Il Trecentonovelle/CLXVI
Questo testo è completo. |
◄ | CLXV | CLXVII | ► |
Alessandro di ser Lamberto, con nuovo artificio fa cavare un dente a un suo amico dal Ciarpa, fabbro in Pian di Mugnone.
Poiché le menti de’ mortali sono cosí disposte e non vogliono adoperare le virtú per addirizzare quelle, seguirò ora di dire d’alcune pestilenze corporali, venute in corpi di picciolo affare, che da nuove maniere di medici sono state sanate. Fu, e ancora è, per li tempi nella città di Firenze uno piacevole cittadino, chiamato Alessandro di ser Lamberto il quale fu e sonatore di molti stormenti e cantatore: e con questo avea per le mani molti nuovi uomeni, però che con loro volentieri pigliava dimestichezza. Vennegli per caso che un suo amico, rammaricandosi molto che un dente gli dolea, e spesso spesso il conducea a tanta pena che era per disperarsi; al quale, considerato Alessandro un nuovo pesce, fabbro di Pian di Mugnone, chiamato Ciarpa, disse:
- Ché non te lo fai tu cavare?
E quelli rispose:
- Io lo farei volentieri, ma io ho troppo gran paura de’ ferri.
Disse Alessandro:
- Io t’avvierò a un mio amico e vicino di contado, che, non che ti tocchi con ferro, e’ non ti toccherà con mano.
Rispose costui:
- O Alessandro mio, io te ne prego; se lo fai, io serò sempre tuo fedele.
Alessandro disse:
- Vientene domani a starti meco e andremo a lui, però ch’egli è un fabbro di Pian di Mugnone, chiamato Ciarpa.
E cosí fu fatto; ché l’altra mattina, giunti l’uno e l’altro al luogo d’Alessandro, subito se n’andorono al detto Ciarpa, il quale trovorono alla fabbrica che fabbricava un vomere. Giunti costoro a lui, Alessandro che col Ciarpa sapea ben ciarpare, cominciò a dire del difetto del dente del compagno suo, e com’egli si dimenava e che volentieri se lo volea cavare; ma che egli non volea gli fosse tocco con ferri, né con mano, se possibil fosse.
Disse il Ciarpa:
- Lasciamelo vedere -; e toccandolo con mano, quelli diede un grande strido.
Sentí che si dimenava; onde disse:
- Lascia far me, ché io tel caverò e non vi metterò né ferro né mano.
Quelli rispose:
- Deh, sí per Dio.
Il Ciarpa, sanza partirsi dalla fabbrica, manda un suo garzone per uno spaghetto incerato con che si cuciono le scarpette; e venuto che fu, disse a costui:
- Addoppia quello spaghetto e fa’ nel capo tu stessi un nodo scorritoio e mettivi pianamente il dente dentro.
Costui di gran pena cosí fece. Fatto questo, disse:
- Dammi l’altro capo in mano -; e aúto che l’ebbe in mano, il legò a uno aguto che era nel ceppo della fabbrica, e disse a colui: - Serra sí il cappio che tenga il dente -; e colui il serroe.
Fatto questo, dice il Ciarpa:
- Or statti pianamente, ché io ho a dire alcuna orazione, e subito il dente uscirà fuori -; e menava la bocca come se la dicesse, e niente meno avea il bomere nel fuoco; e colto che ebbe il tempo che lo vidde ben rovente, cava fuori questo bomere e difilalo verso colui con un viso di Satanasso, dicendo: - Che dente e che non dente? apri la bocca -; mostrando di volerglilo ficcare nel viso.
Colui che avea il dente nel cappio, mosso da maggior paura, subito si tira a drieto per fuggire, in forma che il dente rimase appiccato al ceppo dell’ancudine. Rimaso colui quasi smemorato, si cercava se avea il dente in bocca, e non trovandoselo, dicea per certo che mai sí bella e sí nuova sperienza non avea veduto e che niuna pena avea aúta, se non della paura di quel bomere, e che non se l’avea sentito uscire. Alessandro ridea, e volgesi all’amico, dicendo:
- Averesti mai creduto che costui fosse sí buono cavatore di denti?
L’amico appena era ancora in sé, che cominciò a dire:
- Io avea paura d’un paio di tanaglie, e costui me l’ha tratto con un bomere; sia come vuole, ch’io sono fuori d’una gran pena.
E per rimunerare il fabbro, la domenica vegnente gli diede un buon desinare e Alessandro con loro.
Questa fu nuova e bella esperienza, ché con una grandissima paura fece, non che dimenticare la minore paura, ma eziandio non si ricordò di quella, e non sentendo alcuna pena, si trovò guarito. Gnuna cosa fa trottare quanto la paura; e io scrittore già vidi prova d’uno gottoso che piú tempo era stato che mai non era ito, ma portato fu sempre: stando costui a sedere in mezzo d’una via su una carriuola, correndo un suo corsiere che gli venía a ferire addosso, essendo perduto de’ piedi e delle mani e in tutto di gotte attratto, subito con le mani prese la carriuola e con parecchi salti con essa insieme si gettò da parte, e ’l cavallo correndo passò via. Un altro gottoso, non in tutto attratto, ma doglioso di gotte forte, stando su uno letto, in una terra di Lombardia, ambasciadore, si levò il romore in quella; ed essendo tutto il populo in arme, gridavano alla morte verso quello ambasciadore; di che, sentendolo il gottoso che appena sul letto stare non potea sanza gran guai, prestamente schizzoe del letto, e dato giú per la scala dell’albergo si fuggí buon pezzo di via verso la chiesa de’ Fra’ Minori; e non parve gottoso, ma piú tosto barbaresco o can da giugnere; e campò la persona; e ancora piú che piú tempo stette sanza pena di gotte, dove prima ogni dí l’avea. E cosí «bisogno fa la vecchia trottare».