Capitolo V

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E ritornando al trattato, rilegga V. S. Illustrissima l’infrascritte parole: "Dolet igitur, primo, se in Disputatione nostra male habitum, cum de tubo optico ageremus nullum cometæ incrementum afferente, ex quo deduceremus eundem a nobis quam longissime distare. Ait enim, multo ante palam affirmasse se, hoc argumentum nullius momenti esse. Sed affirmarit licet: nunquid eius illico ad Magistrum meum pronunciata referrent venti? Licet enim summorum virorum dicta plerunque fama divulget, huius tamen dicti (quid faciat?) ne syllaba quidem ad nos pervenit. Et quanquam dissimulavit, novit id tamen multorum etiam testimonio, novit benevolentissimum in se Magistri mei animum, et qua privatis in sermonibus, qua publicis in disputationibus, effusum plane in laudes ipsius. Illud certe negare non potest, neminem ab illo unquam proprio nomine compellatum, neque se verbis ullis speciatim designatum. Si qua tamen ipsius animum pulsaret dubitatio, meminisse etiam poterat, perhonorifice olim se hoc in Romano Collegio ab eiusdem Mathematicis acceptum, et cum de Mediceis sideribus tuboque optico, illo audiente et (qua fuit modestia) ad laudes suas erubescente, publice est disputatum, et cum postea ab alio, eodem loco atque frequentia, de iis quæ aquis insident disserente, perpetuo Galilæus acroamate celebratus est. Quid ergo causæ fuerit nescimus, cur ei, contra, adeo viluerit huius Romani Collegii dignitas, ut eiusdem Magistros et logicæ imperitos diceret, et nostras de cometis positiones futilibus ac falsis innixas rationibus, non timide pronunciaret."

Sopra i quali particolari scritti io primieramente dico di non m’esser mai lamentato d’essere stato maltrattato nel Discorso del P. Grassi, nel quale son sicuro che Sua Reverenza non applicò mai il pensiero alla persona mia per offendermi; e quando pure, dato e non concesso, io avessi avuta opinione che il P. Grassi nel tassar quelli che facevan poca stima dell’argomento preso dal poco ricrescer la cometa, avesse voluto comprender me ancora, non però creda il Sarsi che questo mi fusse stato causa di disgusto e di querimonia. Sarebbe forse ciò accaduto quando la mia opinion fusse stata falsa, e per tale scoperta e publicata; ma sendo il detto mio verissimo, e falso l’altro, la moltitudine de’ contradittori, e massime di tanto valore quanto è il P. Grassi, poteva più tosto accrescermi il gusto che il dolore, atteso che più diletta il restar vittorioso di prode e numeroso essercito, che di pochi e debili inimici. E perché degli avvisi che da molte parti d’Europa andavano (come scrive il Sarsi) al suo Maestro, alcuni nel passar di qua lasciavano ancora a noi sentire come generalmente tutti i più celebri astronomi facevano gran fondamento sopra cotale argomento, né mancavano anco ne’ nostri contorni e nella città stessa uomini della medesima opinione, io al primo motto, che di ciò intesi, molto chiaramente mi lasciai intendere che stimavo questo argomento vanissimo, di che molti si burlavano, e tanto più, quando in favor loro apparve l’autorevole attestazione e confermazione del matematico del Collegio Romano: il che non negherò che mi fusse cagione d’un poco di travaglio, atteso che trovandomi posto in necessità di difendere il mio detto da tanti altri contradittori, i quali, per esser stati fatti forti da un tanto aiuto, più imperiosamente mi si levavano contro, non vedevo modo di poter contradire a quelli senza comprendervi anco il P. Grassi. Fu adunque non mia elezzione, ma accidente necessario, ben che fortuito, che indirizzò la mia impugnazione anco in quella parte dov’io meno avrei voluto. Ma che io pretendessi mai (come soggiunge il Sarsi) che tal mio parere dovesse esser repentinamente portato da’ venti sino a Roma, come suole accadere delle sentenze degli uomini celebri e grandi, eccede veramente d’assai i termini della mia ambizione. Bene è vero che la lettura della Libra m’ha fatto pur anco alquanto maravigliare, che tal mio detto non penetrasse a gli orecchi del Sarsi. E non è egli degno di meraviglia, che cose le quali io già mai non dissi, né pur pensai, delle quali gran numero è registrato nel suo Discorso, gli sieno state riportate, e che d’altre dette da me mille volte non gliene sia pur giunta una sillaba? Ma forse i venti, che conducono le nuvole, le chimere e i mostri che in essi tumultuariamente si vanno figurando, non ànno poi forza di portar le cose sode e pesanti.

Dalle parole che seguono mi par comprendere che il Sarsi m’attribuisca a gran mancamento il non aver con altrettanta cortesia contracambiata l’onorevolezza fattami da’ Padri del Collegio in lezzioni publiche fatte sopra i miei scoprimenti celesti e sopra i miei pensieri delle cose che stanno su l’acqua. E qual cosa doveva io fare? Mi risponde il Sarsi: Laudare e approvar il Discorso del P. Grassi. Ma, signor Sarsi, già che le cose tra voi e me s’ànno a bilanciare e, come si dice, trattar mercantilmente, io vi dimando, se quei Reverendi Padri stimarono per vere le cose mie, o pur l’ebber per false. Se le conobbero vere e come tali le lodarono, con troppo grand’usura ridomandereste ora il prestato, quando voleste che io avessi con pari lode a essaltar le cose conosciute da me per false. Ma se le reputaron vane e pur l’essaltarono, posso ben ringraziarli del buono affetto; ma assai più grato mi sarebbe stato che m’avessero levato d’errore e mostratami la verità, stimando io assai più l’utile delle vere correzzioni, che la pompa delle vane ostentazioni: e perché l’istesso credo di tutti i buoni filosofi, però né per l’uno né per l’altro capo mi sentivo in obligo. Mi direte forse ch’io dovevo tacere. A questo rispondo, primamente, che troppo strettamente ci eravamo posti in obligo, il signor Mario ed io, avanti la publicazion della scrittura del P. Grassi, di lasciar vedere i nostri pensieri; sì che il tacere poi sarebbe stato un tirarsi addosso un disprezzo e quasi derision generale. Ma più soggiungo, che mi sarei anco sforzato, e forse l’avrei impetrato, che il signor Guiducci non publicasse il suo Discorso, quando in esso fusse stato cosa pregiudiciale alla degnità di quel famosissimo Collegio o d’alcun suo professore; ma quando l’opinioni impugnate da noi sono state tutte d’altri prima che del matematico professore del Collegio, non veggo perché il solo avergli Sua Reverenza prestato l’assenso avesse a metter noi in obligo di dissimulare ed ascondere il vero per favoreggiare e mantenere vivo uno errore. La nota, dunque, di poco intendente di logica cade sopra Ticone ed altri che ànno commesso l’equivoco in quell’argomento; il quale equivoco si è da noi scoperto non per notare o biasimare alcuno, ma solo per cavare altrui d’errore e per manifestare il vero: e tale azzione non so che mai possa esser ragionevolmente biasimata. Non ha, dunque, il Sarsi causa di dire che sia appresso di me avvilita la degnità del Collegio Romano. Ma bene, all’incontro, quando la voce del Sarsi uscisse di quel Collegio, avrei io occasion di dubitare che la dottrina e la reputazion mia, non solo di presente ma forse in ogni tempo, sia stata in assai vile stima, poi che in questa Libra niuno de’ miei pensieri viene approvato, né ci si legge altro che contradizzioni accuse e biasimi, ed oltre a quel ch’è scritto (se si deve prestar credenza al grido) uno aperto vanto di poter annichilar tutte le cose mie. Ma sì come io non credo questo, né che alcuno di questi pensieri abbia stanza in quel Collegio, così mi vo immaginando che il Sarsi abbia dalla sua filosofia il poter egualmente lodare e biasimare, confermare e ributtar, le medesime dottrine, secondo che la benevolenza o la stizza lo traporta: e fammi in questo luogo sovvenir d’un lettor di filosofia a mio tempo nello Studio di Padova, il quale essendo, come talvolta accade, in collera con un suo concorrente, disse che quando quello non avesse mutato modi, avria sotto mano mandato a spiar l’opinioni tenute da lui nelle sue lezzioni, e che in sua vendetta avrebbe sempre sostenute le contrarie.