Capitolo XLVII

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"At id quotidie accidere non videmus. Nempe, neque auctores a nobis citati affirmarunt, quoties Balearicus fundibularius plumbum funda proiiceret, solitum illud ex motu liquescere, sed tantum accidisse id non semel, atque ideo insolitam rem pene miraculo fuisse: nos etiam supra diximus, ad ignem ex attritu aëris excitandum multam exhalationum copiam in eodem aëre requiri, quod calidiora facilius ignescant. Sic enim videmus in cœmeteriis per æstatem accidere non raro, ut ad alicuius hominis adventum aut ad lenissimi favonii eventilationem agitatus aër ille, siccis et calidis halitibus infectus, in flammam statim abeat. Quænam porro hic corporum duriorum attritio reperitur? Et tamen ex motu atque attritione levissima aër ille ignescit. Atque hoc voluit Aristoteles, cum dixit: "Cum autem fertur et movetur hoc modo, quacumque contigerit bene temperata existens, sæpe ignitur": quo textu satis aperte significat, hæc non contingere nisi in iis circumstantiis quas superius enumeravimus. Quare, si quando is aëris status fuerit ut huiusmodi exhalationibus abunde ferveat, aio plumbeos orbes, fundis etiam validissime excussos, suo motu aërem accensuros, atque ab eodem incenso incendendos vicissim fore; non esse proinde, cur Galilæus ad experimenta confugiat, cum non nostro hæc arbitratu, sed casu, evenire asseramus; perdifficile autem est casum, cum volueris, accersere. Quod si quis forte dixerit, glandes tormentis bellicis explosas, non ex attritu aëris, sed ex igne vehementissimo quo excutiuntur, accendi; quamquam haud ita facile mihi persuadeam, ingentem plumbi vim ab eo igne liquescere quem brevissimo temporis momento vix attigerit, satis hoc loco habeo ostendisse, nullum ab his exemplis Galilæo patere effugium ad poëtarum et philosophorum testimonia evadenda."

Questo liquefarsi le palle di piombo, che quattro versi di sopra disse il Sarsi che si conferma con esempli cotidiani, adesso dice accader così di rado, che, come cosa insolita, vien reputato quasi un miracolo. Or questa gran ritirata ci assicura pur di vantaggio ch’ei si conosce molto bisognoso di schermi e di fughe; il qual bisogno va egli confermando colla propria inconstanza, di voler or questa cosa ed or quella: ora dice che per accender l’aria basta l’agitazione d’un piccol venticello, ed anco il solo arrivo d’un uomo vivo sopra un cimiterio di morti; altra volta (come ha detto di sopra, e replica nel fine di questa proposizione) vorrà un moto veemente, una copia grande d’essalazioni, una grande attenuazione di materia, e se altra cosa è che conferisca a questa fattura; ed a quest’ultimo riquisito sottoscrivo più che a tutti gli altri, sicurissimo che non solo questi accendimenti, [p. 346 modifica]ma qualunque altro più meraviglioso e recondito effetto di natura segue quando vi son quei requisiti che si convengono. Vorrei ben sapere a che proposito mi domandi il Sarsi, dopo aver detto delle fiamme che sopra i cimiteri s’accendono per lo semplice arrivo d’un uomo o per un lento venticello, mi domandi, dico, dove sia qui l’attrizion de’ corpi duri? Io ho ben detto che l’attrizion potente ad eccitare il fuoco è sola quella che vien fatta da’ corpi solidi; ora non so qual logica insegni al Sarsi a ritrar da questo detto ch’io voglia che, qualunque si sia l’accendimento, non si possa cagionar da altro che da cotale attrizione. Replico dunque al Sarsi che l’incendio si può suscitare in molti modi, tra i quali uno è l’attrizione e stropicciamento gagliardo di due corpi duri; e perché tale attrizione non si può far da’ corpi sottili e fluidi, però dico che le comete e baleni, le saette, le stelle discorrenti, ed ora aggiugniamoci le fiamme de’ cimiteri, non s’accendono per attrizione né d’aria né di venti né d’esalazioni, anzi che ciascheduno di questi abbruciamenti si fa il più delle volte nelle maggiori tranquillità d’aria e quando il vento è del tutto fermo. Voi forse mi direte: "Qual dunque è la causa di queste incensioni?" Vi risponderò, per non entrare in nuove liti, che non la so, ma che so bene che né l’acqua né l’aria si tritano né si accendono né s’abbruciano già mai, non essendo materie né tritabili né combustibili: e se dando fuoco ad un sol fil di paglia, a un capello di stoppa, non resta l’abbruciamento sin che tutta la stoppa e tutta la paglia, se ben fusse cento milioni di carra, non è abbruciata; anzi, se dato fuoco ad un piccol legno abbrucerebbe tutta la casa e la città intera e tutte le legna del mondo che fusser contigue alle prime ardenti, se non si corresse prestamente a i ripari, chi riterrebbe mai che l’aria, così sottile e di parti tutte aderenti senza separazione, quando se n’accendesse una particella, non ardesse anco il tutto?

Riducesi finalmente il Sarsi a dire con Aristotile che se mai accaderà che l’aria sia abondantemente ripiena di tali essalazioni ben temperate, e con altri riquisiti detti, allora si liquefanno le palle di piombo, e non solamente quelle dell’artiglierie e degli archibusi, ma le tirate colle fionde ancora. Dunque tale bisogna che fusse lo stato dell’aria al tempo che i Babilonii cocevan l’uova; tale fu, con gran ventura degli assediati, mentre si batteva la città di Corbel; ed allora che tale si ritrova, si può allegramente andar contro all’archibusate: [p. 347 modifica]ma perché l’affrontare una tal costituzione è cosa di ventura e che non accade così spesso, però dice il Sarsi che non si deve ricorrere all’esperienze, attento che questi miracoli non si fanno ad arbitrio nostro, ma del caso, ch’è poi difficilissimo a incontrarsi. Tanto che, signor Sarsi, quando bene l’esperienze fatte mille e mille volte, in tutte le stagioni dell’anno ed in qualsivoglia luogo, non riscontrassero mai co ’l detto di quei poeti filosofi ed istorici, questo non importa niente, ma dobbiamo credere alle lor parole, e non a gli occhi nostri. Ma se io vi troverò una costituzion d’aria con tutti quei requisiti che voi dite che si ricercano, e che ad ogni modo non ci cuocano l’uova né si struggano le palle di piombo, che direte voi allora, signor Sarsi? Ma aimè! io fo troppo grande oblazione, e sempre vi rimarrà la ritirata con dire che vi manca qualche requisito necessario. Troppo avvedutamente vi recaste voi in un posto sicuro, quando diceste esser di bisogno per l’effetto un moto violento, gran copia d’essalazioni, una materia bene attenuata et "si quid aliud ad idem conducit": quel "si quid aliud" è quel che mi sbigottisce, ed è per voi un’ancora sacra, un asilo, una franchigia troppo sicura. Io avevo fatto conto di sospender la causa e soprassedere sin che venisse qualche cometa, immaginandomi che in quel tempo della sua durazione Aristotile e voi foste per concedermi che l’aria, sì come si trovava ben disposta per l’abbruciamento di quella, così si ritrovasse anco per la liquefazzione del piombo e per cuocer l’uova, parendomi che voi aveste per ambedue gli effetti ricercato la medesima disposizione; ed allora volevo che noi mettessimo mano alle fionde, all’uova, agli archi, ai moschetti ed all’artiglierie, e ci chiarissimo in fatto della verità di questo negozio; anzi pure che, senz’aspettar comete, il tempo dovrebbe essere opportuno di meza state, e quando l’aria lampeggia e fulmina, venendo a tutti questi ardori assegnata l’istessa causa: ma dubito che quando ben voi non vedeste in cotali tempi liquefarsi le palle, né pur cuocersi l’uova, non però cedereste, ma direste mancarci quel "si quid aliud ad idem conducens". Se voi mi direte che cosa sia questo "si quid aliud", io mi sforzerò di provederlo; quanto che no, lascerò correr la sentenza, la qual credo senz’altro che sarà contro di voi, se non in tutto e per tutto, almanco in questa parte, che mentre che noi andiamo ricercando la causa naturale d’un effetto, voi vi riducete a voler ch’io m’appaghi d’una ch’ [p. 348 modifica]è tanto rara, che voi stesso la nominate finalmente e la riponete tra i miracoli. Ora, sì come né per girar di fionde né per tirar d’archi né d’archibusi né d’artiglierie noi non veggiamo mai farsi gli effetti più volte nominati, o pur, se già mai è accaduto un tale accidente, è stato così di rado che dobbiamo tenerlo come miracolo, e come tale più tosto crederlo all’altrui relazione che cercar di vederlo per prova; perché, dico, stanti queste cose così, non vi dovete voi contentar di conceder che veramente per uno ordinario le comete non si accendono per un’attrizione d’aria, e contentarvi ancora di passar come cosa di miracolo se pur alcuno vi concederà che taluna si sia, una volta in mill’anni, accesa per quella attrizione ben corredata di tutte quelle circostanze che voi ricercate?

Quanto all’instanza che il Sarsi si promuove e risolve, cioè che alcuno forse potrebbe dire che non per attrizion d’aria, ma pel fuoco veemente che le caccia, si struggono le palle d’archibuso e d’artiglieria; io, primieramente, non sarò di quelli che oppongano in cotal guisa, perché dico ch’elle non si struggono né in quello né in modo veruno: quanto poi alla risposta dell’instanza, non so perché il Sarsi non abbia arrecata quella ch’è propriissima e chiara, dicendo che le palle e le frecce cacciate colla fionda e coll’arco, dove non è fuoco, mostrano la nullità dell’instanza apertamente. Questa pare a me che fusse risposta assai più diretta che la portata dal Sarsi, cioè che ’l tempo nel quale la palla va col fuoco, gli par troppo breve per liquefare un gran pezzo di piombo: il che è vero, ma vero è ancora che assai più breve è l’altro tempo ch’ella spende nel suo viaggio, per liquefarlo con l’attrizion dell’aria.

All’ultima conclusione ch’ei ne raccoglie, non so che rispondere, perché non intendo punto ciò ch’ei si voglia dire mentr’ei dice, bastargli aver mostrato ch’io, per questi essempi, non ho ritirata alcuna per isfuggire i testimonii de’ poeti e de’ filosofi; i quali testimonii essendo scritti e stampati in mille libri, io non ho mai cercato di sfuggirli, e ben mi parrebbe privo di discorso affatto chi tentasse una tale impresa. Ho ben detto che l’attestazioni son false, e tali mi par che siano tuttavia.