Novella CCXXI

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A messer Ilario Doria, venuto a Firenze ambasciadore per lo imperadore di Costantinopoli, con una sottile malizia da uno, mostrandosi famiglio di uno cittadino di Firenze, è tolta una tazza d’argento di valuta di trenta fiorini.

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Non voglio lasciare una novelletta che fu ne’ miei dí poco tempo fa. Per lo imperadore di Costantinopoli venne alla città di Firenze e in altri luoghi uno ambasciadore molto orrevole, il quale avea nome messer Ilario Doria gentiluomo di Genova, e dal Comune e da’ singulari cittadini gli fu fatto grande onore e ricchi doni. Tornava il detto ambasciadore da casa i Pazzi all’albergo della Corona. Standosi per alquanti dí il valentr’uomo al detto albergo, uno che non si poté mai trovare chi fosse (ma io scrittore credo che fosse discendente del Gonnella), avvisandosi di tirare a sé qualche piattello d’argento, e forse ne avea maggiore bisogno di lui, con una gran reverenza spuose dinanzi da lui che uno gentiluomo fiorentino e suo amico, il quale poi lo verrebbe a vicitare, lo mandava pregando caramente che mandasse uno de’ suoi famigli con uno de’ suoi piattelli d’argento, che li volea mandare de’ suoi confetti.
Il gentiluomo Doria, udendo costui, chiamò un suo famiglio, e fégli dare una tazza che passava ben tre libbre d’argento, e disse:
- Va’ con costui, e fa’ quello che ti dice.
Partironsi, e facendo la via verso le scalee della Badía di Firenze, giunti a quelle, dice colui che era ito all’ambasciadore:
- Dammi il piattello, ché io voglio andare a farl’empiere, e aspettati qui.
Il famiglio forestiero, non uso nella città, veggendo le scalee della Badía, s’avvisò che andasse in una casa di qualche gentiluomo: diégli liberamente il piattello. Tolto il piattello, questo cattivo uomo entra nel cortile della Badía, e ’l forestiere rimane ad aspettare. Come quello del piattello entra per l’una porta, cosí se n’esce per quella che va in Santo Martino e dà de’ remi in acqua e vassene col piattello. Il famiglio forestiero aspetta il corbo, e aspetta tanto che la grossa è sonata.
Andando la famiglia del Podestà alla cerca, come son fuori veggono costui, e piglianlo, e dicono:
- Che fai tu qui?
Quelli il mandano al Podestà, e ’l Podestà il domanda. Quelli dice ch’egli è famiglio del tale ambasciadore, e la cagione il perché aspettava. Udendo il Podestà costui, mandò il cavaliero all’albergo della Corona, sappiendo se era uno suo famiglio, e udito di sí e la cagione piacevole, lo lasciò; avendo gran voglia di spiare chi fosse quello rubaldo che avesse fatto quella cattività; e mai, com’io ho detto di sopra, non si poté trovare chi fosse. L’ambasciadore, non istante al danno e alla beffa, se ne rise, dicendo che per certo in Firenze dovea avere di sottili uomini da saper tirare a loro.
Ella va pur cosí, ché chi ha fatto le mane a uncini e vuole vivere di ratto, ognora pensa come possa arraffare; e colui che viverà puramente, non si guarda, ma vive alla sicura: e come detto è, malagevole è vivere sanza questi pericoli, però che chi ha bisogno non pensa se non come possa avere; e quando ciò fanno, non pensano alle forche.