Novella CXLV

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CXLIV CXLVI

Facendosi cavaliere messer Lando da Gobbio in Firenze per essere Podestà, messer Dolcibene schernisce la sua miseria, e poi nella sua corte essendo mossa questione a messer Dolcibene, con nuova astuzia e con le peta vince la questione.

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A Firenze venne, non è gran tempo, uno podestà, il quale, prima che entrasse nell’oficio, si fece cavaliere di populo; il quale ebbe nome messer Lando o messer Landuccio da Gobbio; e fu sí magnanimo che la corazza e la barbuta, con che fu fatto cavaliere, fu data, com’è d’usanza, a messer Dolcibene, ché cosí è d’usanza donarla a un uomo di corte; il quale, vendendo le dette armadure, n’ebbe in tutto soldi quarantadue, sí che messer Dolcibene poté fare assai larghe spese. È vero che fu ristorato da ivi a poco tempo, mangiando col podestà un dí di quaresima, col cavolo e con la tonnina. Al quale messer Dolcibene, essendo sussequenti a lui a tavola li due collaterali, veggendo loro porre innanzi tanta tonnina che non arebbe scoccata la trappola, si volge a loro e dice:
- Messer li collaterali, mettetevi gli occhiali che vi parrà due cotanti.
O non intesono il motto, o fecion vista di non intenderlo. Ora, avendo questo messer Dolcibene un poco contezza nella detta corte, e avendo in casa una sua nipote, fanciulla bellissima e pulcella; essendo il detto, come li piú delli suoi pari sono, tenuto anzi scellerato che no; i parenti della fanciulla da lato di madre, non potendola avere tratta di casa messer Dolcibene, mossongli piato alla corte del podestà dinanzi a uno judice, che parea il piú nuovo squasimodeo che si vedesse mai. Egli avea una foggia alta presso a una spanna, con uno gattafodero che parea una pelle d’orsa, tanto era morbido, e avea uno collaretto a un suo guarnaccione, o vero collaraccio che era sí largo e spadato che averebbe tenuto due staia alla larga, e avea uno occhio piccolo e uno grande, piú in su l’uno che l’altro; e uno naso che parea una carota; ed era da Rieti. Richiesto messer Dolcibene, andò a uno procuratore molto suo domestico e piacevole uomo, che avea nome ser Domenico di ser Guido Pucci, e comparendo là messer Dolcibene, e togliendo libello e dando libello, una mattina fra l’altre, essendovi molta gente, udendo il giudice l’una parte e l’altra, e messer Dolcibene dicendo che la fanciulla appartenea piú a lui che a loro, e
- Messer Dolcibene, nos volumus conservare virginitatem suam .
Dice messer Dolcibene:
- Faciatis facere unam bertescam super culum suum .
Il judice guata messer Dolcibene e dice:
- Che parole son queste? favellaci onesto nella mal’ora.
E come dice questo, ser Domenico tira un peto che stordí il judice con tutti quelli che erano al banco; dicendo il giudice e guatando or l’uno or l’altro, dice:
- Per le budella di Dio! se posso sapere chi buffa a questo modo, io lo farò savía buffare per altro verso.
E tornato su la questione, e ser Domenico dicendo:
- Noi vogliamo la copia della petizione, - e tirare un altro peto fu tutt’uno.
Il giudice che era a sedere, levasi e guata i visi dattorno e dice:
- E’ pur di quella vena nella mal’ora! ché, se ci posso vedere chi cosí fa scherne al banco, io gli faraggio cosa che gli potrà putire, che mi ci pare essere venuto nella corte degli asini.
Dice messer Dolcibene:
- Messer lo giudice, e’ sono questi che m’hanno mosso questione, quelli che vi suonano queste trombe; voi farete bene a punirli.
Dice ser Domenico:
- Egli è gran villania, e poco onore a chi fa sí brutte cose dinanzi a tanto uomo quanto è questo giudice.
Il giudice, udendo questo, comanda a due di quelli che vadano su. Quelli si scusano che quelle cose non hanno fatto. Onde chiama la famiglia e fagli menar su; e levatosi dal banco, dinanzi al Podestà disse quello che coloro aveano fatto. Egli si scusavano: alla per fine il Podestà disse che desse loro un poco di colla la sera, sí che apparassino di spetezzare al banco. E cosí fece loro il giudice; ed eglino diceano:
- Doh, messere, trovate il vero, ché noi non fummo noi.
Dicea il giudice.
- Come non ci foste voi nella mal’ora? onde credete che io sia? avetemi sí per orbo che io non veggia lume? io ci fo come la lepre che dorme con gli occhi aperti.
E voltosi a quelli che aveano la fune in mano, dice:
- Tirate su -; e ’l tirare e ’l gridare su la colla fu tutt’uno.
E ’l Podestà, udendo il lamento, mandò a dire al giudice non gli collasse piú, ché, se ci aveano col fiato di sotto offeso, che con quello di sopra erano bene stati puniti. E ’l giudice gli lasciò, dicendo loro che simil cosa mai non facessino, però che non troverebbono un podestà cosí benivolo. E quelli dolendosi, dissono:
- Noi vi ringraziamo che voi non ci avete morti affatto, ma noi vi raffermiamo veramente che noi non facemmo quelle cose dinanzi al banco vostro, e non siamo uomeni da ciò; ma tale v’ha detto che quello facemmo noi, che elli l’ha fatto elli; èssi vendicato di noi a questo modo; faccia come li piace e tengasi la nipote nostra come vuole, ché noi non ci torneremo piú.
E ’l giudice, minacciando per le parole che diceano, essendo licenziati, se n’andorono a casa. Messer Dolcibene l’altra mattina col suo procuratore furono al banco e niuno di costoro vi comparí. Veggendo messer Dolcibene questo comincia a pigliare del campo ché ben sapea quello che a coloro era intervenuto e dice:
- Guardate ben, messer lo giudice, questi cattivi uomeni che istamane non ce n’è alcuno, e iermattina credeano vincere la questione con le peta; e’ sono di mala condizione; e voleano questa fanciulla a mal fine.
Dice ser Domenico:
- Messer lo giudice, istamane pare il banco vostro una cosa riposata, come vuole la ragione, ma iermattina ci si udiano truoni e bombarde; ora potete comprendere che uomeni sieno coloro che hanno la questione con messer Dolcibene, che veramente e’ sono di quelli che non si vorrebbono udire.
Dice il giudice:
- Ego dedi bene eis disciplinam ; ma, se non fossi il meo Podestà, peggio ci facea a issi.
Levato il banco, messer Dolcibene e ser Domenico disse al giudice che qualunch’ora quelli ladroncelli venissono a dire piú nulla, mandassi per loro, che eglino verrebbono con cose di grande onore della corte e vituperio di loro; e cosí si partirono e vinsono la questione; e quelli che aveano la ragione e domandavono le cose oneste, furono tormentati e perderono la questione.
O quanti rettori, se non sono ben cauti, e chi con malizia, e chi sanza malizia, dannano li innocenti, e assolvono li nocenti, e se mai fu, al tempo ch’è oggi si manifesta. Chi a uno fine e chi a un altro dànno iudicio, e Dio il sa come; ché nelle corte si fa sí fatta ragione che guai a chi s’induce in esse con alcuna questione.