Capitolo XIII

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Legga dunque V. S. Illustrissima: "Ad tertium argumentum propero, quod iisdem mihi verbis hoc loco referendum arbitror; ut nimirum omnes intelligant, quid illud tandem fuerit, quo se vehementer adeo offensum profitetur Galilæus. Sic enim se habet: "Illud, tertio loco, hoc idem persuadet: quod cometa, tubo optico inspectus, vix ullum passus est incrementum; longa tamen experientia compertum est atque opticis rationibus comprobatum, quæcunque hoc instrumento conspiciuntur, maiora videri quam nudis oculis inspecta compareant, ea tamen lege, ut minus ac minus sentiant ex illo incrementum, quo magis ab oculo remota fuerint; ex quo fit ut stellæ fixæ, a nobis omnium remotissimæ, nullam sensibilem ab illo recipiant magnitudinem. Cum ergo parum admodum augeri visus sit cometa, multo a nobis remotior quam Luna dicendus erit, cum hæc tubo inspecta longe maior appareat. Scio hoc argumentum parvi apud aliquos fuisse momenti: sed hi fortasse parum opticæ principia perpendunt, ex quibus necesse est huic eidem maximam inesse vim ad hoc quod agimus persuadendum." Hic ego præmittere, primum, habeo, quorsum huiusmodi argumentum Disputationi nostræ intextum fuerit: non enim velim maiori id apud alios in pretio haberi, quam apud nos; neque ii sumus qui emptoribus fucum faciamus, sed tanti merces nostras vendimus quanti valent.

Cum igitur ad Magistrum meum ex multis Europæ partibus illustrium astronomorum observationes perferrentur, nemo illorum tunc fuit, qui illud etiam postremo loco non adderet, cometam a se longiori specillo observatum vix ullum incrementum suscepisse, ex qua observatione deducerent, illum saltem supra Lunam statuendum; cumque hoc etiam, ut cætera, variis hominum inter frequentium cœtus sermonibus agitaretur, non defuere qui palam ac libere assererent, nullam huic argumento fidem habendam, tubum hunc larvas oculis ingerere ac variis animum deludere imaginibus, quare, sicuti ne ea quidem quæ cominus aspicimus sincera ac sine ludificationibus ostendit, ita illum multo minus ea quæ longe a nobis remota sunt, non nisi larvata atque deformia monstraturum. Ut ergo et amicorum observationibus aliquid dedisse videremur, ac simul eorum inscitiam, quibus instrumentum hoc nullo erat in precio, publice redargueremus, hoc argumentum tertio loco apponendum, ac postrema ea verba, quibus offensum se dicit Galilæus, addenda, existimavimus, de homine bene potius nos hinc meritos, quam male, sperantes, dum tubum hunc, quamvis non fœtum, alumnum certe ipsius, ab invidorum calumniis tueremur. Cæterum, quanti hoc argumentum apud nos esset, satis arbitror ex eo poterat intelligi, quod paucis adeo ac plane ieiune propositum fuerit, cum prius reliqua duo longe accuratius ac fusius fuissent explicata. Neque Galilæum hæc ipsa latuerunt, si quod res est fateri velit. Cum enim rescissemus, eo illum argumento graviter commotum, quod existimaret se unum iis verbis peti, curavit Magister meus illi per amicos significari, nihil unquam minus se cogitasse, quam ut eum verbo vel scripto læderet; cumque iis, a quibus hæc acceperat, Galilæus pacatum iam atque eorum dictis acquiescentem animum ostendisset, maluit tamen postea, quantum in se fuit, amicum quam dictum perdere."

Intorno alle cose qui scritte mi si fa da considerar, nel primo luogo, qual possa esser la cagione per la quale il Sarsi abbia scritto ch’io grandemente mi sia lamentato del P. Grassi, avvenga che nel trattato del signor Mario non vi è pur ombra di mie querele, né io già mai con alcuno, né anco con me stesso, mi son doluto, né meno ho conosciuto d’aver cagion di dolermi; e gran semplicità mi parrebbe di chi si dolesse che uomini di gran nome fusser contrari alle sue opinioni, quantunque volta egli avesse modi facili ed evidenti da poterle dimostrar vere, quali son sicuro d’aver io: tal che a me non si rappresenta altra cagione, se non che ’l Sarsi sotto questa finzione ha voluto ascondere, non so già perché, suoi interni motivi che l’ànno spinto a volerla pigliar meco; del che ho ben sentito qualche fastidio, perché più volentieri avrei impiegato questo tempo in qualch’altro studio più di mio gusto. Che il P. Grassi non avesse intenzione d’offender me nel tassar di poco intelligenti quelli che disprezzavano l’argomento preso dal poco ingrandimento della cometa per lo telescopio, lo voglio creder al Sarsi; ma se io per me stesso m’ero già dichiarato essere in quel numero, ben mi doveva esser tollerato ch’io producessi mie ragioni e difendessi la causa mia, e tanto più quanto ella era giusta e vera. Voglio ancora ammettere al Sarsi che ’l suo Maestro con buona intenzione si mettesse a sostenere quell’opinione, credendo di conservare ed accrescere la reputazione ed il pregio del telescopio contro alle calunnie di quelli che lo predicavano per fraudolente e per ingannator della vista, e così cercavano di spogliarlo de’ suoi ammirabili pregi: ma in questo fatto, quanto l’intenzion del Padre mi par lodevole e buona, tanto l’elezzione e la qualità delle difese mi si rappresenta cattiva e dannosa, mentr’ei vuole contro all’imposture de’ maligni fare scudo agli effetti veri del telescopio coll’attribuirgliene de’ manifestamente falsi. Questo non mi par buon luogo topico per persuader la nobiltà di tale strumento. Per tanto piaccia al Sarsi di scusarmi se io non vengo, con quella larghezza che forse gli par che convenisse, a chiamarmi e confessarmi obligato per li nuovi pregi ed onori arrecati a questo strumento. E con qual ragione pretend’egli che in me si debba accrescer l’obligo e l’affezzione verso di loro per li vani e falsi attributi, mentr’eglino, perché io col dir cose vere gli traggo d’errore, mi pronunzian la perdita della loro amicizia?

Segue appresso, e, non so quanto opportunamente, s’induce a chiamare il telescopio mio allievo, ma a scoprire insieme come non è altrimenti mio figliuolo. Che fate, signor Sarsi? Mentre voi sete su ’l maneggio d’interessarmi in oblighi grandi per li beneficii fatti a questo ch’io reputavo mio figliuolo, mi venite dicendo che non è altro ch’un allievo? Che rettorica è la vostra? Avrei più tosto creduto che in tale occasione voi aveste avuto a cercar di farmelo creder figliuolo, quando ben voi foste stato sicuro che non fusse. Qual parte io abbia nel ritrovamento di questo strumento, e s’io lo possa ragionevolmente nominar mio parto, l’ho gran tempo fa manifestato nel mio Avviso Sidereo, scrivendo come in Vinezia, dove allora mi ritrovavo, giunsero nuove che al signor conte Maurizio era stato presentato da un Olandese un occhiale, col quale le cose lontane si vedevano così perfettamente come se fussero state molto vicine; né più fu aggiunto. Su questa relazione io tornai a Padova, dove allora stanziavo, e mi posi a pensar sopra tal problema, e la prima notte dopo il mio ritorno lo ritrovai, ed il giorno seguente fabbricai lo strumento, e ne diedi conto a Vinezia a i medesimi amici co’ quali il giorno precedente ero stato a ragionamento sopra questa materia. M’applicai poi subito a fabbricarne un altro più perfetto, il quale sei giorni dopo condussi a Vinezia, dove con gran meraviglia fu veduto quasi da tutti i principali gentiluomini di quella republica, ma con mia grandissima fatica, per più d’un mese continuo. Finalmente, per consiglio d’alcun mio affezzionato padrone, lo presentai al Principe in pieno Collegio, dal quale quanto ei fusse stimato e ricevuto con ammirazione, testificano le lettere ducali, che ancora sono appresso di me, contenenti la magnificenza di quel Serenissimo Principe in ricondurmi, per ricompensa della presentata invenzione, e confermarmi in vita nella mia lettura nello Studio di Padova, con dupplicato stipendio di quello che avevo per addietro, ch’era poi più che triplicato di quello di qualsivoglia altro mio antecessore. Questi atti, signor Sarsi, non son seguiti in un bosco o in un diserto: son seguiti in Vinezia, dove se voi allora foste stato, non m’avreste spacciato così per semplice balio: ma vive ancora, per la Dio grazia, la maggior parte di quei signori, benissimo consapevoli del tutto, da’ quali potrete esser meglio informato.

Ma forse alcuno mi potrebbe dire, che di non piccolo aiuto è al ritrovamento e risoluzion d’alcun problema l’esser prima in qualche modo reso consapevole della verità della conclusione, e sicuro di non cercar l’impossibile, e che perciò l’avviso e la certezza che l’occhiale era di già stato fatto mi fusse d’aiuto tale, che per avventura senza quello non l’avrei ritrovato. A questo io rispondo distinguendo, e dico che l’aiuto recatomi dall’avviso svegliò la volontà ad applicarvi il pensiero, che senza quello può esser ch’io mai non v’avessi pensato; ma che, oltre a questo, tale avviso possa agevolar l’invenzione, io non lo credo: e dico di più, che il ritrovar la risoluzion d’un problema segnato e nominato, è opera di maggiore ingegno assai che ’l ritrovarne uno non pensato né nominato, perché in questo può aver grandissima parte il caso, ma quello è tutto opera del discorso. E già noi siamo certi che l’Olandese, primo inventor del telescopio, era un semplice maestro d’occhiali ordinari, il quale casualmente, maneggiando vetri di più sorti, si abbatté a guardare nell’istesso tempo per due, l’uno convesso e l’altro concavo, posti in diverse lontananze dall’occhio, ed in questo modo vide ed osservò l’effetto che ne seguiva, e ritrovò lo strumento: ma io, mosso dall’avviso detto, ritrovai il medesimo per via di discorso; e perché il discorso fu anco assai facile, io lo voglio manifestare a V. S. Illustrissima, acciò, raccontandolo dove ne cadesse il proposito, ella possa render, colla sua facilità, più creduli quelli che, col Sarsi, volessero diminuirmi quella lode, qualunqu’ella si sia, che mi si perviene.

Fu dunque tale il mio discorso. Questo artificio o costa d’un vetro solo, o di più d’uno. D’un solo non può essere, perché la sua figura o è convessa, cioè più grossa nel mezo che verso gli estremi, o è concava, cioè più sottile nel mezo, o è compresa tra superficie parallele: ma questa non altera punto gli oggetti visibili col crescergli o diminuirgli; la concava gli diminuisce, e la convessa gli accresce bene, ma gli mostra assai indistinti ed abbagliati; adunque un vetro solo non basta per produr l’effetto. Passando poi a due, e sapendo che ’l vetro di superficie parallele non altera niente, come si è detto, conclusi che l’effetto non poteva né anco seguir dall’accoppiamento di questo con alcuno degli altri due. Onde mi ristrinsi a volere esperimentare quello che facesse la composizion degli altri due, cioè del convesso e del concavo, e vidi come questa mi dava l’intento: e tale fu il progresso del mio ritrovamento, nel quale di niuno aiuto mi fu la concepita opinione della verità della conclusione. Ma se il Sarsi o altri stimano che la certezza della conclusione arrechi grand’aiuto al ritrovare il modo del ridurla all’effetto, leggano l’istorie, ché ritroveranno essere stata fatta da Archita una colomba che volava, da Archimede uno specchio che ardeva in grandissime distanze ed altre macchine ammirabili, da altri essere stati accesi lumi perpetui, e cento altre conclusioni stupende; intorno alle quali discorrendo, potranno, con poca fatica e loro grandissimo onore ed utile, ritrovarne la costruzzione, o almeno, quando ciò lor non succeda, ne caveranno un altro beneficio, che sarà il chiarirsi meglio, che l’agevolezze che si promettevano da quella precognizione della verità dell’effetto, era assai meno di quel che credevano.

Ma ritorno a quel che segue scrivendo il Sarsi, dove destreggiando, per non si ridurre a dire che l’argomento preso dal minimo ingrandimento degli oggetti remotissimi non val nulla, perch’è falso, dice che di quello non n’ànno mai fatta molta stima; il che manifesta egli dall’averlo il suo Maestro scritto con assai brevità, dove che gli altri due argomenti si veggono distesi ed amplificati senza risparmio di parole. Al che io rispondo che non dalla moltitudine, ma dall’efficacia delle parole si deve argumentar la stima che altri fa delle cose dette: e, come ogn’un sa, vi sono delle dimostrazioni che per lor natura non possono esser senza lunghezza spiegate, ed altre nelle quali la lunghezza sarebbe del tutto superflua e tediosa; e qui, se si deve aver riguardo alle parole, l’argomento è portato con quante bastavano alla sua spiegatura chiara e perfetta. Ma, oltre a questo, lo scrivere lo stesso P. Grassi esser in tal argomento, come necessariamente si raccoglie da’ principii ottici, forza grandissima per provar l’intento, ci dà pur troppo chiaro indizio della stima ch’egli almeno ha voluto mostrar di farne: la qual voglio ben credere al Sarsi che internamente sia stata pochissima, ed a questo mi persuade non la brevità dello spiegarlo, ma altra assai più forte conghiettura; e questa è, che mentre il Padre fa sembiante di dimostrare il luogo della cometa dover essere lontanissimo, avvenga che nel ricevere dal telescopio insensibile augumento ella imita puntualmente le lontanissime stelle fisse, quando poi accanto accanto ei passa a più specifica limitazione d’esso luogo, ei la colloca sotto ad oggetti che ricevono dal medesimo telescopio grandissimo accrescimento; dico sotto il Sole, che pur ricresce in superficie quelle medesime centinaia e migliaia di volte, che il medesimo Padre ed il Sarsi stesso sanno. Ma il Sarsi non ha penetrato l’artificio grande del suo Maestro, col quale nell’istesso tempo ha voluto cortesemente applaudere a gli amici suoi né ha voluto amareggiar loro il gusto che sentivano per l’invenzion del nuovo argomento, ed a’ più intendenti e meno appassionati ha in tanto voluto, come si dice, sotto mano mostrarsi accorto ed intelligente, imitando quel generosissimo atto di quel gran signore, che gettò il flussi a monte per non interrompere il giubilo nel quale vedeva galleggiare il giovinetto principe suo avversario, per la vittoria d’un gran resto promessagli dal cinquantacinque già scoperto e gittato in tavola. Ma il signor Mario, con maniera un poco più severa, ha voluto a carte spiegate dire il suo concetto e mostrar la falsità e nullità di quell’argomento, regolandosi da altro fine, ch’è stato di voler più tosto medicare i difetti e tor via gli errori con qualche passione degl’infermi, che fomentargli e fargli maggiori per non gli disgustare.

A quello che il Sarsi scrive in ultimo, che il suo Maestro non avesse avuto pensiero di offender me nel tassar quelli che si burlavan dell’argomento, non occorre ch’io replichi altro, perché già ho detto che lo credo e che mai non ho creduto in contrario. Ma voglio che il Sarsi creda che né io ancora, nel dimostrar falso l’argomento, non ho avuta intenzion d’offender il suo Maestro, ma ben di giovare a chiunque era in quello errore; né so bene intendere con quale occasione m’abbia in questo luogo a toccare col motto del volere, per non perdere un bel detto, perdere un amico: né so vedere quale arguzia sia nel dir "Questo argumento non è vero" sì che debba esser preso per detto arguto.