Il buon cuore - Anno IX, n. 44 - 29 ottobre 1910/Educazione ed Istruzione
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Educazione ed Istruzione
Milano e il centenario di Fr. Maria Piave
RICORDI MILANESI
Cento anni or sono nasceva Francesco Maria Piave. Sparve dai fremiti possenti della vita milanese e finì pietosamente. Verdi gli fu largo d’aiuto nell’ora della sventura e volle provvedere alla gentile figliuola del librettista insigne che rivesti di versi le sue creazioni vincitrici del tempo, poi scese l’oblio sopra il poeta, come scende la sera sopra tutte le cose.
F. M. Piave doveva rivivere, lui che aveva brillato alla luce della gloria di Verdi. E’ pur giunta l’ora della resurrezione delle memorie. Diciamo di lui nel vecchio foglio lombardo ch’egli prediligeva.
Piave arrivò a Milano ai tempi della prima scapigliatura. Non era quella del cenacolo di Rovani e di Grandi, di Cremona e di Arrighi, di Isabella Galletti encantadora e del teatro milanese nella vecchia casa Travisanti al corso. Quando l’Italia parve tutta un maggio, Francesco Piave era alle soglie del capo tempestoso dei quarant’anni. E coi primi capelli bianchi svanivano via lontano lontano certe illusioni decennali di tentativi teatrali.
Milano, la città dei sogni canori e delle visioni abbaglianti dell’arte era ancora tutta vibrante di idealità. I teatri non erano avvinti da sindacati, Filippo Filippi non aveva ancora potuto rivelarsi dal tripode della critica grave che Rovani guatava dalle soglie dell’Hagy e Rovani ancora non aveva lanciato dalla Gazzetta di Milano i fulgori di una mente che ottenebrossi alle soglie della gloria.
Attorno al covert di Figin si addensava la vita della vecchia Milano e lungo la Corsia dei Servi i dragoni di Francesco Imperatore trascinavano le durlindane che avevano scintillato a Waterloo.
Piave era un poeta. Favoleggiarono alcuni che Verdi, alle soglie della vittoria, ma agitato, tra le febbri del genio, dalla incertezza del domani, scoprisse il suo poeta in una latteria ch’era a quei tempi in San Celso sul principio della oscura via della Maddalena, quasi famelico. A quei tempi, trovo in vecchi ricordi, il Piave dimorava in via delle Cornacchie, una viuzza della vecchia città interna di fama triste un tempo più che ora. Passò poi in piazzetta di S. Nazzaro sul corso di porta Romana.
Comunque, fu Verdi che scoprì il Piave. Non è vero che il librettista fermava una sera il maestro che rincasava offrendogli timidamente un fascicolo, il libretto della grande opera Rigoletto.
Rovani inteso all’esaltazione di Rossini, diceva di sentire il selvaticume nella musica verdiana. Per lui Piave era lo schiavo letterario. La frase... fece fortuna per i critici del Piave e fu ripetuta a suo danno.
Piave era venuto a Milano dalla laguna. Era nato a Murano e portava negli occhi i riflessi dei meriggi di Tiepolo e nell’anima... l’anima di Venezia morente alla libertà dogale. Piacevasi di chiamarsi un apolitico. Ma il poeta sentiva tutta la poesia della patria. Era un uomo buono e mite, un cuore dolcissimo. Tollerava gli scatti di Verdi come un docile allievo i furori di un maestro.
El maestro vol cussì! questa sua frase fece il giro delle storie di teatro. Il trionfo della melodia verdiana; ecco tutto il credo del poeta. Ernani, Rigoletto, Traviata, fra altri, uscivano dalla sua penna mite e fecero piangere e fremere milioni di uomini nella gloria dell’arte. La sua sincerità era amore.
Dei suoi libretti diceva essere quello della Traviata il migliore. Piacevasi di quei versi dove aleggia tanta delicatezza di sentire. Un grande tenore, il più grande forse dei tenori che vide Milano, Giuliano Gayarre, diceva che i versi di Traviata gli dicevano la poesia d’Italia.
In una delle ultime lettere di Verdi, diretta al D’Ennery, che aveva proposto al maestro un libretto per musica, Verdi scriveva: “col più bel poema del mondo, se non mi capacita, io sono incapace di fare. Datemi invece un libretto pieno di difetti, come il Rigoletto, l’Aida, Un ballo in maschera, ma che io lo senta ed allora riuscirò sempre a qualche cosa„. Vi fu chi volle allora riuscirò sempre a qualche cosa paragonare Piave a Romani. Vi fu chi osò di più e si domandò tra Solera e Piave chi fosse migliore! Follie. Temistocle Solera, l’uomo dal nome greco aveva lanciato il va pensiero ai numi propiziatori della redenzione italiana ed erano fremiti di popolo e arrotare di spade e spiriti compressi fra le attese di una lotta suprema che erompevano alle note fatidiche. Piave aveva cantato la bellezza, l’amore, la morte per l’amore e l’amore per la morte e la pietà e la gloria. Dopo la prima rappresentazioni del Macbeth che avvenne in Firenze nel 1847, Londra applaudì i Masnadieri. Rappresentavasi a Milano Macbeth e in un palchetto della Scala stavano Piave con Paolo Ferrari e Leone Fortis che tempestavano il librettista di strali. Alla scena dell’apparizione dei re quando Macbeth esclama: un terzo? un quarto? un quinto? i due critici andavano ad alta voce contando fino al tredicesimo! Tasè, cani! urla il Piave... che xe Verdi! Lo narra il Pascolato.
Verdi si era guastato col Solera. Nel Piave aveva trovato il suo poeta. Cammarano, poi Ghislanzoni, poi lo stesso Boito, per certi rapporti, furono docili col maestro. Piave fu docilissimo. Sceneggiava con Verdi tratto a tratto il soggetto, poi ne tracciava le strofe, i cori, i duetti; gettava giù anche in prosa, alla rinfusa, correva a casa, scriveva. Recavasi talvolta al mattino in un piccolo caffè di via Monte Napoleone dove è oggi, e dove anche allora credo vi fosse, una cioccolatteria, un tempo cenacolo di alcuni bohemiens della seconda scapigliatura. Più d’una strofa dei libretti verdiani fu scritta sopra un piccolo tavolino là dentro. Sosteneva con molta filosofia gli strali frequenti ed acerbi dei critici numerosi. Mi ghe do di bott! aveva detto Rovani in una delle sue clamorose espansioni, che andavano rarefacendosi, alla Noce giù a porta Ticinese. E Piave a ridere.
Visse, fremette, si esaltò e fu esaltato alla gloria di Verdi. Quando il maestro consentiva a venire al proscenio e mille mani si alzavano a lui e le grida di evviva salivano al cielo in mezzo a fasci di luce e la redenzione prima della patria, poi dell’arte italiana si affrettavano col fervore dei voti augurali, il Piave aveva le compiacenze di un padre o di una madre che vedano celebrare un figlio caro.
Il poeta piegò ad un fierissimo morbo.
La mente gli si andò ottenebrando. Scese ad uno ad uno tutti i gradini della decadenza dello spirito.
Vide e sentì la vita al di là di una nebbia e morì nel marzo del settantasei quando Verdi era all’apogeo della gloria e lasciò il mite retaggio di una grande bontà.
G. Nino Bazetta.
A compimento di questo articolo, togliamo da un lavoro di A. M. Cornelio intorno alla grande figura del Verdi questo brano:
«Un’opera nuova di Verdi, dopo i trionfi del Nabucco e dei Lombardi, la ottenne il teatro della Fenice di Venezia, il 9 marzo 1844. Il libretto era dovuto al poeta Piave, un vero figlio della Laguna, che, d’allora in poi, divenne il verseggiatore di Giuseppe Verdi. Argomento l’Hernani di Vittor Hugo. L’esito fu trionfale a Venezia come in altre città d’Italia.
«Giuseppe Verdi pensò subito ad altra opera, ai Due Foscari, e s’intese col Piave, che trattava confidenzialmente e strapazzava anche, perchè difficilmente riusciva ad accontentarlo nell’imbastitura del dramma. Una prova evidente e interessante di questo fatto, l’abbiamo nella seguente lettera di Verdi:
«Milano, 22 maggio 1844.
- «Carissimo Piave (a Venezia).
«Ho già mandato a Roma la Selva e spero che l'approveranno. Nonostante, tu, per ora, puoi sospendere il lavoro, perchè io ho da fare abbastanza. Pensaci bene e procura di proseguire come hai cominciato. Tutto finora va egregiamente, meno una piccola cosa: osservo che non si parla finora del delitto per cui Foscari vien condannato: parrai che bisogna accennarlo.
«Nella cavatina del tenore vi sono due cose che non van bene: la prima è che, finita la cavatina, Jacopo resta ancora in scena, e questo è sempre male per l’effetto; seconda è che non c’è distacco di pensiero dall’adagio a quello della cabaletta. Queste son cose che andran bene in poesia, ma in musica malissimo. Fa pure, dopo l’adagio, un piccolissimo dialogo tra il a fante e Jacopo, poi un ufficiale che dica: — Guidate a il prigioniero; poscia una cabaletta, ma che sia di forza, perchè scriviamo per Roma; d’altronde quel carattere di Foscari, ti ripeto, bisogna renderlo più energico. La cavatina della donna va benissimo. Credo che ora farai un brevissimo recitativo, poi un a solo del Doge ed un gran duetto. Sia assai breve questo duetto, perchè è finale. Mettiti in gran sentimento e fa della bella poesia. Nel secondo atto, fa la romanza di Jacopo, e non dimenticare il duetto con Marina, poi il gran terzetto; indi il corpo e il finale. Nel terz’atto fa pure come siamo intesi e cerca d’innestarvi il canto del gondoliere frammisto ad un coro di popolo. Non si potrebbe combinare che questo succedesse verso sera, e fare così anche un tramonto di sole che è così bello?
«Accetta pure di scrivere per Pacini; ma cerca di non fare il Lorenzino, perchè questo lo faremo insieme un’altra volta. Se però non potessi a meno, fa pure anche il Lorenzino e fa il tuo interesse.
«Sono stato scritturato da.... per scrivere a Venezia nel carnevale 45-46, ecc., ecc....
«tuo aff.mo
«G. Verdi.»
«I due Foscari andarono in scena all’Argentina di Roma la sera del 9 novembre 1844, e, nella città eterna, come in altre d’Italia, ebbero un successo pieno e veramente popolare».
AMOR VERO
RACCONTO
(Continuazione, vedi numero 43)
— Rodolfo, diss’ella finalmente, coraggio! Tu lo vedi, Dio mi chiama a sè; convien rassegnarsi.
— Ah! non è possibile! mormorava Rodolfo. Clotilde, per pietà, lasciami una speranza.
— Sento pur troppo che la vita se ne va, ripigliò la fanciulla. Verrai a vedermi un po’ tutti i giorni, n’è vero, Rodolfo? Le tue visite mi faranno bene. Siedi.
Rodolfo s’assise. Clotilde voleva prepararlo alla rassegnazione, Rodolfo riluttava. Sopravvenne il medico. Il giovine si ritirò, ma non volle allontanarsi, che troppo gli premeva udire il vero dalle labbra di colui, al cui sapere era commessa una sì cara vita. Era costui un vecchio burbero e franco, nemico dei riguardi e dei mezzi termini. Tostochè lo vide uscire, Rodolfo corse a lui supplichevole, e n’ebbe, che il male della fanciulla era di data più antica di quel che pareva; che il suo era un temperamento guasto, un organismo logoro, sul quale i rimedi non potevano ornai più; ch’ella poteva soccombere l’indomani, ovvero trascinarsi fino all’autunno, ma che quanto al guarire non era più da discorrerne. Rodolfo, udita in silenzio la sua sentenza, riprese il cammino di casa sua col capo basso e nel cuore la morte. Salì a stento le scale, e gittatosi abbandonatamente sulla prima seggiola che si trovò fra’ piedi, si lasciò in preda ai più tetri pensieri. Stringevasi colle palme la fronte che pareva volergli scoppiare; sospirava, urlava, piangeva, usciva tratto tratto in grida di furor disperato. Assorto nella piena del suo tempestoso dolore, non udì nè il bussare che fu fatto all’uscio socchiuso, nè una voce di donna che disse:
— Signor Rodolfo, buon dì, oggi è il giorno dei poveri. E l’uscio s’aprì, e un volto gentile, sorridente, sereno, si mostrò adombrato dalle bianche ali del cappello delle figlie della carità.
— Entri, sorella, disse Rodolfo quando l’ebbe raffigurata; entri ma chiuda la porta, non vo’ vedere nessuno.
La suora entrò e gli si fece dappresso.
Taluni, che spesso s’inchieggono maravigliati, donde mai la carità vada a scovare i tesori che profonde nel seno dell’indigenza, dovrebbero domandarne quelle mirabili ancelle di Cristo, che s’incaricano di raccogliere le bricciole cadute dalle mense de’ ricchi. Stanno, le pie mendicanti, quasi in agguato, spiando il momento per cogliere il signor scioperato, la dama distratta, gli umiliati dalla sventura, gli egoisti, i fortunati. E a una loro parola le mani di questi indifferenti lasciano cader l’obolo, ond’esse poi vestono gli orfanelli, cibano gli affamati.
Così adoperava Suor Marta. Allorchè trovavasi come soverchiata dalla inondante miseria, si faceva mendica in nome di Gesù, e gli ufficiali di marina che la conoscevano e la rispettavano, non erano dei meno generosi fra suoi benefattori: — Pregherò il Signore che ve la renda — diceva loro con quella sua voce soave; e anche a’ meno religiosi quel pio ringraziare tornava gradito. Rodolfo era una delle sue migliori pratiche, com’ella le soleva chiamare; non passava mese senza che ella gli tendesse la mano e l’uffiziale la rallegrasse d’una generosa limosina.
Quel dì, trovatolo così triste ed abbattuto, la sorridente cercatrice fe’ subito luogo alla pietosa figlia della carità: gli si fe’ presso, e con accento di tutta dolcezza gli disse:
— Lei soffre, figliuol mio!
Questa parola era piena di tanta materna pietà, che Rodolfo, il quale aveva gran bisogno di sfogo, si lasciò andare a narrarle la sventura che stava per piombargli addosso e dissipare per sempre i bei sogni della sua vita avvenire.
Suor Marta stette ad ascoltarlo con grande attenzione, in atto di somma pietà. — E non c’è proprio speranza? domandò ansiosa, quando l’altro ebbe finito.
— Il medico ha detto di no.
— Oh! sì, i medici! E non sa ella dunque, povero giovane, che vi ha un medico lassù assai più savio, un medico che sovente guarisce anco i disperati e gli incurabili?
Rodolfo la guardò in viso, e lasciandosi cadere fra le mani la faccia.
— Ah! Se Dio me la volesse lasciare! sclamò.
— Ebbene, che farebbe ella?
— Che farei, sorella? c’è egli bisogno di dirvelo?
— Ecco come siete fatti voi altri. Buoni figliuoli, ma cattivi cristiani, ingrate creature. Bisogna che Dio ve le suoni a modo perchè pensiate a lui. Oh! mi creda, signore, incominci a volgersi a Colui che tutto può; faccia quel che farebbe se le promettesse la guarigione della sua fidanzata.
Rodolfo tacque alcuni istanti pensoso; poi disse:
— Sorella, sull’onor mio, lo farò.
— Sta bene; e io vo subito difilato a mettere in orazione le mie sorelle e i miei orfani; vogliamo proprio far forza al cielo. Frattanto, giacchè non si deve trascurare i mezzi umani, passo dal dottor Gradi; lo conosce lei?
— Soltanto di nome. Credeva che fosse partito.
— Parte domani; ed io vedo in questo indugio un primo pegno che ci dà la Provvidenza del suo favore. Il dottor Gradi è un medico distintissimo, che ha studiato specialmente le malattie di fegato, e fece già delle cure maravigliose. Cred’ella che l’inferma lo riceverà?
— A una mia parola, non ne dubito punto.
— Sta bene. Ella vada dunque a disporla, che io non tarderò molto a trovarmi in casa Delrio col medico.
— Sì, vo; ma non tardi molto, sorella; pensi su che croce ella mi lascia.
Non passò un’ora, e il dottor Gradi, accompagnato dalla Suora, entrava nella camera di Clotilde, mentre Rodolfo, inginocchiato in un angolo del salottino, dove aveva avuto il primo abboccamento colla Delrio, pregava come non aveva pregato mai in tutta la sua vita. Dopo una mezz’ora, che a lui parve un secolo, s’aperse l’uscio, ed egli, rizzatosi in piedi, si trovò a mani giunte innanzi al dottore. II dottore Gradi era un uomo nel fiore della virilità, dalla fronte ampia, dallo sguardo intelligente, dalla parola concisa e sicura.
— Signore, diss’egli indirizzandosi a Rodolfo, l’inferma sta male, male assai, ma il suo male non è punto incurabile; se può prendere le acque di Vichy, ella è salva.
E troncando un’esclamazione di giubilo che stava per iscoppiare sulle labbra del giovane:
— Ma, non glielo nascondo, il difficile sarà trasportarvela. Il giudizio dato dal medico curante non mi stupisce; su quel letto essa si muore di sfinimento. Ho scritto un’ordinazione che bisogna eseguire a tutto rigore; si tratta di rianimare un cadavere. Le angosce morali, donde ebbe origine il male, si vuol cessarle all’intutto, togliendone subito la cagione. E, tostochè ne sia capace, si tolga la poveretta dal letto sul quale
agonizza, si trasporti in giardino, e quando le forze il consentono, a Vichy. A Vichy guarirà, non altrove.
Ciò detto, senza dar tempo a ringraziamenti, strinse la mano a Rodolfo, salutò Suor Maria ed uscì.
— Oh! Sorella, la salveremo dunque!
— Lo spero. Anch’essa, la povera figliuola, non domanda se non di vivere. Se avesse veduto che occhiata mi diede quando il medico le disse: che c’entra il morire? si tratta di guarire adesso. E se ella crede alla propria guarigione, è già una gran cosa, mi ha detto il dottore.
(Continua).