Il Trecentonovelle/CCIV
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Messer Azzo degli Ubertini nel palagio de’ signori di Firenze riprende uno soldato che si duole, domandando denari, in otto dí non essere spacciato, allegando sé per lo contrario.
Molto fu piú nuova cosa quella che al presente voglio raccontare, e io scrittore mi vi trovai. Nel tempo che il duca d’Angiò passò per venire contro al re Carlo terzo, come dicea, per vendicare la eccellentissima regina madonna Giovanna; e avendo lo Siri di Cosí con Marco da Pietramala e con altri preso Arezzo, e quasi in un’ora venendo la novella a Firenze di questa presura, parendo assai dolorosa, non stette molto che venne la novella che ’l duca d’Angiò era morto; la quale fu un prezioso unguento a sanare la mortal piaga della perdita d’Arezzo. Tanto che infine al Siri di Cosí essendo dati buona quantità di denari, diede Arezzo al Comune di Firenze; il quale, non essendo morto il duca, non che l’avesse o dato o venduto, ma egli era a gran pericolo la nostra città di non perdere il suo stato.
Venuto Arezzo sotto la signoria del Comune di Firenze, i Fiorentini cercorono d’avere tutte le sue castella da certi che contro a ragione le tenevano; fra’ quali fu richiesto un savio e valoroso cavaliere, chiamato messer Azzo degli Ubertini d’Arezzo, che restituisse alcune castella che del contado d’Arezzo indebitamente tenea, però che al Comune di Firenze era stato venduto Arezzo con tutte le sue castella, e con ogni sua jurisdizione. Il cavaliere, non contradicendo alcuna cosa, ma piú tosto affermando, comparí dinanzi a’ Signori, dicendo:
- Signori miei, se io avesse mille ragioni contro la vostra volontà e contro la vostra intenzione, non intendo d’allegarne nessuna. Una sola cosa vi dico: io tegno cotante castella; se tutte le volete, tutte ve le do, ed ecco le chiavi, pensando di rimanere molto piú ricco e maggiore, essendo povero e ubbidendo li vostri comandamenti, che tenere ciò che io ho, o ciò che io potesse avere, contro alla vostra volontà.
Con questo principio e mezzo e fine, giammai non rimutandosi, volendo dare al Comune del suo, fu tenuto piú mesi con istento e con fatica che non potea essere spacciato, e ogni dí era in casa li Signori. E ancora, diliberandosi per loro di volere certe castella delle sue o d’Arezzo che tenea, mai non dicendo altro che fiat, ancora era tenuto per lunga, non potendosi in piú mesi spacciare e tornare a casa sua.
Avvenne per caso che un dí, essendo nel palagio de’ Priori il detto messer Azzo nella sala di fuori della porta della loro audienza, uno gentiluomo d’arme caporale, che era andato a’ Signori a pregarli che dovesse loro piacere di farlo pagare di denari che avea servito, come che gli fosse risposto, egli uscí fuori tutto adirato, rampognando e quasi biestemando. Di che veggendolo messer Azzo, il domandò quello ch’elli avea. A cui elli rispose:
- Come diavol che ho? ché debbo avere dugento fiorini, serviti con gran fatica e sí e sí, e sonci venuto ben quindici dí, e non posso esser pagato!
Allora disse messer Azzo:
- O, buon uomo, tu déi essere poco uso in questo palazzo; io voglio che tu sappi che io ci sono stato presso a quattro mesi, e voglio dare il mio al Comune, e non posso essere spacciato: or pensa omai chi ha piú da dolersi, o tu o io.
Il gentiluomo, udendo il cavaliere, disse:
- In fé di Dio, voi mi date buona speranza di futura pena.
Fu rapportata la parola di messer Azzo da alcuno uditore a’ Signori; e brievemente uno dell’officio, forse il piú intendente, disse:
- Egli ha detto molto bene, che non ci si dà spaccio a niuna cosa; ed è un bello onore che noi facciamo stare sei mesi e un anno talora un gentiluomo per gli alberghi, e mai di cosa che abbiamo a fare non ne caviamo le mani.
Di che tutti di concordia, mossi per queste parole, si posono in cuore di non intender mai ad altro che messer Azzo, e quel soldato serebbe spacciato; e sanza pigliare alcuno respitto, l’altro dí amendue furono spacciati.
Or questa virtú ebbono le parole del cavaliere, che feciono destare chi dormía. E qual’è piú bella cosa e piú onorevole a quelli che hanno a dare judicio che spacciare le cose che vengono loro innanzi ragionevolmente? tanto è bella cosa ch’e’ sudditi non vorrebbon mai altra signoria; e tanto è penosa e sdegnosa cosa a fare il contrario ch’e’ sudditi vorrebbono innanzi essere sotto il diavolo dell’inferno che sotto quelli che li menano sí per lunga, che molto tempo con fatica e danno consumano, anzi che possano vedere il fine d’una loro questione.