Il Re Torrismondo/Atto primo/Scena terza

Atto primo - Scena terza

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Atto primo - Scena seconda Atto secondo
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SCENA TERZA

TORRISMONDO, CONSIGLIERO

TORRISMONDO

Ahi! quando mai la Tana, o ’l Reno, o l’Istro,
O l’inospite mare, o ’l mar Vermiglio,
O l’onde Caspie, o l’Ocean profondo
Potran lavar l’occulta, e ’ndegna colpa,
Che mi tinse, e macchiò le membra, e l’alma?
Vivo ancor dunque, e spiro, e veggio il Sole?
Nella luce del mondo ancor dimoro?
E Re son detto, e Cavalier m’appello?
La spada al fianco io porto, in man lo scettro
Ancor sostengo, e la corona in fronte?
E pur v’è chi m’inchina, o chi m’assorge,
E forse ancor chi m’ama: ahi! quegli è certo,
Che del suo fido amor coglie tal frutto.
Ma che mi giova, oimè! s’al core infermo
Spiace la vita, se ben dritto estimo,
Ch’indegnamente il Sole a me risplenda,
Se ’l titolo real, la pompa, e l’ostro,
E ’l diadema gemmato e d’or lucente,
E la sonora fama, e ’l nome illustre
Di Cavalier m’offende, e tutti insieme
Pregi, onori, e servigj io schivo e sdegno;
E se me stesso in guisa odio ed aborro,
Che nell’essere amato offesa io sento?
Lasso! io ben me n’andrei per l’erme arene
Solingo, errante, e nell’Ercinia folta,
E nella Negra selva, o ’n rupe, o ’n antro
Riposto e fosco d’Iperborei monti,

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O di ladroni in orrida spelonca
M’asconderei dagli altri, il dì faggendo,
E dalle stelle, e dal seren notturno.
Ma che mi può giovar, s’io non m’ascondo
A me medesmo? oimè! son io, son io,
Quel che fuggito or sono, e quel che fuggo:
Di me stesso ho vergogna, e scorno edonta,
Odioso a me fatto, e grave pondo.
Che giova ch’io non oda, e non paventi
I detti, e’l mormorar del folle volgo,
O l’accuse de’ saggi, o i fieri morsi
Di troppo acuto e velenoso dente?
Se la mia propria coscienza immonda
Altamente nel cor rimbomba, e mugge;
S’ella a vespro mi sgrida, ed alle squille;
Se mi sveglia le notti, e rompe il sonno,
Ne mille miei confusi e tristi sogni.
Misero me! non Cerbero, non Scilla,
Così latrò com’io nell’alma or sento
Il suo fiero latrar; non mostro, od angue
Nell’Affrica arenosa, od Idra in Lerna,
O di Furia in Cocito empia cerasta,
Morse giammai, com’ella rode e morde.

CONSIGLIERO

Se la fede, o Signor, mostrata in prima
Nelle fortune liete, e nell’avverse,
Porger può tanto ardire ad umil servo,
Ch’osi pregare il suo signor talvolta,
Ch’i più occulti pensieri a lui riveli;
Io prego voi che del turbato aspetto
Scopriate le cagion, gli affanni interni,
E qual commesso abbiate errore, o colpa,
Che tanto sdegno in voi raccolga, e’ nfiammi

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Contra voi stesso, e sì v’aggravi, e turbi;
Chè di lungo silenzio è grave il peso
In sofferendo, e col soffrir s’innaspra,
Ma si consola in ragionando, e molce.
Ed uom, ch’alfin deporre in fidi orecchi
Il nojoso pensier, parlando, ardisca,
L’anima alleggia d’aspra e dura salma.

TORRISMONDO

O mio fedele, a cui l’alto governo
Di mia tenera età conceder volle
Il Re mio padre, e Signor vostro antico,
Ben mi ricordo i detti, ei modi, e l’opre,
Onde voi mi scorgeste; e quai sovente
Mi proponeste ancor dinanzi agli occhi,
D’onestà, di virtù mirabil forme,
E quai di Regi, o di guerrieri esempj,
Che nell’arti di pace, o di battaglia
Furon lodati; e qual acuto sprone
Di generosa invidia il cor mi punse;
E qual di vero onor dolce lusinga
invaghirmi solea. Ma troppo accresce
Questa dolce memoria il duolo acerbo,
Chè quanto io dal sentier, che voi segnaste,
Mi veggio traviato esser più lunge,
Tanto più contra me di sdegno avvampo.
E s’ad alcun fra quanti il Sol rimira,
O la terra sostiene, o ’l mar circonda,
Per vergogna celar dovessi il fallo,
Esser voi quel dovreste: alti consigli
Da voi già presi, e poi gittati, e sparsi.
Ma ’l vostro amor, la fede un tempo esperta,
L’etate, e ’l senno, e quella amica speme,
Che del vostro consiglio ancor m’avanza,

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Conforti al dir mi son; benchè paventa,
E inorridisce a ricordarsi il core,
E per dolor rifugge; onde sdegnosa
S’induce a ragionar la tarda lingua;
Però in disparte io v’ho chiamato, e lunge.
Dovete rammentar, ch’uscito appena
Di fanciullezza, e di quel fren disciolto,
Che già teneste voi soave e dolce,
Fui vago di mercar fama, ed onore:
Onde lasciai la patria, e ’l nobil padre,
E gli eccelsi palagi, e vidi errando
Varj strani costumi, e genti strane;
E sconosciuto, e solo io fui sovente,
Ove il ferro s’adopra, e sparge il sangue.
In quelli errori miei, com’al Ciel piacque,
Mi strinsi d’amicizia in dolce nodo
Col buon Germondo, ch’a Suezia impera,
Giovine anch’egli, e pur di gloria ardente,
E pien d’alto desio d’eterna fama.
Seco i Tartari erranti, e seco i Mòschi,
Cercando i paludosi e larghi campi,
Seco i Sarmati i’ vidi, e i Rossi, e gli Unni,
E della gran Germania i lidi, e i monti.
Seco all’estremo gli ultimi Biarmi
Vidi tornando, e quel sì lungo giorno,
A cui succede poi sì lunga notte;
Ed altre parti della terra algente,
Che giaccia a’ sette gelidi Trioni,
Tutta lontana dal cammin del Sole.
Seco della milizia i gravi affanni
Soffersi, e seco ebbi comuni un tempo
Non men gravi fatiche, e gran perigli,
Che ricche prede, e gloriose palme,

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Da’ nemici acquistate e da’ tiranni;
Onde sovente in perigliosa guerra
Egli scudo mi fe del proprio petto,
E mi sottrasse a dispietata morte:
Ed io talor, laddove Amor n’agguaglia,
La vita mia per la sua vita esposi.
Ma, dappoichè moriro i padri nostri,
Sendo al governo de’ lasciati Regni
Richiamati ambedue, gli officj e l’opre
Non cessàr d’amicizia; anzi disgiunti
Di loco, e più che mai di core uniti,
Cogliemmo ancor di lei frutti soavi.
Misero, or vengo a quel, che mi tormenta.
Questo mio caro e valoroso amico,
Pria che facesse elezione e sorte
Noi dell’arme compagni e degli errori,
Trasse in Norvegia alla famosa giostra,
Ond’ebbe ei poscia fra mill’altri il pregio.
Ivi in sì forte punto agli occhi suoi
Si dimostrò la fanciulletta Alvida,
Ch’egli sentissi in sulla prima vista
L’alma avvampar d’inestinguibil fiamma.
E bench’ei far non possa, o non ardisca,
Che fuor traluca del suo ardor favilla,
Che dagli occhi di lei sia vista, e piaccia;
Nondimen pur nudrì nel core il foco.
Nè lunghezza di tempo, o di cammino,
Nè rischio, nè disagio, nè fatica,
Nè veder nuovi regni, e nuove genti,
Selve, monti, campagne, e fiumi e mari,
Nè di nuova beltà nuovo diletto,
Nè, s’altro è, che d’Amor la face estingua,
Intepidiro i suoi amorosi incendj.

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Ma de’ pensieri esca facendo al foco,
Tutto quel tempo agli altri il tenne occulto,
Ch’errò per varie parti; e del suo core
Secretarj sol fummo Amore, ed io.
Ma, poichè richiamato al nobil regno
Egli s’assise nell’antico seggio,
L’animo alle sue nozze anco rivolto,
Mille strade tentando, usò mill’arti,
Mille mezzi adoprò, mille preghiere
Or come Re porgendo, or come amante,
Liberal di promesse, e largo d’oro,
Sol per indur d’Alvida il vecchio padre,
Che la sua figlia al suo pregar conceda.
Ma indurato il trovò di core e d’alma:
Perchè d’ingegno, di costumi, e d’opre
Altero il Re canuto, anzi superbo,
Di natura implacabile, e tenace
D’ogni proposto, e di vendetta ingordo,
La pace ricusò con gente avversa,
Da cui talvolta depredato, ed arso
Vide il suo regno, e violati i tempj,
Dispogliati gli altari, e tratti i figli
Dalle cune piangendo, e da’ sepolcri
Le ceneri degli avi, e sparse al vento;
Da cui non ch’altri un suo figliuol medesmo
Senza lagrime no, nè senza lutto,
Ma pur senza vendetta anciso giacque
Orribilmente; e l’uccisor Germondo
Egli stimò nella sanguigna mischia,
Non l’esercito solo, o solo il volgo.
E veramente ei fu, ch’in aspra guerra
N’ebbe le spoglie, e pur non volle il vanto.
Poichè sprezzare, ed aborrir si vide,

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Dell’inclita Suezia il Re possente,
Par che dentra arda tutto, e fuori avvampi
Di giusto sdegno incontra il fiero veglio,
Che di lui fatto avea l’aspro rifiuto.
Non però per divieto, o per repulsa,
O per ira, o per odio, o per contrasto,
Del primo amore intepidì pur dramma.
E ben è ver che negli umani ingegni,
E più ne’ più magnanimi e più alteri,
Per la difficoltà cresce il desio,
In guisa d’acqua, che rinchiusa ingorga,
O pur di fiamma in cavernoso monte,
Ch’aperto non ritrova uscendo il varco,
E di ruine il Ciel tonando ingombra.
Dunque ei fermato è di voler, mal grado
Del crudo padre, la pudica figlia,
E di piegar (comunque il Ciel si volga,
E sia fermo il destin, varia la sorte)
La donna, o di morir nell’alta impresa.
D’acquistarla per furto, o per rapina
Gli spiacque, e mille modi in sè volgendo
Ora d’accorgimento, ed or di forza,
Alfin gli altri rifiuta, e questo elegge.
Per un secreto suo fido messaggio,
E per lettere sue con forti preghi
Mi strinse a dimaudar la figlia al padre,
Ed avutala poi con sì bell’arte
La conducessi a lui, che n’era amante;
Nè Re saria di Re genero indegno.
Io, sebben conoscea che questo inganno
Irritati gli segni, e forse l’arme
Incontra me della Norvegia avrebbe,
Estimai ch’ove è scritto, ove s’intenda,

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D’onorata amicizia il caro nome,
Quel che meno per sè parrebbe onesto,
Acquisti d’onestà quasi sembiante;
E se ragion mai violar si debbe,
Sol per l’amico violar si debbe:
Nell altre cose poi giustizia osserva.
Io posposi al piacer del caro amico
L’altrui pace, e la mia; tanto mi piacque
Divenir disleal per troppa fede.
Questo fisso tra me, non per messaggi,
Nè con quell’arti, che sovente usarsi
Soglion tra gli alti Regi in pace, o ’n guerra,
Del suocero tentai la stabil mente:
Ma gl’indugi troncai; rapido corsi
Del mio voler messaggio, e di me stesso.
Ei gradì la venuta, e le proposte;
E congiunse alla mia la real destra,
Ed a me diede, e ricevè la fede,
Ch’io di non osservar prefisso avea.
Ed io tolto congedo, e la mia donna
Posta sull’alte navi, anzi mia preda,
Spiegai le vele; e negli aperti campi
Per l’ondoso Ocean drizzando il corso,
Lasciava di Norvegia i porti e i lidi.
Noi lieti solcavamo il mar sonante,
Con cento acuti rostri il sen rompendo;
E la creduta sposa al fianco affissa,
M’invitava ad amar pensosa amando:
Ben in me stesso io mi raccolsi, e strinsi,
In guisa d’uomo, a cui d’intorno accampa
Dispietato nemico. Il tempo largo,
E l’ozio lungo e lento, e ’l loco angusto,
E gl’inviti d’amor, lusinghe, e sguardi,

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Rossor, pallore, e parlar tronco, e breve,
Solo inteso da noi, con mille assalti
Vinsero alfin la combattuta fede.
Ahi! ben è ver, che risospinto Amore
Più fiero, e per repulsa, e per incontro
Ad assalir sen torna; e legge antica
È che nessuno amato amar perdoni.
Ma sedea la ragion al suo governo,
Ancor frenando ogni desio rubello,
Quando il sereno Cielo a noi refulse,
E folgoràr da quattro parti i lampi;
E la crudel fortuna, e ’l fato avverso,
Con Amor congiurati, e l’empie stelle
Mosser gran vento e procelloso a cerchio,
Perturbator del cielo e della terra;
E del mar víolento empio tiranno;
Che quanto a caso incontra, intorno avvolge,
Gira, contorce, svelle, innalza, e porta,
E poi sommerge; e ci turbaro il corso
Gli altri fremendo, ed Aquilone, ed Austro,
Quinci soffiaro impetuosi, e quindi
E Zefiro con Euro urtossi in giostra;
E diventò di nembi, e di procelle
Il mar turbato un periglioso campo.
Cinta l’aria di nubi, intorno intorno
Una improvvisa nacque orribil notte,
Che quasi parve un spaventoso inferno,
Sol da’ baleni avendo il lume incerto.
E s’innalzaro al ciel bianchi e spumanti
Mille gran monti di volubil onda,
Ed altrettante in mezzo al mar profondo
Voragini s’aprir, valli, e caverne,
E tra l’acque apparir foreste e selve,

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Orribilmente e tenebrosi abissi.
Ed apparver notando i fieri mostri
Con varie forme, e ’l numeroso armento
Terrore accrebbe; e ’n tempestosa pioggia
Pur si disciolse alfin l’oscuro nembo;
E per l’ampio Ocean portò disperse
Le combattute navi il fiero turbo.
E parte ne percosse a’ duri scogli,
Parte alle navi smisurate, e sovra
Il mar sorgente in più terribil forma,
Talchè schiere parean, con arme ed aste;
E ’n minacciose rupi, o ’n ciechi sassi,
Che son de’ vivi ancor fiero sepolcro;
Parte alle basi di montagne alpestri,
Sempre canute, ove risuona, e mugge,
Mentre percuote l’un coll’altro flutto,
E ’l frange, e ’mbianca, e come tuon rimbomba,
E di spavento i naviganti ingombra;
Parte inghiottinne ancor l’empia Cariddi,
Che l’onde, e i legni interi assorbe, e mesce.
Son rari i notatori in vasto gorgo,
Ma col flutto maggior nubilo spirto
Il nostro batte, e ’l risospinge a forza;
Sicch’a gran pena il buon nocchiero accorto
Lui salvò, sè ritrasse, e noi raccolse
D’un altissimo monte a’ curvi fianchi,
Dove mastra natura in guisa d’elmo
Forma scolpito a meraviglia un porto,
Che tutti scaccia i venti, e le tempeste,
Ma pur di sangue è crudelmente asperso,
Fiero principio, e fin d’acerba guerra.
Qui ricovrammo sbigottiti e mesti,
Ponendo il piè nel solitario lido.

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Mentre l’umide vesti altri rasciuga,
Ed altri accende le fumanti selve,
Con Alvida io restai dell’ampia tenda
Nella più interna parte. E già sorgea
La notte amica de’ furtivi amori:
Ed ella a me sì ristringea tremante
Ancor per la paura, e per l’affanno.
Questo quel punto fu, che sol mi vinse.
Allora amor, furore, impeto, e forza
Di piacere amoroso, al cieco furto
Sforzàr le membra, oltra l’usanza ingorde.
Ahi lasso! allor per impensata colpa
Ruppi la fede, e violai d’onore,
E d’amicizia le severe leggi.
Contaminato di novello oltraggio,
Traditor fatto di fedele amico,
Anzi nemico divenuto, amando,
Da indi in qua sona agitato, ahi lasso!
Da mille miei pensieri, anzi da mille
Vermi di penitenza io son trafitto:
Non sol roder mi sento il core, e l’alma:
Nè mai da’ miei furori o pace, o tregua
Ritrovar posso. O Furie, o dire, o mie
Debite pene, e de’ non giusti falli
Giuste vendicatrici, ove ch’io volga
Gli occhi, o giri la mente, e ’l mio pensiero,
L’atto, che ricoprì l’oscura notte,
Mi s’appresenta, e parmi in chiara luce
A tutti gli occhi de’ mortali esposto,
Ivi mi s’offre in spaventosa faccia
Il mio tradito amico; odo le accuse,
E le giuste querele, odo i lamenti,
L’amor suo, la costanza, ad uno ad uno

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Tanti merti, tante opre, e tante prove,
Che fatte egli ha d’inviolabil fede.
Misero me! tra i duri artigli, e i morsi
D’impura coscienza, e di dolore,
Gli amorosi martirj han loco, e parte;
E di lasciarla male amata donna,
Che lasciar converria, così m’incresce,
Che di lasciar la vita insieme io penso.
Questo il più facil modo, e questa sembra
La più spedita via d’uscir d’impaccio.
E poichè ’l duro, inestricabil nodo,
Onde Amore e Fortuna or m’hanno involto,
Scioglier più non si può, s’incida, e spezzi.
Ch’avrei questo conforto almen partendo
Da questa luce, a me turbata e fosca,
Ch’io medesmo la pena, e la vendetta
Farei del caro amico, e di me stesso;
L’onta sua rimovendo, e la mia colpa,
Se rimover si può commesso fallo;
Giusto in me, benchè tardi, e per lui forte.

CONSIGLIERO

Signor, tanto ogni mal più grave è sempre,
Quanto è in più nobil parte, e dal soggetto
Diversa qualità prende l’offesa.
E quinci avvien che sembra un leggier colpo
Nelle spalle sovente, e nelle braccia,
E nell’altre robuste e forti membra,
Quel ch’agli occhi saria gravoso, e certa
E dogliosa cagion d’acerba morte.
E però questo error, che posto in libra
Per sè non fora di soverchio pondo,
E saria forse lieve in uom del volgo,
Ed in quelle amicizie al mondo usate,

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Ov’è l’util misura angusta e scarsa,
Od in quell’altre, ch ’l diletto accoppia,
Molto (ch’io già negar non voglio, o posso)
In animo gentil grave diventa,
Tra grandezza di scettri e di corone,
E tra ’l rigor di quelle sante leggi,
Che la vera amicizia altrui prescrisse.
Error di Cavalier, di Re, d’amico
Contra sì nobil Cavaliero, e Re,
Contra amico sì caro, e sì fedele,
Fu questo vostro; e dee chiamarsi errore,
O se volete pur, peccato, o colpa,
O d’ardente desio, di cieco e folle
Amor si dica impetuoso affetto,
Nome di scelleraggine ei non merta.
Lunge, per Dio, Signor, sia lunge, e scevro
Da quest’opra, e da voi titolo indegno.
Non soggiacete a non dovuto incarco;
Che s’uom non dee di falsa laude ornarsi,
Non dee gravarsi ancor di falso biasmo.
Non sete, no, la passion v’accieca,
O traditore, o scellerato, od empio.
Scellerato è colui, se dritto estimo,
Che la nostra ragion, divina parte,
E del Ciel prezíoso e caro dono,
Dalla natura sua travolge, e torce,
Come si svolge il rio dal proprio corso,
E la piega nel male, e la trabocca,
Ed incontra al voler di chi la diede,
Guida all’opre la fa malvagie, ed empie
Precipitando; e ’l precipizio è fraude.
Ma chi senza fermar falso consiglio
Di perversa ragion trascorre a forza

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Ove il rapisce il suo desio tiranno,
Scellerato non è, per grave colpa.
Dove Amore il trasporti o pur disdegno,
D’ira, e d’amor possenti e fieri affetti.
La nostra umanitade ivi più abbonda,
Ov’è più di vigore; e rado avviene
Che generoso cor guerriero ed alto
Non sia spinto da loro, e risospinto,
Come da’ venti procelloso mare.
Però non ricusate al dolor vostro
Quel freno aver, che la ragion vi porge.
Lascio tanti famosi, e chiari esempj
E d’Alcide, e d’Achille, e d’Alessandro;
E lascio il vaneggiar de’ più moderni
Regi, vinti da Amore, e prima invitti.
Vedeste bella e giovinetta donna,
E fu nel poter vostro, e non vi mosse
La bellezza ad amar: costretto, e tardi
Voi rispondeste agli amorosi inviti,
Dando ad Amore e tre repulse e quattro:
Raffrenaste il desio, gli sguardi, e i detti.
Alfine Amor, Fortuna, il loco, e’l tempo
Vinser tanta costanza e tanta fede.
Erraste, e fu d’Amore, e vostro il fallo;
Ma però senza scusa, o senza esempio
Egli non fu; però di morte è indegno.
Nè morte, ch’uom di propria mano affretti,
Scema commesso errare, anzi l’accresce.

TORRISMONDO

Se morte esser non può pena, od emenda
Giusta del fallo, almen del mio dolore
Fia buon rimedio, o fine.

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CONSIGLIERO

Anzi principio,
E cagion fora di maggior tormento.

TORRISMONDO

Come viver debb’io? sposo d’Alvida,
O pur di lei privarmi? io ritenerla
Non posso, che non scopra insieme aperta
La debil fede; e s’io da me la parto,
Come l’anima mia restar può meco?
Il duol farà quel, che non fece il ferro.
Non è questo, non è fuggir la morte,
Ma scegliersi di lei più acerbo modo.

CONSIGLIERO

Non è duol così acerbo e così grave,
Che mitigato alfin non sia dal tempo,
Consolator degli animi dolenti,
Medicina, ed oblìo di tutti i mali.
Ma d’aspettare a voi nan si conviene
Comun rimedio, e ’l suo volgar conforto;
Ma dal valore interno, e da voi stesso
Prenderlo, e prevenir l’altrui consiglio.

TORRISMONDO

Tarda incontra al dolor sarà l’aita,
Se dee portarla il tempo; e debil fia,
Se dalla debil mia virtù l’attendo.

CONSIGLIERO

Virtù non è mai vinta; el tempo vola.

TORRISMONDO

Vola, quando egli è portator de’ mali,
Ma nel recare i beni è lento e zoppo.

CONSIGLIERO

Ei con giusta misura il volo spiega;
Ma nel moto inegual de’ nostri affetti

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È quella dismisura, e quel soverchio:
E noi pur la rechiam lassuso al Cielo.

TORRISMONDO

Or posto pur, che la ragione, e ’l tempo,
Ragion, misero me, vinta, ed inerme,
Dal dolor mi ricopra, e mi difenda;
Fia questa moglie di Germondo, e mia?
Se la fede, ch’io diedi, e potea darle,
Fu stabilita pur (come al Ciel piacque)
Coll’atto sol del matrimonio occulto,
Fatta è pur mia. S’io l’abbandono, e cedo,
La cederò, qual concubina a drudo.
A guisa dunque di lasciva amante
Si giacerà nel letto altrui la sposa
Del Re de’ Goti; ed ei soffrir potrallo?
Vergognosa union, crudel divorzio,
Se da me la disgiungo, e ’n questa guisa
La congiungo al compagno, ond’ei schernito
Non la si goda mai pura ed'intatta.
Tale aver non la può, chè ’l furor mio
Contaminolla, e ’l primo fior ne colse.
Abbia l’avanzo almen de’ miei furori;
Ma com’è legge antica: e passi almeno
Alle seconde nozze onesta sposa,
Se non vergine donna. Ah! non sia vero,
Che per mia colpi d’impudichi amori
Illegittima prole al fido amico
Nasca, e che porti la corona in fronte
Della Suezia il successor bastardo.
Questo, questo è quel nodo, oimè, dolente,
Che scioglier non si può se non sì tronca
Il nodo, ov’è la vita
A queste membra unita.

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CONSIGLIERO

Signor, forte ragione e vera adduci,
Perchè non fia, come rassembra, onesto,
Che tu vivo restando, Alvida possa
Unirsi in compagnia col Re Germondo:
Ma non la rechi già, nè può recarsi,
Che tu debba, a te stesso empio e spietato,
Armar la destra ingiuriosa, e l’alma
A forza discacciar dal nobil corpo,
Ove quasi custode Iddio la pose,
Onde partir non dee pria, che, fornita
La sua custodia, ei la richiami al Cielo;
Nulla dritta ragion, ch’a ciò ti spinga
Ritrovar si potria, ch’invan si cerca
Giusta in terra cagion d’ingiusto fatto.
Ma se tu senza vita, o senza donna
Dee rimaner Germondo, or si rimanga
Senza l’amata donna il Re Germondo.

TORRISMONDO

Egli privo d’amante, ed io d’amico,
E d’onor privo ancor nel tempo stesso;
Come viver potremo? ahi dura sorte!

CONSIGLIERO

Dura; ma sofferir conviene in terra
Ciò, che necessità comanda, e sforza;
Necessità regina, anzi tiranna,
Se non quanto è il voler libero e sciolto:
Ch’a lei soggetti son gli egri mortali,
E tutte in Ciel le stelle erranti e fisse,
Tutti i lor cerchi; e ne’ lor corsi obliqui
Servano eterni, e ’n variar costanti
Gli ordini suoi fatali, e l’alte leggi

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TORRISMONDO

Faccia quanto ha prefisso il mio destino.

CONSIGLIERO

Pur veggio di salvare alto consiglio
La tua fama e l’onor, che quasi affonda.
E s’egli è ver, ch’abbia sì fermo amore
L’alte radici sue nel molle petto
D’Alvida, anzi nel core e nelle fibre,
Consentir non vorrà ch’ignoto amante,
Nemico amante ed odioso amante,
Tinto del sangue suo le giaccia appresso.
Ella d’amarlo, e di voler negando,
Pertinace a’ tuoi preghi, o pur costante,
Ti porgerà cagion quattro e sei volte
Di ritenerla, e dieci forse e cento.
E dir potrai: non lece, e non conviensi
A Cavaliero il far oltraggio a donna.
Pregherò teco, amico; e teco insieme
Ogni arte usar mi giova, ed ogni ingegno:
Ma sforzar non la voglio. Il buon Germondo
S’egli è di cor magnanimo e gentile,
Farà ch’amore alla ragion dia loco.
Così la sposa tua, così l’amico,
Così l’onor non perderai.

TORRISMONDO

L’onore
Seguita il bene oprar, com’ombra il corpo.

CONSIGLIERO

Questo, ch’onor sovente il mondo appella,
È nell’opinioni e nelle lingue
Esterno ben, ch’în noi deriva altronde.
Nè mai la colpa occulta infamia apporta,
Nè gloria avrai d’alcun bel fatto ascoso:

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Ma perchè salvi coll’onor l’onesto,
E coll’amico l’amicizia e ’l regno,
Darai d’Alvida in vece a lui Rosmonda,
Sorella tua; che, se l’età canuta
Può giudicar di femminil bellezza,
Vie più d’Alvida è bella.

TORRISMONDO

Amor non vuole
Cambio; nè trova ricompensa al mondo
Donna cara perduta.

CONSIGLIERO

Amor d’un core
Per novello piacer così fia tratto,
Come d’asse si trae chiodo per chiodo.

TORRISMONDO

Lasso! la mia soror disprezza, e sdegna
Ed amori ed amanti, e feste e pompe,
Come già fece nell’antiche selve
Rigida Ninfa, o ne’ rinchiusi chiostri
Vergine sacra.

CONSIGLIERO

È casta insieme, e saggia,
E i soavi conforti e i saggi preghi,
Ei tuoi consigli e le preghiere oneste
Soppor faranle al nuovo giogo il collo.

TORRISMONDO

O mio fedel , nel disperato caso
Quel consiglio, che sol m’avanza in terra,
Da voi m’è dato. Io seguirollo; e quando
Vano ei pur sia, per l’ultimo refugio
Ricovrerò nell’ampio sen di morte,
Porto delle miserie, e fin del pianto,
Ch’a nessuno è rinchiuso, e tutti accoglie?

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I faticosi abitator del mondo,
E tutti acqueta in sempiterno sonno.

CORO

O Sapienza, o del gran padre eterno
Eterna figlia, o Dea, di lui nascesti;
Anzi gli Dei celesti,
A cui nulla altra fu nel Ciel seconda,
E da’ stellanti chiostri al Lago Averno,
E dovunque Acheronte oscuro inonda,
O Stige atra circonda,
Nulla s’agguaglia al tuo valor superno.
O Dea possente, e gloriosa in guerra,
Ch’ami, ed orni la pace, e lei difendi,
Se qui mai voli, e scendi,
Fai beata l’algente e fredda terra;
Mentre l’imperio ancor vaneggia, ed erra
Fuor d’alta sede, e ’l tuo favor sospendi,
Non sdegnar questa parte,
Perchè nato vi sia l’orrido Marte.
E quando i suoi destrier percuote, e sferza,
Sovra l’adamantino, e duro smalto,
E porta fero assalto,
E fa vermigli i monti, e ’l gel sanguigno,
Tu rendi lui, come sovente ei scherza,
Più mansueto in fronte, e più benigno,
D’irato e di maligno.
Tu che sei prima, e non seconda, o terza,
Tu la Discordia pazza, e ’l Furor empio,
Tu lo Spavento, e tu l’Orror discaccia;
E si disgombri, e taccia
Ogni atto iniquo, ogni spietato esempio.
Tu, peregrina Diva, altari e tempio
Avrai pregata, ove ascoltar ti piaccia.

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Deh! non voltarne il tergo,
Chè peregrina avesti in Roma albergo:
Ma innanzi al seggio, ove d’eterne stelle
Ne fa segno tuo padre, e tuoni e lampi.
Sparge in cerulei campi,
E fulminado irato arde, e fiammeggia,
Placalo, e queta i nembi e le procelle;
E seco aspira a questa invitta reggia,
Perch’onorar si deggia,
Chè non siamo a tua gloria alme rubelle.
Noi siam la valorosa antica gente,
Onde orribil vestigio anco riserba
Roma, e quella superba,
Che n’usurpa la sede alta e lucente.
Quinci gran pregio ha l’Orto e l’Occidente;
Gli ha gloriosi più di fronda, o d’erba,
Perchè del nostro sangue
Ivi la fama e la virtù non langue.
E ’n questo clima, ov’Aquilon rimbomba,
E con tre Soli impallidisce il giorno,
Di fare oltraggio e scorno
Al Ciel tentàr poggiando altri giganti.
E monte aggiunto a monte, e tomba a tomba,
Alte ruine, e scogli in mar sonanti,
A’ folgori tonanti;
Son opre degne ancor di chiara tromba.
D’altri Divi altri figli i regni nostri
Reggeano un tempo; altre famose palme
Ebber le nobili alme,
E que che già domar serpenti e mostri;
E là ’ve pria fendean con mille rostri
Le navi, che portàr cavalli e salme,
Poscia sostenne il pondo

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Degli eserciti armati il mar profondo.
Ed ora il Re, ch’il freno allenta, e stringe,
Dell’auree spoglie d’Occidente onusti
Cento avi suoi vetusti
Può numerare, e di gran padre è figlio.
A lui, che per onorla spada cinge,
Deh! rivolgi dal Ciel pietosa il ciglio,
S’è vicino il periglio,
Tu che sei pronta a’ valorosi, e giusti:
E se l’alme, deposto il grave incarco,
Alle sedi tornar del Ciel serene
Dalle membra terrene,
Tardi ei sen rieda a te leggiero, e scarco.
Ed armato il paventi al suon dell’arco,
L’ultima Tule, e le remote arene,
E la più rozza turba,
E s’altri a noi contrasta, o noi perturba.
O Diva! rami sacri,
Tranquilla oliva, a te non erge, e spande,
Nè si tesson di lei varie ghirlande:
Ma pur altra in sua vece il Re consacri
Alma, e felice pianta;
Tu sgombra i nostri errori, o saggia, e santa.