Il Re Torrismondo/Atto terzo/Scena sesta
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SCENA SESTA
ALVIDA, NUTRICE
ALVIDA
Quai doni io veggio? e quai parole ascolto?
Quale immagine è questa? Ah! chi somiglia?
A me. Son io: mi raffiguro al viso.
All’abito non già. Norvegio, o Goto
A me non sembra. E perch’a’ piedi impresse
Calcata la corona, e ’l lucido elmo,
E di strale pungente armò la destra?
E ’l leon coronato al ricco giogo,
Che segna d’altra parte, e’l fregio intorno,
Ch’è di mirto, e di palma insieme avvinto?
Questi nel manto seminati e sparsi,
Sono strali, e facelle, e nodi involti;
Mirabil opra, e di mirabil mastro!
Maraviglioso onor d’alta corona,
Come riluce di vermiglio smalto!
Sono stille di sangue. Il don conosco.
Della dolce vendetta il caro pregio,
E del mio lagrimare insieme i segni
Rimiro, e mi rammento il tempo, e ’l loco.
E tu conpsci di famosa giostra
Nutrice, il dono? e questo il prezzo, è questo;
E questa è la corona in premio offerta
Al vincitor del periglioso gioco,
Ch’era poscia invitato ad altra pugna.
Ed io la diedi, e così volle il padre
Mio sfortunato, ed il fratello anciso.
NUTRICE
La corona, io conosco, e ’l dì rimembro
Delle famose prove, e ’l dubbio arringo,
Ch’al suon già rimbombò di trombe, e d’armi:
Ma l’altre cose, che ’l parlare accenna,
Parte mi son palesi, e parte occulte;
Perch’ancor non passava il primo lustro
Vostra tenera età, ch’il vecchio padre,
Acciocch’io vi nutrissi, a me vi diede,
Dicendo: Nudrirai nel casto seno
La mia vendetta, e del mio regno antico;
De’ tributi; e dell’onte, e degl’inganni,
E dell’insidie è destinata in sorte.
Egli più non mi disse, io più non chiesi.
Seppi dappoi, ch’i più famosi Magi
Predicevano al Re l’alta vendetta.
ALVIDA
Ma prima nuova ingiuria il duolo accrebbe,
E fè maggior nell’orbo padre il danno.
Perchè a’ Dani mandando ajuto in guerra
Col suo figliuol, che di lucenti squadre
Troppo inesperto duce allor divenne,
Contra i forti Sueci, a cui Germondo,
Già nell’arme famoso, ardire accrebbe,
Vi cadde il mio fratello al primo assalto,
Dal feroce nemico oppresso, e stanco.
Ei di seriche adorno ed auree spoglie,
Ch’io di mia propria mano avea conteste,
Tutto splendea, sovra un destrier correndo,
Lo qual nato parea di fiamma e d’aura:
E la corona ancor portava in fronte,
Che ’l possente guerrier gli ruppe, e trasse;
E gli uccise il cavallo, e sparse l’armi,
E fè caderle in un sanguigno monte,
Dove, ahi lassa! morì nel fior degli anni.
E colle spoglie il vincitor superbo
Indi partissi, e ’l suon dolente e mesto
Si sparse intorno, e ’l lagrimoso grido.
Altri danni, altre guerre, altre battaglie;
Altre morti seguiro in picciol tempo.
Nè poi successe certa e fida pace,
Nè fur mai queti i cori, o l’ira estinta.
Ecco alla giostra i Cavalieri accoglie
Il Re mio padre, e com’altrui divolga
Pubblico bando in questa parte e ’n quella,
Al vincitor promesso è ’l ricco pregio.
Vengon da regni estrani al nostro regno,
E da lontane rive a’ lidi nostri
Famosi Cavalieri, a prova adorni
Di fino argento e d’or, di gemme e d’ostro,
D’altri colori, e di leggiadre imprese.
Tutto d’arme, e d’armati il suol risplende
Dell’ampia Nicosia. Risuona intorno
Di varj gridi, e varj suoni il campo.
Fuor dell’alta cittade il Re n’alberga,
Co’ suoi giudici assiso in alto seggio;
Io fra nobili donne in parte opposta.
Si rompon mille lance in mille incontri,
E mille spade fauno uscir faville
Dagli elmi, e dagli usberghi. Il pian s’ingombra
Di caduti guerrieri, e di cadenti.
È dubbia la vittoria, e ’l pregio incerto ì.
E mentre era sospesa ancor la palma,
Appare un Cavalier con arme negre,
Ch’estranio mi parea, con bigie penne
Diffuse all’aura ventilando e sparse;
Che parve al primo corso orribil lampo,
A cui repente segua atra tempesta.
Rotte già nove lance, il Re m’accenna,
Che mandi in dono al cavaliero un’asta.
Con questa di feroce e duro colpo
Quel, che gli altri vincea, gittò per terra.
Nè men possente poi vibrando apparse
La fera spada in varj assalti. Ei vinse,
E poi fu coronato al suon di trombe.
Io volea porli in testa aurea corona,
Ma non la volle a noi mostrare inerme,
Ond’io la posi, ei l’accetto, sull’elmo.
Cortesia ritrovò, che ’l volto, e ’l nome
Potè celarne; e si partì repente,
Nè fu veduto più. Ma fur discordi
Ragionando di lui guerrieri, e donne.
Io seppi sol, ben mi rimembra il modo,
Che si partiva il cavalier dolente,
Mio servo, e di fortuna aspro nemico.
Or riconosco la corona, e ’l pregio.
Era dunque Germondo? osò Germondo
Contra i Norvegi in perigliosa giostra
Dentro Norvegia istessa esporsi a morte?
Tanto ardir, tanto core in vana impresa?
Poi tanta secretezza, e tanto amore?
E sì picciola fede in vero amante?
E s’ei non era, onde in qual tempo, e quando
Ebbe poi la corona, a chi la tolse?
Chi gliela diede? ed or perchè la manda?
Che segna il manto, e la scolpita gemma?
O che pensier son questi, e che parole?
NUTRICE
Non so: ma varie cose asconde il tempo,
Altre rivela, e muta in parte, e cangia.
Muta il cor, il pensier, l’usanze, e l’opre.
ALVIDA
Di mutato voler conosci i segni?
Son d’amante, o d’amico i cari doni?
Chi mi tenta, Germondo, o ’l suo fedele?
Tenta moglie, od amica; amante, o sposa?
Tenerli io deggîo, o rimandarli indietro?
E s’io gli tengo pur, terrógli ascosi,
O gli paleserò? scoperti, e chiusi
Al mio caro Signor faranno offesa?
Il parlargli fia grave, o ’l mio silenzio?
Il timore, o l’ardir gli fia molesto?
Gli spiacerà la stima, o ’l mio disprezzo?
Forse deggio io fallir, perch’ei non erri?
O deggio forse amar, perch’ei non ami?
O piuttosto odiar, perch’ei non odj?
NUTRICE
Quai disprezzi, quali odj, e quali amori
Ragioni, o figlia, e qual timor t’ingombra?
ALVIDA
Temo l’altrui timor, non solo il mio;
E d’altrui gelosia mi fa gelosa
Solo il sospetto; anzi il presagio, ahi lassa!
Se troppa fede il mio Signore inganna,
In lui manchi la fede, o cresca in ambo,
O pur creda a me sola. A me la serbi,
Perch’è mia la sua fede, a me fu data.
A me chi la ritoglie, o chi l’usurpa?
O chi la fa comune, o la comparte?
O come la sua fede alcun m’agguaglia?
Ma forse ella non è soverchia fede;
È forse gelosia, che si ricopre
Sotto false sembianze. Oimè dolente,
Deh! qual altra cagione ha ’l mio dolore,
Se non è il suo timor? s’egli non teme,
Perchè mi fugge? ov’è timore, è fuga;
O dov’è fuga, ivi è timore almeno.
NUTRICE
Il timor vostro, il suo timor l’adombra,
Anzi vel finge, e se temer lasciate,
Non temerà, non crederò, che tema.
ALVIDA
Quale amante non teme un’altro amante?
Qual amor non molesta un altro amore?
NUTRICE
L’amor fedele, io credo, e ’l fido amante.
ALVIDA
Ma fede si turbò talor per fede;
Non ch’amor per amor. S’amò primiero
Germondo Re possente, e Re famoso,
Cavalier di gran pregio e di gran fama,
E, come pare altrui, bello e leggiadro;
S’amò nemico, o pur nemica amando:
Tenne occulto l’amore al proprio amico,
Non è lieve cagion d’alto sospetto.
NUTRICE
Regia beltà, valore, e chiara fama
Del Cavalier, che fece i ricchi doni,
Se far non ponno or voi Regina amante,
Già far non denno il vostro Re geloso.
Deh! sgombrate del cor l’affanno, e l’ombra,
Ch’ogni vostro diletto or quasi aduggia.
Dianzi vi perturbava il sonno il sogno
Fallace, che giammai non serva intere
Le sue vane promesse, o le minacce;
E spavento vi diè notturno orrore
Di simolacri erranti, o di fantasmi;
Or desta, nuove larve a voi fingete,
E gli amici temete, e il Signor vostro;
E paventate i doni, e chi gli porta,
E chi gli manda, e le figure, e i segni,
Voi sola a voi cagion di tema indarno.
ALVIDA
A qual vendetta adunque ancor mi serba
Il temuto destino? E quale inganno,
O quali insidie vendicare io deggio?
Ov’è l’ingannatore? ov’è la fraude?
Chi la ricopre, ahi lassa! o chi l’asconde?
O tosto si discopra, o stia nascosa
Eternamente, io temo, io temo, ahi lassa!
E se del mio timor io son cagione,
Par che me stessa io tema. E sol m’affida
Del mio caro Signore il dolce sguardo,
E la sembianza lieta, e ’l vago aspetto.
Egli mi riconsoli, e m’assicuri.
Egli sgombri il timor, disperda il ghiaccio.
Egli cari mi faccia i doni, e i modi,
E i donatori, e i messi, e i detti, e l’opre;
E se vuole, odiosi. A lui m’adorno.