Il Partigiano D'Artagnan/Capitolo I
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La lotta di liberazione nei ricordi di un partigiano di San Giovanni in Persiceto (1994)
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Noi eravamo quella generazione che, secondo gli obiettivi del Duce, avrebbe dovuto fare dell’Italia un popolo di guerrieri e di conquistatori, per cui, fin dall’età di sei - sette anni ci si faceva indossare una divisa (Balilla) e alla domenica mattina ci si recava in Piazza Giosuè Carducci per fare istruzione militare.
Inquadrati in diversi gruppi, con in testa alcuni tamburini (figli di gerarchi) affiancati da ragazzini della nostra età, resi graduati dai genitori (anch’essi gerarchi), per tutta la mattinata si marciava avanti e indietro per il piazzale; alcuni erano in possesso di un fac-simile, formato ridotto e giocattolo del modello 58, moschetto in dotazione ad una parte del nostro esercito (gli altri erano ancora dotati del modello 1891). I figli dei benestanti formavano un gruppo a sé, avevano un fucile e disponevano di una divisa più raffinata.
Normalmente venivamo comandati da un gerarca anziano che, in alta uniforme, con cinturone e pistola, stivali lucidissimi, fez fuori ordinanza con tutta la frangetta laterale, si pavoneggiava, passando davanti alla popolazione, facendo anche tintinnare una serie di croci e di medaglie, "patacche" molto spesso avute operando da scritturale, imboscato in qualche distretto o fureria.
A queste adunate bisognava andare, diversamente si sarebbero presi dei provvedimenti nei confronti dei familiari. I genitori dovevano comprare ai ragazzi la divisa, consistente in un paio di calzoni corti (alle famiglie povere la divisa veniva data dal regime, affinché non ci fossero scuse), di color grigio verde militare di allora, un paio di calzettoni, la camicia ed il fez, specie di sacchetto rivoltato, dal cui centro pendeva un nastro, terminante con un fiocco che, mentre si camminava, continuamente faceva un movimento oscillatorio, quasi fosse un pendolo da una parte all’altra all’altezza delle spalle. Il tutto era rigorosamente di color nero.
Con il passare degli anni si continuava intensificando le esercitazioni anche al sabato pomeriggio (definito sabato fascista): come avanguardisti, giovani fascisti, poi premilitari ed infine ci si avvicinava alla chiamata di leva. Sabato fascista in quanto non si lavorava, si andava nel cortile di una caserma e, all’ordine del capo, figlio di titolare d’azienda, dovevamo, dopo uno scrupoloso appello, marciare e rimarciare per ore. Va detto che l’istruzione militare era sempre e solo costituita da marce.
Sul finire del 1937 mi portai a Roma, ove già da anni vivevano mio padre, un fratello ed alcuni miei parenti; feci domanda di lavoro presso un’azienda governativa ed essendo avanguardista (possedevo un documento indispensabile per lavorare), fui assunto immediatamente.
Nell’autunno del 1938 si tenne un incontro fra Mussolini ed Hitler a Roma. Grande fu la preparazione per quest’evento. Esso doveva sancire un’amicizia del nostro regime con quello nazista, poiché effettivamente erano gemelli, avendo il Führer copiato dal fascismo sia la presa del potere che il comportamento, cioè l’eliminazione fisica degli avversari politici, come era avvenuto da Matteotti fino alle persone più umili.
Venne dunque Hitler ad incontrare Mussolini, e fra i preparativi per riceverlo, dal Brennero fino a Roma, in tutte le case che fiancheggiavano la ferrovia, furono scritte parole fatidiche come «È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende», oppure «Solo Dio può piegarci, gli uomini e le cose mai», «Credere, obbedire, combattere» con a destra una grossa "M", che stava per Mussolini.
Addirittura i gerarchi persicetani, per dimostrarsi anch’essi zelanti, presero un grosso granchio, scrivendo nella fiancata di Porta Garibaldi, quella a nord del Paese: «Tu sei tutti noi». La scritta vi rimase per molto tempo, la vidi anch’io quando tornai a Persiceto. A quel tempo Porta Garibaldi era adibita a carceri mandamentali, vi erano rinchiusi i ladri, i truffatori... «Tu sei tutti noi»!
Altro provvedimento preso per il passaggio di Hitler fu l’arresto di tutti quelli notoriamente antifascisti e specialmente di coloro che erano stati socialisti per il passato. Lungo il tratto che va dal Brennero a Roma vi erano case coloniche, all’epoca, avendo quasi tutti i contadini delle mucche, si ammassava il letame così come da anni veniva fatto. Il regime ordinò che ogni letamaia, visibile dalla ferrovia, venisse ben squadrata e verniciata di bianco: l’Italia fascista voleva apparire un giardino. Hitler fu fatto scendere alla stazione Ostiense e prese posto sulla macchina scoperta, insieme a Mussolini, in piedi, con il braccio teso per il fatidico saluto.
L’auto procedeva a passo d’uomo, per permettere la visione delle bellezze storiche della città: porta San Paolo con la piramide di marmo, l’arco di Costantino, il Colosseo, via dell’Impero e piazza Venezia, ove maestoso si erge l’Altare della Patria. Quindi entrò a Palazzo Venezia, sede del Duce dove c’è quel balcone, dal quale tante volte egli si era affacciato per parlare agli italiani.
Lungo tutto il tragitto, ai lati della strada, erano stati costituiti dei giganteschi tripodi, sorreggenti un bacile rotondo di due metri circa, da accendere alla sera. Alla vista apparivano di travertino massiccio, ma in realtà erano di truciolato pressato. Io allora ero occupato come modellista all’ottica meccanica italiana con sede oltre la basilica di S. Paolo (1.200 dipendenti). Ero avanguardista come tutti quelli della mia età là occupati.
Il nostro capo-gruppo era il figlio del titolare dell’azienda, come già accennato. Fummo comandati a comporre la guardia d’onore per il passaggio dei due gerarchi. L’adunata fu alle tre di notte. In divisa impeccabile, il capo gruppo fece l’appello, non mancava nessuno; l’assenza, lo si sapeva, comportava il licenziamento. Venne distribuito ad ognuno un moschetto, vero questa volta, non un fac-simile come ai balilla, però senza munizioni.
Fummo portati al posto a noi assegnato e scaglionati ai lati della strada; eravamo la guardia d’onore. Rimanemmo in attesa fin quasi a mezzogiorno, quando il capogruppo diede il presentat-arm, sull’attenti, con baionetta in canna. Restammo sull’attenti per un’ora, imprecando e mandando ad entrambi accidenti ed altro. Solo alle tre del pomeriggio si fece colazione.
I due gerarchi rimasero a Roma alcuni giorni, quindi Hitler ritornò in Germania. Il nostro unico vantaggio (per modo di dire) si rivelò che la giornata ci fu regolarmente retribuita.
La domenica mattina continuava l’esercitazione incominciata alla scuola elementare e, siccome il capo gruppo era sempre il figlio del direttore generale dell’officina, per ogni assenza si veniva multati di due ore di lavoro.
Le masse oceaniche che nelle varie occasioni il regime riusciva a portare sulle piazze erano una realtà, alcuni aspetti però non noti contribuivano, e non poco, a queste affermazioni. La disoccupazione era la principale: essere presenti o essere licenziati. Vi erano, per la verità, anche persone in buona fede, che credevano realmente nella potenza delle nostre armi (dieci milioni di baionette), ma quelli che, fanaticamente, dicevano a noi giovani di credere, obbedire, combattere, erano tutti arrivisti, intrallazzatori, alti truffatori. Pur essendo noto, non si poteva dirlo, pena l’arresto, il manganello, l’olio di ricino come ai tempi della marcia su Roma.
In occasione dunque della venuta di Hitler si fece il patto d’acciaio che poi ci portò alla guerra. Quell’incontro servì per la puntualizzazione dei piani. Poi il Führer se ne ripartì ed in breve se ne constatarono i risultati. Attuando l’ennesima provocazione, i nazisti invasero la Polonia, essa aveva un patto di alleanza con la Francia e l’Inghilterra, quindi automaticamente fu la guerra. Pochi mesi dopo l’attacco alla Polonia, Hitler invase l’Olanda e il Belgio, da qui aveva aperto la porta per la Francia; ormai i tedeschi erano a Parigi, la Francia era piegata.
Mussolini voleva essere presente alle future trattative di pace, aveva paura di arrivare tardi e si apprestò ad entrare in causa (gli occorrevano alcune centinaia di morti da portare al tavolo delle trattative). Quando il Duce quel pomeriggio del 10 giugno dal balcone di palazzo Venezia dichiarò la guerra, fin dal mattino in tutte le officine di Roma e della periferia vi fu la mobilitazione delle maestranze ed alle ore 14, tutti inquadrati, si dovette andare a Piazza Venezia.
Già "i grossi papaveri" sussurravano che presto l’Italia avrebbe preso parte al conflitto, il regime aveva convinto molti che sarebbe stata una cosa breve e sicura, poiché l’Italia era una grossa potenza a cui nessuno poteva far fronte; avevamo quei fatidici dieci milioni di baionette in quella occasione come al solito. Il regime aveva lavorato in tutte le direzioni, negli uffici pubblici di tutti i paesi intorno a Roma, nelle scuole, in tutte le caserme perché effettivamente quel pomeriggio vi fosse una massa enorme in Piazza Venezia.
Nel primo pomeriggio il cielo si fece cupo, sembrava che da un momento all’altro dovesse scoppiare un temporale, l’aria era pesante, pareva un brutto presagio, ma poi non piovve e anche i grossi nuvoloni piano piano sparirono. Alcune donne svennero e non solo donne, difficoltoso era il portarle fuori dalla calca.