Il Partigiano D'Artagnan/Capitolo VIII
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La lotta di liberazione nei ricordi di un partigiano di San Giovanni in Persiceto (1994)
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Trovare gli agganci a Persiceto non era facile: si era dei clandestini e bisognava legarsi ad altri clandestini. Per giorni e giorni si frequentavano ex amici, cercando di sondare il punto di vista di ognuno senza sbilanciarsi troppo, per non correre inutili rischi.
Alla fine di settembre i primi contatti erano a buon punto, ci si era incontrati più volte di nascosto con i primi giovani: Vecchi Enrico, Bussolari Bruno (Bevero), Cotti (La Mòsa), Bonfiglioli (Pezal), Drusiani, Colombo, Lucchi Tonino.
Poi venivano gli anziani, che si erano posti il compito di organizzare questi ragazzi in gruppi, a compartimenti stagni, legati ad una cerchia ristretta, per evitare che lo scoprire uno di essi da parte fascista, significasse svelare tutta l’organizzazione. Comunque in poco tempo in tutto il Comune si formarono questi gruppi, più o meno numerosi, ma in ogni rione di case, anche piccolo, si era costituita una S.A.P. (Squadre di azione patriottica) o un G.A.P. (Gruppi di azione patriottica). Ognuno aveva vita autonoma, anche se legato ai vari comandi tramite staffette.
Qui è bene sottolineare che l’80-90% di esse erano donne, sorelle, madri o anche partigiane senza legami di parentela con gli uomini. Se l’obiettivo finale consisteva nell’insurrezione armata, vi era però un lavoro costante di sabotaggio verso l’esercito nazista e nello stesso tempo una grossa attività di propaganda antinazista. Ciò allo scopo di preparare l’opinione pubblica ad operare in tutti i modi possibili contro quelle forze che, per noi italiani, rappresentavano solo degli invasori.
Tutti sentivano ormai che G.A.P. e S.A.P. volevano dire libertà.
Chi era il gappista? Era una persona, prevalentemente un giovane, che apparteneva ad un gruppo, ma che operava soprattutto da solo: il mezzo di locomozione era la bicicletta, l’arma usata la pistola.
I gappisti svolgevano le loro azioni quasi sempre di giorno, agendo su direttive del Comitato di Liberazione Nazionale oppure su ordini ricevuti per radio dal governo oltre il fronte, a volte anche dietro indicazioni avute da volantini lanciati da aerei, in certe occasioni in divisa da fascista, se occorreva.
Le loro azioni erano le più disparate, dai sabotaggi (fili telefonici, binari ferroviari, chiodi a quattro punte micidiali, seminati per forare i pneumatici) all’eliminazione fisica di criminali e torturatori della brigata nera, sempre dietro ordine del Comitato Nazionale di Liberazione.
Ai Forcelli, una borgata a ridosso del torrente Samoggia, oggi non più esistente, abitava un gappista, di cui non conosco il vero nome, ma in battaglia era "Funsòn". Egli partì un mattino in missione, doveva andare a Cento, passando per Pieve. Arrivato sul ponte del fiume Reno si accorse che, dall’altra parte della strada, vi era un posto di blocco: retrocedere era ormai tardi; continuò, sperando di non essere fermato, poiché non tutti venivano arrestati ai vari posti di blocco, ma solo i sospetti. Giunto al centro, gli intimarono l’alt.
Fulmineo estrasse la pistola e sparò, continuando a pedalare, ne nacque un conflitto a fuoco vero e proprio. Una pallottola lo colpì ad una gamba, non gravemente per cui continuò a pedalare fino a giungere in Via Permuta, ove sapeva che risiedevano i suoi amici fidati: Serrazanetti Adelmo e i fratelli. Solo allora si fermò, ricevendo le prime cure, aveva una scarpa piena di sangue. Questa fu un’azione da gappista, anche se le circostanze non gliela fecero portare a termine.
I G.A.P. hanno sempre operato in autonomia, soltanto alla fine del 1944 furono organizzate creando la settima G.A.P., brigata a livello provinciale, che comprendeva quasi tutti i persicetani impegnati contro i fascisti.
Le S.A.P. invece erano Squadre prevalentemente composte da tre a cinque persone, a volte più numerose, organizzate in gruppi e che, oltre a tutte le attività proprie dei gappisti, portavano a termine azioni congiunte. Essi molto spesso non disponevano solo di pistole, ma anche di fucili e non furono pochi quelli che risultarono armati perfino di mitra e di mitragliatrici. Anche le S.A.P. operavano in modo autonomo, questo fino a metà del 1944, dopo anch’esse furono inquadrate in varie brigate, con l’obiettivo di un’insurrezione armata finale.
E noi della Via Permuta, in modo autonomo, fin dall’autunno ’43 costituimmo una S.A.P., che ritengo sia stata una delle più attive nel persicetano. Infatti quel tratto di strada, che chiamasi Via Permuta-Lupria, in frazione di Amola, era a quei tempi abitato da molti giovani, fra i quali Scagliarini Mario, maresciallo pilota ed io, organizzati nei ribelli (così erano chiamati, in un primo tempo, quelli che avrebbero composto la resistenza armata).
Iniziammo i contatti per primi proprio Scagliarini Mario ed io, fummo invitati ad una riunione. L’appuntamento era oltre il Samoggia, là ci recammo, ma era solo il primo posto d’incontro. Una signorina, quasi una ragazzina, in qualità di staffetta, ci accompagnò nel luogo prestabilito. Entrammo in una cucina abbastanza grande, là vi era una quindicina di persone, chi in piedi, chi seduto. Non conoscevo nessuno, oltre a Scagliarini.
Senza tanti preamboli uno si alzò in piedi, disse che si chiamava Bencis (nome di battaglia? Mai più visto!) e fece una relazione, non è che analizzasse la situazione, né che si dilungasse su argomenti di carattere politico immediati o futuri, di qualsiasi natura, ma, date le circostanze, l’importante era agire e agire subito.
In ogni agglomerato occorreva: eleggere un comandante, organizzare un gruppo armato e ad ogni occasione operare dei sabotaggi al nemico, facendo saltare tratti di strada ferrata, per ritardare la marcia ai convogli tedeschi, seminare sulle strade chiodi a 4 punte, una delle quali sempre avrebbe forato la gomma dell’automezzo bloccandolo, tagliare tutte le linee di comunicazione possibili naziste, impedire che i tedeschi asportassero il grano in Germania, sabotando, se era il caso, anche la trebbiatura, operare infine in tutti i modi realizzabili per danneggiare l’invasore.
In quei tempi non vi erano ancora brigate, battaglioni Garibaldi, Matteotti, Giustizia e Libertà... ma soltanto ribelli, autonomi, ma pur sempre ribelli (così ci definiva la brigata nera del rinato governo Mussolini).
A quella prima riunione, oltre il Samoggia, eravamo in due della Via Permuta. Occorreva eleggere il comandante ed il vice comandante. Il che si risolse facilmente: Scagliarini, comandante; Cotti, vice comandante. Ma per tutto il resto? Arrangiarsi! Armamento? Arrangiarsi!
Dal novembre al dicembre 1943 riuscimmo ad organizzare il gruppo ribelli Via Permuta S.A.P., composto da:
- Scagliarini Mario
- Cotti Alberto
- Serrazanetti Alessandro
- Zanetti Ariodante
- Scagliarini Giorgio
- Scagliarini Riziero
- Ghèro
- Vecchi Enrico
- Cotti "La Mòsa" per i collegamenti con Bologna.
Il gruppo non si riunì tutto al completo che poche volte, ma alla spicciolata, un massimo di tre per volta. La base di ritrovo era la casa di Cremonini, adatta sia per le persone fidate che l’abitavano sia perché isolata e fuori da occhi indiscreti.
L’attività era quella di tutti gli altri gruppi; costituiva un grosso pericolo anche solo uscire di casa, poiché, oltre al coprifuoco (per cui dopo una certa ora nessuno poteva circolare), in molte case coloniche sparse per tutto il territorio, vi erano accantonati dei tedeschi i quali svolgevano sia servizi di sorveglianza che azioni di pattuglia e non si poteva sapere dove.
Vi erano associazioni di partigiani abbastanza numerose capaci di costruire con mezzi di fortuna i chiodi a quattro punte; a pacchi venivano consegnati ai vari gruppi (G.A.P. e S.A.P.) che, quasi tutte le notti, andavano a seminarli per le strade principali. Ne risultava un’ecatombe di pneumatici e, di conseguenza, colonne e colonne naziste bloccate.
L’aspetto propagandistico era importante. Esisteva a Persiceto un imprenditore al quale ci si poteva rivolgere per avere documenti validi sia per circolare che per non rispondere al bando di chiamata alle armi (che il gen. Graziani nel governo di Mussolini a Salò aveva emanato). L’imprenditore organizzò dei persicetani per recarsi a Baragazza (frazione di Castiglion dei Pepoli) con l’obiettivo di costruire fortificazioni, camminamenti... per quella che sarebbe poi diventata la linea gotica. Fui incaricato di portare lassù manifesti che, inneggiando alla resistenza, facevano appello ai giovani, perché andassero coi ribelli.
Addirittura fui invitato anche a fare opera di convincimento attraverso un discorso (era un comizio?). Mi recai di sera oltre Cà di Landino; vi erano tre baracche in legno, gli operai riposavano. Entrai, molti mi conoscevano. Che cosa dire? Non lo sapevo, non ero in grado di cominciare, non riuscivo a pensare quattro parole convincenti. Entrai e salutai alzando il braccio con il pugno chiuso e gridai: «Evviva i ribelli!».
Parlammo; molti di essi li conoscevo, infatti come già detto, erano tutti persicetani che l’impresa Robotti aveva assunto sotto il controllo della Todt. Perché c’erano andati? Per non essere deportati in Germania, per non presentarsi alla chiamata alle armi di Graziani, per avere un certificato con timbro tedesco che giustificasse la loro mancata presentazione alla chiamata.
C’erano tanti giovani che conoscevo di vista. Bravi ragazzi. Mi fermai a parlare con loro, sottolineando che stavano fortificando la futura Linea Gotica, costruendo strade, camminamenti, facendo delle spianate in punti strategici; li invitai ad aderire alla resistenza... Non vennero in montagna, però poco dopo tutti, in un modo o in un altro, si eclissarono dalla Todt.
A volte nelle varie azioni vi erano anche spunti umoristici. Una sera avemmo il compito di attaccare per tutta Persiceto manifesti antinazifascisti ed inneggianti alla resistenza. Vecchi Enrico ed io ci organizzammo, avevamo una mantellina verde militare che arrivava alla cintura, sotto, a tracolla, un barattolo di colla con pennello, le tasche della giacca piene di manifestini formato dieci per dieci circa; mentre camminavamo, da sotto la mantella prendevamo un manifesto, col pennello gli davamo un po’ di colla e senza fermarci lo si attaccava al muro o alle colonne dei portici.
Avevamo ormai riempito il paese, mancava solo Strada Maestra (ora Corso Italia). Incominciammo da porta Vittoria, in ogni colonna attaccavamo un manifesto. Non una luce, buio assoluto, si girava per conoscenza, non perché si intravedesse qualcosa.
Eravamo arrivati all’incrocio di Via Giulio Cesare Croce, due della brigata nera sbucarono a destra, con passo spedito, anche se un poco avvinazzati (usciti dall’osteria Cacciatore "al fòm"), lo scontro fu inevitabile, fu un abbraccio, ma noi avevamo il manifesto in mano pronto, già spalmato di colla e fummo obbligati ad appiccicarglielo nella schiena. Noi non aprimmo bocca, loro non se la sentirono di darci l’alt e così continuammo il nostro lavoro, raggiungendo Porta Garibaldi. In questo periodo eravamo armati di due pistole, ma occorreva armare veramente il gruppo, prepararlo per l’eventuale sollevazione, quando l’occasione si fosse presentata.
Si riunì il gruppo quasi al completo e forse fu l’unica volta, sull’argine della bonifica in Via Accatà, dietro casa Zanetti, la discussione fu ampia; argomento: le armi, dove prenderle?
Lungo la linea ferroviaria Bologna-Brennero, per evitare che i ribelli facessero saltare tratti di binari, i nazisti avevano istituito un servizio di polizia, con uomini armati di fucili con due caricatori ognuno. Decidemmo di assaltare i poliziotti e prendere le loro armi.
Ma noi su cosa contavamo come armamento? Una pistola Beretta 7,65 con un caricatore, una rivoltella, dissepolta dopo tanti anni e che quindi presentava solo la sagoma, che non avrebbe mai sparato (per fortuna), altrimenti il pericolo sarebbe stato per chi l’impugnava.
Nonostante l’armamento, l’azione si fece lo stesso, inutile però far partecipare tutto il gruppo. Si andò in cinque: Scagliarini Giorgio, Zanetti Ariodante, Cotti Alberto ed altri due. Ci trovammo sul ponte a mezzanotte io e gli altri compagni: era un buio perfetto, non ci si vedeva a mezzo passo di distanza. Dal canale usciva una nebbia grigia, che rendeva ancor più confusa la scena. Prendemmo gli ultimi accordi.
Fu in questo momento che due dei nostri compagni ci lasciarono, perché non se la sentivano di agire quella sera. Restammo in tre, ma decisi come trenta. Si trattava di disarmare cinque dei così detti "polizai", che facevano la guardia alla ferrovia. Questi erano armati di moschetto con due caricatori ciascuno (come già accennato), mentre noi non avevamo che una Beretta con sei colpi, una pistola a rotazione scarica e per di più rotta ed un bastone tenuto sottobraccio a mo’ di mitra.
C’incamminammo lentamente con circospezione lungo la banchina del canale; l’erba era tutta bagnata e si scivolava maledettamente. Camminavamo da circa una decina di minuti, quando un rumore di passi striscianti ci fece arrestare col cuore in gola. Ci immobilizzammo. I passi avanzavano verso di noi, incontro a noi; qualcuno camminava sull’argine del canale. Presi il coraggio a due mani e gridai: «Chi va là?»
Quella persona dovette prendersi un gran spaghetto, perché lo sentimmo borbottare qualcosa, poi con una voce incerta disse più forte: «Sono io!». «Io chi sarebbe?» chiese uno dei miei compagni. Era il casellante, che ritornava dal servizio. Avute queste informazioni decidemmo di lasciarlo proseguire. Il casellante s’incamminò, ma fatti alcuni passi, si volse: «Ma voi chi siete?» «Polizia!» Lo sentimmo ancora brontolare chissà cosa.
Proseguimmo il cammino. Giunti al ponte prospiciente la garitta, ove stavano di guardia "i polizai", lo attraversammo carponi e scendemmo dentro l’argine del canale, poi, pian piano, fatte alcune centinaia di metri, risalimmo ed attraversammo, ventre a terra, la ferrovia e ci gettammo in un fosso laterale. Questo ci guidò proprio sotto la garitta dalla parte posteriore e lì, di nuovo riuniti, decidemmo il piano dell’ultima fase d’attacco.
A me toccò la finestrella posteriore da guardare con la mia pistola scarica, all’altro la finestrella sinistra ed al terzo, che aveva la Beretta, la porta d’entrata. Strisciando sull’erba, ci portammo ognuno ai propri posti e, già stavo per dare il segnale d’attacco, quando dalla strada vicina giunse un rumore di passi e di voci. Ritornammo precipitosamente nel fosso provvidenziale (benché fosse pieno d’acqua). Era il cambio della guardia. Per un buon quarto d’ora stettero a parlare ed a discutere, mentre noi con l’acqua al ginocchio sbuffavamo d’impazienza. Ma infine le guardie smontanti se ne andarono.
Tutto ritornò nel silenzio normale. Era giunto il momento di fare il colpo. Ci dividemmo per andare ognuno al suo posto e quando vi giunsi m’affacciai al finestrino posteriore, già il mio compagno aveva raggiunta la porta e stava in quel momento gridando: «Mani in alto!»
Vi fu un certo tramestio dentro la garitta e sentii uno che diceva sottovoce ad un altro: «Presto, dammi il moschetto!» Il buio era completo, non ci si vedeva un accidente ma, risoluto, misi la pistola dentro al finestrino e gridai: «Arrendetevi, siete circondati!» La violenta luce di una torcia elettrica mi investì in pieno, ma col cappello sugli occhi, il fazzoletto rosso sul resto del viso, la mia "terribile" pistola col grilletto alzato, feci certamente una brutta impressione sul malcapitato illuminatore, perché subito la luce della lampada si volse al soffitto.
Prendemmo le armi e filammo. Zanetti appoggiò alla garitta il ramo di pioppo dicendo: «Vi lascio il mitra». Il colpo era riuscito! E mentre ci ritiravamo, Dante Zanetti ebbe un’uscita felice dicendo a mezza voce, ma che tutti sentissero distintamente: «Al camion!» Dando così l’impressione che si fosse in tanti e che si venisse da lontano. Infatti il giorno dopo s’imparò che una grossa formazione di ribelli con automezzi, armati di mitra, mitragliatrice e bombe aveva assalito e disarmato un gruppo di "Polizai".
Dalla stazione di Persiceto a quei tempi vi era una linea secondaria, chiamata Veneta, che univa al Capoluogo la frazione di Decima, da cui si giungeva a Crevalcore e a Cento. Durante la guerra questo tronco era in disservizio e serviva solo ai tedeschi come parcheggio ai convogli già pronti per la Germania, ma anche per dare precedenza ad altri più urgenti, restavano in sosta, a volte poche ore, a volte decine di giorni ed essendoci all’Accatà un tratto di strada, che si univa a Via Permuta e che chiamasi proprio Via Accatà, i tedeschi erano costretti a lasciare un tratto libero dai loro convogli.
Un giorno (nella primavera 1944), passando per Via Accatà, proprio nel carro terminale di un convoglio contro la strada, vidi installata una mitragliatrice pesante, forse stava per essere trasferita? Forse era avariata? Ci riunimmo subito a casa di Serrazanetti Alessandro (Tito) assieme anche a Scagliarini Mario. Decidemmo di tentare il recupero di quell’arma che, anche se guasta, avremmo poi trovato il modo di riaggiustare.
Andammo in due, Tito ed io. Quella sera c’era la luna, passando per i campi ci avvicinammo strisciando carponi e notammo che vi era un tedesco di guardia, ma chiaramente non faceva solo la guardia alla mitragliatrice, ma a tutto il convoglio, poiché con il mitra pronto, guardingo, percorreva il convoglio di circa 200 metri, dopodiché passava dalla parte opposta, facendo lo stesso tragitto a ritroso.
In un attimo mi accordai con Tito. Io sarei andato sul carro e lui avrebbe preso l’arma, che gli avrei allungato. Così facemmo. Aspettai che la sentinella alla fine del convoglio passasse dalla parte opposta, con un balzo fui sul carro, vi era anche un nastro di munizioni che da giù non si vedeva, allungai prima il nastro poi l’arma. Sparimmo in un istante. Credo che da quel momento il nostro gruppo fosse il meglio armato del Comune.
Dopo circa una quindicina di giorni un altro convoglio era fermo al centro della Tenuta Lenzi (Locatello). Era questo un posto ideale per il mascheramento aereo, in quanto vi erano diversi filari di alti pioppi che coprivano tutto. In seguito ad una breve riunione il gruppo decise di fare un sopralluogo di notte, poiché non vi erano strade e poi per vedere il da farsi.
Il convoglio non era sorvegliato, ce n’eravamo subito assicurati; entrammo in un vagone, rompendo i sigilli, il pavimento era pieno di motori elettrici non imballati, ma sicuramente nuovi. Che fare? Asportarli? Impensabile. Bruciarli? Non avevamo il necessario. Davanti al convoglio vi era uno stagno triangolare abbastanza ampio (chiamato Bora). Li buttammo tutti nello stagno; qualsiasi atto di sabotaggio ai nazisti era valido.
A Bologna vi era da tempo il Comitato di Liberazione operante. Verso la primavera da questo comitato ci venne l’ordine di fare qualche cosa per le mondine che lavoravano da Lenzi (allora una delle tenute più grosse, se non la più grande). Si doveva operare affinché iniziassero uno sciopero che, oltre a rivendicazioni salariali, assumesse anche aspetti politici. Noi sapevamo dove si riunivano le mondine al mattino, conoscevamo in quale appezzamento della vasta tenuta avrebbero lavorato il giorno dopo.
Partimmo, ormai buio, Cotti La Mòsa, Vecchi Enrico ed io. Facemmo un largo giro per evitare quelle case (ed erano già molte) ove erano accantonati i tedeschi. Arrivati al Locatello, Vecchi ed io, armati, montammo la guardia, mentre Cotti La Mòsa con un grosso barattolo di vernice fece, per tutto il fabbricato, una serie di scritte invitanti allo sciopero. Ci portammo poi sul posto dove le donne avrebbero dovuto scendere al lavoro ed ovunque mettemmo manifestini invitanti allo sciopero chiedendo aumenti salariali e generi in natura, unitamente a frasi che richiamavano alla pace.
Al mattino le operaie non scesero, erano interdette. L’agrario telefonò. Arrivò la brigata nera, diretta da un ufficiale tedesco, su un camion. Appena arrivati i fascisti piazzarono mitraglie agli angoli del fabbricato ed invitarono con modi bruschi le mondine a scendere al lavoro. Esse non si mossero.
Minacciarono allora di fucilarne una su dieci; decimazione. Non si mossero, anzi, quelle che invece di andare al posto di ritrovo si erano recate direttamente là dove avrebbero cominciato il lavoro, letti i manifestini, s’incamminarono verso casa. Visto come si mettevano le cose un sottufficiale della brigata nera che nel frattempo aveva minacciosamente fatto allineare le donne al muro, concluse che, per la sua intercessione presso il comandante tedesco, ma anche perché temevano un imminente attacco di ribelli, le brigate nere non avrebbero fucilato nessuna e si sarebbe concesso quello che chiedevano.
In questa occasione le mondine del persicetano tennero testa all’invasore e ai suoi servi, anche se qualcuna ebbe traumi e conseguenze psichiche per tutta la vita.
Una mattina, mentre il nostro gruppo non era ancora riunito, un manipolo di brigatisti neri circondò la casa di "Tito", Serrazanetti Alessandro, il quale, avendo risposto al bando Graziani, che prevedeva la presentazione alle armi degli appartenenti alle classi 1920-21-22-23-24-25, si era presentato ed era stato regolarmente militarizzato, non so in quale città. Dopo pochi giorni però risultò latitante e quindi si pensò che fosse scappato a casa. Perquisirono dappertutto senza renderne la ragione ai familiari ed alla fine, non trovandolo, comunicarono al padre che Alessandro risultava disperso. Da allora però la sua casa era continuamente sorvegliata, giorno e notte.
Occorreva prendere una decisione al riguardo. Sul terreno della Partecipanza, a quei tempi, data la scarsità dei mezzi di trasporto, in ogni parte l’assegnatario aveva in qualche modo costruito dei casòtti, chi in muratura, chi in legno, chi in frasche; essi servivano come ricovero attrezzi. Ne esistevano centinaia. Mio nonno ne possedeva uno.
Tito lo accantonammo lì, così il luogo diventò anche una delle basi del gruppo. Ci riunivamo prima delle azioni, si discuteva la modalità dell’intervento, si destinava il numero dei partecipanti e chi doveva prender parte, si studiava quindi un piano d’azione, cercando di capire anche gli eventuali imprevisti e di conseguenza il comportamento da tenersi.
Quando tutto il gruppo restava per qualche giorno inattivo, era mia sorella Cotti Rosa che, oltre al vitto, ci portava le novità, altre volte invece era mio cognato Scagliarini Nello. Un giorno mia sorella mi riferì che la brigata nera mi cercava, avevano bisogno di delucidazioni e che appena avessi potuto, mi fossi presentato al loro comando. Era un grosso rischio, gli amici mi sconsigliarono, ma io andai ugualmente; mi riuscì bene, ma a mente serena poi dovetti convenire che questo mio atto fu un grosso errore e che non dovevo più giocare con la sorte e quel modo. Fu l’esonero che ancora possedevo a rendermi tranquillo.
Partii in bicicletta, vestito solo con la canottiera e i calzoni corti. La caserma-comando allora era l’attuale sede dei Carabinieri, le finestre fortificate con sacchetti di terra, come tutta la parte anteriore che formava una trincea difensiva, in considerazione che altre caserme simili in diversi paesi erano state attaccate di notte dai ribelli.
Quando entrai, notai solo due brigatisti, uno non lo conoscevo, l’altro era un amico, Toselli; assieme eravamo stati con il VII Autoparco, in Russia a Dnepropetrovsk, Stalino, Vorosilovgrad, facendo tutta la ritirata russa. Fu lui a parlare per primo. Esordì pronunciando discorsi sulla patria, sull’onore, sull’opportunità di riprendere il posto che con dignità dovevamo mantenere fino alla vicina vittoria. Mi trattenne l’esonero perché non più valido.
Erano tante le frasi che pensavo di dirgli, ma mi trovavo nella fossa del lupo, un passo falso e sarebbe stata la fine. Risposi di sì, ero d’accordo, senz’altro avrei aderito, chiedevo solo cinque minuti, poi mi sarei presentato. Uscii, ma non mi feci più vedere. Un giorno Bussolari Bruno (Bevero), tramite Vecchi Enrico mi fece sapere che uno della brigata nera, dietro sua richiesta, avrebbe rifornito la resistenza di munizioni per fucili, il giorno e l’ora erano già fissati, il luogo era a casa del milite, si doveva solo ritirare la merce.
Andai anche questa volta solo, però armato e di un’arma eccezionale, una pistola che, all’occorrenza sparava anche a raffica, calibro nove lungo, con due caricatori. La casa si trovava nel Tígrai, in Via Sant’Apollinare; salii una scaletta corta, bussai e forte pronunciai la parola convenuta, la porta s’aprì, un uomo non tanto alto di statura e che non conoscevo si presentò ed in fretta mi diede una sporta piena per metà di caricatori; lo salutai e me ne andai. Soltanto dopo la Liberazione seppi che lo chiamavano "Polli".
Passai in bicicletta davanti alla caserma, vi era un milite solo, mi riconobbe, non disse nulla, forse perché si rese conto che ero troppo franco. Però da quel momento anch’io fui braccato, giorno e notte, a volte era impossibile avere contatti. La sorveglianza a Tito era continua, non poteva mai presentarsi a casa, così dopo un lungo dibattito sull’opportunità o meno, decidemmo all’unanimità d’inviarlo in una formazione organizzata ed operante lontano da Persiceto. Anche la base, scelta nel casotto sui terreni della Partecipanza, con l’andirivieni di staffette (per recapitarci cibo da parte di mia sorella Rosa o del marito Nello), poteva dare adito a sospetti e quindi ad eventuali rastrellamenti.
Inoltre, per entrambi, essendo molto attivi, stava diventando troppo pesante restare rintanati tutto il giorno o quasi. Sapevamo che un altro gruppo operava nei dintorni, quello di Brunello e dei fratelli Fini e che, a questi ultimi, addirittura era stata bruciata la casa da parte della brigata nera.
I rischi che si facevano correre alla popolazione della Permuta, per rastrellamenti, ogni giorno che passava, erano sempre maggiori, se noi due ricercati fossimo ulteriormente restati in zona. Sapevamo che questo gruppo aveva la base nella Palata (località confinante con Crevalcore). Unirci a loro? Era cosa fattibile, anche perché Brunello era un mio lontano parente e i componenti stessi erano tutti o quasi amici o conoscenti. Ma l’unirci a loro non avrebbe risolto i problemi che tanto avevamo dibattuto e per i quali si era deciso di cambiare zona. Incaricammo allora Cotti La Mòsa che, in qualità di elemento di collegamento, ci procurasse la possibilità di avere contatti con formazioni operanti lontano da Persiceto.
Dopo breve tempo, venne alla nostra base; aveva fatto un buon lavoro, se volevamo andare, possedeva un recapito in Romagna: quello del gruppo abbastanza numeroso ed organizzato dei Fratelli Corbari, che si diceva operante nella zona di Gambettola.