Capitolo XLIV

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Or passiamo avanti a essaminar l’esperienze della freccia tirata coll’arco e della palla di piombo tirata colle scaglie, infocate e strutte per aria, confermate coll’autorità d’Aristotile, di molti gran poeti, d’altri filosofi ed istorici. "Quamvis autem exemplum Aristotelis de sagitta, cuius ferrum motu incaluit, Galilæus irrideat atque eludere tentet, non tamen id potest: neque enim Aristoteles unus id asserit, sed innumeri pene magni nominis viri huiusmodi exempla (earum procul dubio rerum, quas ipsi aut spectassent, aut a spectatoribus accepissent) prodiderunt. Vult hic Galilæus, aliquos nunc proferam e plurimis qui hoc non vere minus quam eleganter affirmant? Ordiar a poëtis, iis contentus quorum auctoritas, quia rerum naturalium cognitione perbene instructi sunt, in rebus gravissimis afferri ac magni fieri solet. Et sane Ovidius, non poëticæ solum sed mathematicorum etiam ac philosophiæ peritus, non sagittas modo, sed plumbeas glandes, fundis Balearicis excussas, in cursu sæpe exarsisse testatur. In libris enim Metamorphoseon hæc habet:

Non secus exarsit, quam cum Balearica plumbum
funda iacit: volat illud et incandescit eundo,
et, quos non habuit, sub nubibus invenit ignes.

Paria his habet Lucanus, ingenio doctrinaque clarissimus:

Inde faces et saxa volant, spatioque solutæ
aëris et calido liquefactæ pondere glandes.

Quid Lucretius, non minor et ipse philosophus quam poëta? nonne pluribus in locis idem testatur?

. . . . . . . . . . . . . . . . . plumbea vero
glans etiam longo cursu volvenda liquescit;

et alibi:

Non alia longe ratione, ac plumbea sæpe
fervida fit glans in cursu, cum multa rigoris
corpora demittens ignem concepit in auris.

Idem innuit Statius, dum ait:

. . . . arsuras cæli per inania glandes.

Quid de Virgilio, poëtarum maximo? non ne bis hoc ipsum disertissime affirmat? Dum enim ludos Troianorum describit, de Aceste ita loquitur:

Namque volans liquidis in nubibus arsit arundo,
signavitque viam flammis, tenuesque recessit
consumpta in ventos;

alio vero loco, de Mezentio sic:

Stridentem fundam, positis Mezentius armis,
ipse ter adducta circum caput egit habena,
et media adversi liquefacto tempora plumbo
diffidit, et multa porrectum extendit arena.

Posse vero corpus durius alterius mollioris attritione consumi, probat aqua, diuturna distillatione durissimos etiam lapides excavans, atque allisæ scopulis undæ, quæ eosdem comminuunt et mire lævigant; ventorum etiam vi corrodi turrium ac domorum angulos experimur. Si quando igitur aër ipse concrescat magnoque impetu feratur, duriora etiam atteret corpora, atque ipse ab iis vicissim atteretur. Sibilus certe, qui in agitatione fundæ exauditur, addensati aëris argumentum est; quod fortasse voluit Statius cum dixit, aërem fundæ gyris inclusum distringi:

. . . et flexæ Balearicus actor habenæ,
qua suspensa trahens libraret vulnera tortu,
inclusum quoties distringeret aëra gyro.

Idem etiam probat grando, quæ quo altiori e loco decidit, eo minutior ac rotundior cadit; idem pluviæ guttæ, maiores cum ex humiliori loco, minores cum ex altiori cadunt, cum in aëre et comminuantur et atterantur."

Che io o ’l signor Mario ci siamo risi e burlati dell’esperienza prodotta da Aristotile, è falsissimo, non essendo nel libro del signor Mario pur minima parola di derisione, né scritto altro se non che noi non crediamo ch’una freccia fredda, tirata coll’arco, s’infuochi; anzi crediamo che, tirandola infocata, più presto si raffredderebbe che tenendola ferma: e questo non è schernire, ma dir semplicemente il suo concetto. A quello poi ch’ei soggiunge, non esserci succeduto il convincer cotale esperienza, perché non Aristotile solo, ma moltissimi altri grand’uomini ànno creduto e scritto il medesimo, rispondo che se è vero che per convincere il detto d’Aristotile bisogni far che quei molti altri non l’abbian creduto né scritto, né io né ’l signor Mario né tutto il mondo insieme lo convinceranno già mai, perché mai non si farà che quei che l’ànno scritto e creduto non l’abbian creduto e scritto: ma dico bene, parermi cosa assai nuova che, di quel che sta in fatto, altri voglia anteporre l’attestazioni d’uomini a ciò che ne mostra l’esperienza. L’addur tanti testimoni, signor Sarsi, non serve a niente, perché noi non abbiamo mai negato che molti abbiano scritto e creduto tal cosa, ma sì bene abbiamo detto tal cosa esser falsa; e quanto all’autorità, tanto opera la vostra sola quanto di cento insieme, nel far che l’effetto sia vero o non vero. Voi contrastate coll’autorità di molti poeti all’esperienze che noi produciamo. Io vi rispondo e dico, che se quei poeti fussero presenti alle nostre esperienze, muterebbono opinione, e senza veruna repugnanza direbbono d’avere scritto iperbolicamente o confesserebbono d’essersi ingannati. Ma già che non è possibile d’aver presenti i poeti, i quali dico che cederebbono alle nostre esperienze, ma ben abbiamo alle mani arcieri e scagliatori, provate voi se, coll’addur loro queste tante autorità, vi succede d’avvalorargli in guisa, che le frecce ed i piombi tirati da loro s’abbrucino e liquefacciano per aria; e così vi chiarirete quanta sia la forza dell’umane autorità sopra gli effetti della natura, sorda ed inessorabile a i nostri vani desiderii. Voi mi direte che non ci sono più gli Acesti e Mezenzii o lor simili Paladini valenti: ed io mi contento che, non con un semplice arco a mano, ma con un robustissimo arco d’acciaio d’un balestrone caricato con martinelli e leve, che a piegarlo a mano non basterebbe la forza di trenta Mezenzii, voi tiriate una freccia o dieci o cento; e se mai accade che, non dirò che ’l ferro d’alcuna s’infuochi o ’l suo fusto s’abbruci, ma che le sue penne solamente rimangano abbronzate, io voglio aver perduta la lite, ed anco la grazia vostra, da me grandemente stimata. Orsù, signor Sarsi, io non vi voglio più tener sospeso: non m’abbiate per tanto ritroso che io non voglia cedere all’autorità ed al testimonio di tanti poeti ammirabili, e ch’io non voglia credere che tal volta sia accaduto l’abbruciamento delle frecce e la fusione de’ metalli; ma dico bene, di cotali meraviglie la causa essere stata molto diversa da quella che i filosofi n’ànno voluta addurre, mentre la riducono ad attrizzioni d’arie ed essalazioni e simili chimere, che son tutte vanità. Volete voi saperne la vera ragione? Sentite il Poeta a niun altro inferiore, nell’incontro di Ruggiero con Mandricardo e nel fracassamento delle lor lance:

I tronchi sino al ciel ne sono ascesi;
scrive Turpin, verace in questo loco,
che due o tre giù ne tornaro accesi,
ch’eran saliti alla sfera del foco.

E forse che il grand’Ariosto non leva ogni causa di dubitar di cotal verità, mentr’ei la fortifica coll’attestazione di Turpino? il quale ognun sa quanto sia veridico e quanto bisogni credergli.

Ma lasciamo i poeti nella lor vera sentenza, e torniamo a quelli che riducono la causa all’attrizion dell’aria: la quale opinione io reputo falsa; e considero quello che producete voi, volendo mostrare come i corpi durissimi per l’attrizione d’altri più molli possano consumarsi, e dite, ciò apertamente scorgersi nell’acqua e nel vento ancora, rodendo e consumando questo i cantoni delle saldissime torri, e quella, con una continua distillazione e frequente picchiare, scavando i marmi e i durissimi scogli. Tutto questo vi concedo io, perch’è verissimo; e più v’aggiungo che non dubito punto che le frecce e le palle, non solo di piombo, ma di pietra e di ferro ancora, cacciate fuor d’una artiglieria si consumano, nel ferir l’aria con quella somma celerità, più che gli scogli o le muraglie nelle percosse dell’acqua e del vento; e dico, che se per fare una notabile corrosione o scortecciamento negli scogli e nelle torri ci vuole il ferir di ducento o trecento anni dell’acqua e del vento, nel roder le frecce e le palle d’artiglieria basterebbe ch’elle durassero ad andar per aria due o tre mesi soli: ma il tempo di due o tre battute di polso solamente non intendo già come possa fare effetto notabile. Oltre che mi restano due altre difficoltà nell’applicar questa vostra, veramente ingegnosa, considerazione al proposito vostro: l’una è, che noi parliamo di liquefare e struggere per via di calore, e non di consumare per via di percosse; l’altra è, che nel caso vostro voi avete bisogno che non il corpo solido, ma il corpo molle e sottile, sia quello che si stritoli ed assottigli, cioè l’aria, ch’è quella che s’ha poi ad accendere: ora l’esperienze addotte da voi provano che i sassi, e non l’aria o l’acqua, ricevon l’attrizione; e veramente io credo che l’aria e l’acqua, picchino pure se sanno picchiare, non però si assottiglieranno mai più che prima. Per tanto io concludo, poco aiuto e sollevamento per la causa vostra derivar da queste cose, come anco da quel ch’aggiungete della gragnuola e delle gocciole dell’acqua: delle quali io vi concedo che nel cader da alto si vadano rappiccolendo; ve lo concedo, dico, non perch’io non creda che possa esser vero anco tutto l’opposito di quel che dite voi, ma perché non veggo che né nell’uno né nell’altro modo abbia che far col proposito di che si tratta. Che la frombola poi co’ suoi fischi e scoppi sia argomento d’aria condensata nella sua agitazione, la lascerò esser quel che piace a voi; ma avvertite che sarà una contradizzione a voi medesimo e un disastro alla vostra causa: imperocché sin qui avete sempre detto che per l’agitazione e commozione gagliarda si fa l’attrizione, rarefazzione e finalmente l’accendimento nell’aria, ed ora, per render ragione del sibilo della scaglia, o vero per trovare il senso delle parole assai offuscate di Stazio, volete la condensazione; sì che quella medesima commozione che, per servire allo struggere ed abbruciare, rarefà l’aria, per servizio de’ frombolatori e di Stazio la condensa. Ma passiamo a sentire i testimoni degl’istorici.