Il buon cuore - Anno X, n. 27 - 1º luglio 1911/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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NOTIZIE ROSMINIANE

Antonio RosminiLa costituente del regno dell’alta Italia. — Roma, tip. italo-irlandese, 1911.

È un libretto di un centinaio circa di pagine in-16, licenziato al pubblico di questi gorni in Roma e recante l’Imprimatur del maestro dei sacri palazzi. Un lavoro inedito? chiederà qualcuno. No: sono dodici articoli di giornale, scritti dal grande filosofo pel Risorgimento di Torino, la bellezza di 63 anni fa. In quel giornale, diretto, com’è noto, dal conte Camillo Benso di Cavour, allora non ancora celeberrimo, scrivevano Cesare Balbo ed altri valentuomini; e scrisse per un poco di tempo, per poco più di un mese, il Rosmini; il primo articolo infatti usci il i luglio, l’ultimo il 12 agosto 1848. Intenzione dell’autore era di proseguire la trattazione sino a venirne una operetta stante da sè; ma essendo egli stato chiamato repentinamente a Torino dal governo piemontese per una missione diplomatica che Carlo Alberto voleva affidargli presso Pio IX, dovette lasciare in tronco il suo lavoro e partire per Roma, donde non tornò che all’autunno dell’anno seguente.

Il perchè Rosmini prese a scrivere siffatti articoli risulta dal titolo, che volle loro dare: La costituente del regno dell’alta Italia. E qui fa d’uopo richiamare questo particolare storico, che, cioè, il 28 giugno 1848 la Camera dei deputati di Torino aveva votato una legge per l’unione al Piemonte della Lombardia e di alcune provincie venete; la quale unione era già stata votata dalle medesime provincie venete e lombarde. La legge votata dalla Camera di Torino accettava il voto di quelle provincie, che dovesero, cioè, formare cogli Stati sardi un solo regno, il regno dell’alta Italia, e stabiliva che si convocasse col suffragio universale una comune assemblea costituente, la quale stabilisse le basi e la forma di una nuova monarchia costituzionale, con la dinastia di Savoia. In questo momento storico ebbe a pubblicare questi dodici articoli il Rosmini; il quale quindi si propose di preparare le menti e gli uomini a concepire e a stabilire una costituzione tale che garantisse tutti i diritti dei sudditi, che impedisse qualunque ingiustizia, sia da parte della stessa società civile, sia da par te del governo, sia da quella della forma del governo, sia infine dall’arbitrio dei magistrati. Nobilissimo intento, che il Rosmini si riprometteva che in Italia si sarebbe potuto conseguire, qualora si fossero gli italiani astenuti dal copiare le costituzioni varie, tutte frutto dell’astrazione, chè si diede la Francia dalla grande rivoluzione in poi.

Il Rosmini, che allora contava 51 anni ed era celebre già come filosofo di alta speculazione, si era occupato anche di politica in altri lavori, nei quali, come in questi articoli, brilla la profondità dell’osservatore, il senno dell’uomo, il grande suo amore per la patria italiana, per la Chiesa. Anche da questi articoli di giornale del grand’uomo c’è ancora da imparare e quanto!

P. Zambruni.

Significante questa pubblicazione rosminiana coll'Imprimatur del Maestro dei Sacri Palazzi, e importante il fatto di un’adunanza imponente di maestri nell’aula accademica del Collegio Rosmini in Domodossola per discutere intorno alla recente legge redatta da S. E. l’on. Credaro.

Personaggio d’occasione fu l’on. Meda, già direttore dell’Osservatore Cattolico ed ora direttore dell’Unione e deputato al Parlamento Nazionale.

Sul palco presero posto il cav. Bertina, benemerito presidente della sezione vigezzina (il quale rappresentava anche il presidente onorario cav. Biraghi Lossetti sindaco di Vogogna), il delegato della presidenza centrale, consigliere Vaccarino, il maestro Gabetta di Pavia, il sottoprefetto cav. Ruffini e l’on. Meda.

L’on. Falcioni, deputato del collegio, invitato, mandò una cortese lettera per spiegare la sua assenza.

Il maestro Gabetta fece un’ampia illustrazione della legge Credaro, segnando la via pratica per trarne il maggiore profitto, e indicandone i difetti e le manchevolezze; indi, dopo un saluto del maestro Baroli, presidente della sezione di Novara, ebbe la parola, accolto da vivi applausi, l’on. Meda, il quale trattò l’arduo problema da par suo.

Dall’Unione togliamo l’ultima parte dello splendido discorso dell’on. deputato cattolico:

«Ed eccoci al terzo lato del problema scolastico, il problema morale. Qui l’oratore non si diffonderà molto: parlando a maestri cristiani, egli sa quanto in essi sia vivo il senso della loro dignità, sa com’essi, qualunque sia l’ordinamento amministrativo, qualunque sia la cassa che paga i loro stipendi, non si considerino dei semplici funzionari, ma dei veri e propri missionari; infatti non è esagerazione il dire che dall’indirizzo della scuola primaria dipendono per buona parte le sorti del paese. Il principio al quale si connette la missione del maestro è uno solo: la scuola deve istruire, ma insieme, e prima anzi, educare; ed educare non si può senza un solido fondamento, e tale fondamento non può per noi essere se non la religione, intesa come somma delle dottrine e delle discipline che assegnano all’uomo un fine trascendente i confini della vita mortale.

«L’on. Meda, svolgendo rapidamente questo spunto, nota come la questione non si raccolga solo nella esistenza di un vero e proprio insegnamento catechistico; [p. 214 modifica]ma come essa involga tutto l’indirizzo dell’insegnamento; e come quindi per questo lato la scuola sia nelle mani del maestro, a cui incombe una terribile responsabilità che esso deve sentire profonda se vuol essere all’altezza del suo ufficio.

«L’oratore conclude con un pensiero alla patria, celebrante quest’anno il cinquantenario della sua costituzione unitaria: miglior celebrazione non può farsi dell’avvenimento che ravvivando il proposito di dare alla Italia degli italiani capaci di conservarla e di onorarla, nel culto di ogni più elevata idealità, nell’unione della fede con la educazione civile: egli pensa che l’Italia sarà grande e forte il giorno in cui in ognuna delle sue mille terre, un vincolo di collaborazione intima, cordiale, unirà la casa del comune alla scuola, la scuola alla chiesa: sicchè esse formino un tutto inscindibile, una unità sociale che rispecchi in sè l’unità della coscienza umana. Ed è lieto che la riunione odierna consenta di associare nel ricordo due nomi illustri nella storia del pensiero civile e religioso: Nicolò Tommaseo ed Antonio Rosmini, un laico ed un religioso, un poeta ed un filoiofo; ma l’uno e l’altro educatori: l’uno e l’altro cristiani nel fondo della loro anima, nella pratica della loro vita, l’uno e l’altro ben degni di essere invocati a vigilare come angeli tutelari sulle sorti della scuola italiana».

Una lunga ovazione salutò la fine del discorso.

La Principessa CLOTILDE

La chiamavano tutti la Santa di Moncalieri, perchè da quel Castello — dopo una vita trascorsa all’ombra di due troni, dopo una iliade d’inenarrabili dolori — da molti anni Ella non usciva e viveva in santo ritiro, esercitando un’illuminata carità.

L’eroina che subiva un martirio per amore alla famiglia e alla patria; l’eroina che minacciata da terribili rivoluzionari, dichiarava di non conoscere la paura, era divenuta la Santa, la fata benefica di Moncalieri, dove è spirata serenamente, rimpianta da tutti senza distinzione.

Della fede ardente, dell’affetto vivissimo di Maria Clotilde alla famiglia ed al paese, della sua umiltà somma, è documento commovente la supplica «a Maria Santissima della Consolata» inclusa nel cuore d’argento da lei offerto nel cinquantenario (1879) dell’incoronazione di quella veneratissima effige. La principessa invoca la benedizione della Madre consolatrice sul sommo Pontefice Leone XIII, sulla Chiesa perchè ne sia accelerato il trionfo e su Torino. «Torino sia Vostra e sempre Vostra; io ve la dono essendo anche mia, poichè essa è la mia patria». E prosegue: a A voi confido, come alla migliore delle Madri, i ragazzi miei, Vittorio, Luigi e Maria Laetitia; custoditeli come vostri in terra, affinchè vostri pure e di Gesù sieno in Paradiso. Vi raccomando Napoleone, Umberto, Amedeo, Maria Pia, Margherita, Luigi ed i loro ragazzi, tutte le persone delle mie famiglie, come se ve le raccomandassi una per una. Vi raccomando ancora tutte le persone che mi hanno chiesto di pregare per loro, tutte quelle che mi sono state raccomandate.... Vi chieggo quanto vi chiesi nel giorno della vostra festa, Maria Madre mia; vi chieggo per me, la più povera, l’ultima delle vostre figliuole, un amore sempre più grande pel vostro Gesù, la fedeltà a tutte le mie promesse, il favore di essere sempre vostra. Oh! Maria, pregate per noi! per il nostro paese, salvatelo, ottenete misericordia a tutti al mondo che va perdendosi, ai poveri peccatori e alle anime del purgatorio...».

La donna che ha accenti di pietà così fervidi, che geme come una colomba ferita, il 4 settembre del 1870 mentre nelle Tuileries minacciate da una folla furibonda tutti perdevano la testa, cortigiani e generali — gli eroi di quelle feste magnifiche che ad Alfredo di Musset facevan dire una notte scendendo lo scalone della reggia napoleonica: «sì, tutto ciò è bello, assai bello, ma non darei due soldi per l’ultimo atto» — la principessa Maria Clotilde quel giorno, supplicata dal generale Trochu (poi comandante generale della difesa di Parigi) «di allontanarsi immediatamente con i suoi figli mentre era ancora in tempo, con una calma incredibile dichiarava non esservi premura alcuna e non volere che la sua partenza avesse neppure l’apparenza d’una fuga». È storica la fiera risposta al consiglio di rialzare i cristalli della carrozza per non essere riconosciuta dai tumultuanti: «Una figlia di casa Savoia non conosce la paura». Il Trochu, ammirato di «quel coraggio tranquillo che è inspirato soltanto da solida e profonda pietà» scrive: «Di fronte agli esaltati di patriottismo, agli energumeni della politica, agli impauriti ed ai pusilli che in vario senso si agitavano, la principessa Clotilde mi apparve quale un angelo di virtù, di coraggio, di onore».

PAGLIUZZE D'ORO


Gli uomini si devono prendere come sono. Voi non potete nè raddrizzare i loro nasi, nè abbellire il loro spirito, nè mutare le loro abitudini: e son questi gli uomini in mezzo a cui la vostra vita trascorre, son questi che dovete apprendere a tollerare, compassionare ed amare; son questi gli uomini, più o meno stupidi e brutti, di cui dovete ammirare i movimenti di bontà, pei quali dovete nutrire ogni possibile speranza, esercitare ogni possibile pazienza.


L’oceano è profondo ed immenso; entro le sue acque vivono e si moltiplicano piante ed animali: posano roccie e diamanti, si nascondono drammi inenarrabili: più grande dell’oceano è il cielo, che accoglie infiniti mondi contenitori di oceani; più grande del cielo è il pensiero o l’anima dell’uomo che attraversa etere ed acqua, penetra la materia, scopre le leggi della natura ed il visibile e l’invisibile abbraccia: ma più grande di ogni cosa è l’Essere primo che l’Universo e l’anima ha creato.


Nessuno può scegliersi il Getsemani; bisogna accettarlo come lo si trova: nel clangore delle trombe che lo racconteranno eternemente, o nel profondo mistero che nessun occhio potrà scrutare.

E. Spielhagen.