomelli a Trecella

Pozzuolo, 2. — Oggi fu qui l’illustre Mons. Geremia Bonomelli per benedire le auspicate nozze della gentile marchesina Franca Resta Pallavicino col distinto ingegnere Alberto Dubini.

Erano trascorsi pochi giorni da un sontuoso ricevimento per un saluto agli sposi da parte di centinaia di amici e conoscenti, ed oggi, quantunque si trattasse di una cerimonia intima, di carattere famigliare, la popolazione di Trecella, ove sorge la magnifica villa dei marchesi Resta Pallavicino, era unanime nel manifestare la propria gioia per il fausto evento, tanto che il paese, dalle prime ore del mattino, appariva imbandierato e adorno degli stemmi della nobile famiglia assai benemerita specialmente per due opere di carità a beneficio dell’infanzia e della vecchiaia.

Il rito civile, coi testimoni dott. Tommasini e ragioniere Carrera, fu compiuto dal sindaco cav. Cereda, il quale rivolse agli sposi gentili parole di congratulazione e di augurio.

La cerimonia religiosa, che avrebbe dovuto svolgersi nella cappella di famiglia, per l’affettuosa insistenza
della popolazione, che voleva approfittare dell’occasione propizia per manifestare la propria riconoscenza, venne celebrata nella chiesa parrocchiale, dove la sposa, ammirata come una reginetta nel suo candido abito nuziale, fu trionfalmente accompagnata.

Gli sposi erano attesi all’altare da S. E. Mons. Bonomelli, il quale, nella bella floridezza de’ suoi ottant’anni, sorrideva dolcemente alle due giovinezze a lui ben note.

Testimoni erano due fratelli della sposa, marchesi Uberto e Giovanni, e due zii dello sposo, comm. Francesco Gnecchi e ing. Giuseppe Dubini.

Dopo la benedizione, Mons. Bonomelli rivolse agli sposi nobili e affettuose parole, e rivolgendosi particolarmente alla sposa, ricordò d’averle amministrato la cresima e la prima comunione e d’esser quindi doppiamente contento di poterla benedire in nozze auspicatissime con un giovane degno di lei. «Non è un discorso — disse — che voglio tenervi; voglio solo benedirvi e ribenedirvi, e vi saluto colla certezza della vostra felicità».

Al déjuner famigliare di 35 coperti, si fecero ripetuti brindisi agli sposi, che partirono per la Svizzera, la Francia e l’Inghilterra.

C.

La bronzea voce dei secoli

(Dal Corriere d’Italia).

Era per spirar la vigilia, la trepida ora di aspettazione delle bronzee sorelle, già frementi nell’aereata cella, dominante il mare, quando io m’ebbi (alta ancora la quiete mattutina) quel che è talvolta concesso ai peregrinanti del sogno; di udir cioè la voce delle cose che tramutava in parole il fremito della brezza sorvolante via, con il tacito passo dell’ora precipite. Le cinque campane immote nell’ultima pausa, presaga dell’inno giocondo, sentivan già nelle metalliche fibre, l’onda del canto, come avviene talora nei polsi del poeta in cui il ritmo pulsa del contenuto ardore della parola non detta. Ma quattro di esse, avevano nella celata voce, tutta racchiusa nel robusto vigore del fermo battaglio, alte note di stupore: la quinta più grande, più bruna, più cupa sembrava assorta in un largo sogno fatto di tenebre e di luce. Veniva infatti la luce dell’aurora di aprile a ricoprirla di un chiaro velo stillante come una pura veste nuziale per un prossimo rito di festa.

Ma nell’ampio vano della bocca rotonda era una bruna zona di tenebra, in cui parevano addensarsi tutte le oscure ombre delle memorie tristi, delle memorie lontane che dovevano essere fugate dal primo rintocco solenne. La bruna Marangona, la vecchia suora delle quattro novizie, sapeva lunghe storie di dolori e di gloria, e pareva pensosa di poter accordar la sua voce con quella delle altre, ignare e impazienti di vita, come robuste fanciulle ebbre del sogno di una regalità da lungo tempo promessa. Ed era cosi l’ultima pausa della Marangona tolta dai suoni, non scanditi dalle tenaci labbra di bronzo; ed aveva il suo aspetto qualche cosa