Il Parlamento del Regno d'Italia/Giuseppe Paternò
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senatore.
Uno dei caratteri ii più salienti, e suoi propri del popolo siciliano, è sempre stato quello di avere una tendenza eccessiva e irrefrenabile, per l’indipendenza autonomica. Noi non sappiamo dire con precisione, quali possano essere i motivi di questa speciale e assoluta tendenza. Vero è che la si potrebbe ripetere principalmente, dagli abusi che i vicerè e i luogotenenti reali, commisero in quella classica terra, in nome dei sovrani da essi rappresentati.
Se da un lato il far parte integrante di una grande potenza, facilitò il commercio e le industrie aprendo loro più larghi sbocchi, e facendole godere di una protezione che il governo di un piccolo Stato, non può mai garantir loro, tuttavia egli è evidente, che questi vantaggi venivano ad essere disgraziatamente sorpassati di gran lunga, dagl’inconvenienti che offriva quel modo di reggimento, il quale per essere troppo discosto dagli occhi del sovrano, allora il solo giudice, datore e rapitore d’ogni bene, non poteva mai offrire nessuna sicurezza e presentare sufficienti e realizzabili promesse di equità e di giustizia.
Da ciò, senza dubbio, il desiderio ardentissimo dei Siciliani di conseguire l’autonomia, che per essi, bene inteso, non significa, o almeno non significava, neppure indipendenza. Giacchè nei tempi del primo impero, ognun sa, come la Sicilia si tenesse paga di aver per sè il Borbone, purchè questi dimorasse nell’isola e regnasse su di essa soltanto.
Dopo che cadde il colosso napoleonico, e che i Borboni tornarono a stabilire la sede del loro regno in Napoli, i Siciliani divennero antiborbonici, e presero a formare un solo voto, che era quello di conseguire la loro autonomia, distaccandosi dal regno napoletano.
La prima rivoluzione del 1848, l’istoria non può non affermare che fosse fatta per altro motivo, che per quello appunto, di spezzare il giogo borbonico e di ergersi a stato indipendente. Del resto l’idea di una Italia una, era allora in mente a pochi, e tutto quello che si sperava di più luminoso e fortunato, era di ar rivare a spinger fuora d’Italia lo straniero, e a con giungere i singoli Stati in cui essi era divisa mediante una confederazione.
Nell’ultimo movimento rivoluzionario, testè scoppiato in Sicilia, e mentre che chiaro appariva ormai agli occhi degli uomini di mente e di cuore, che l’unità d’Italia non era più un sogno, ma un fatto quasi completamente realizzato, i Siciliani i più distinti per intelligenza e più caldi per nobile sentire rinunciarono di buon grado all’antico loro amore autonomico, di cui fecero sacrificio sull’altare della gran patria italiana.
Ma per disgrazia questo sentimento, che può anche fino a un certo punto dirsi di abnegazione, non vinse e predominò in tutti, ed alcuni, fra i quali si annoverano persone d’incontestabile merito, ritennero che il miglior bene che la Sicilia potesse conseguire era quello di vivere isolata moralmente come materialmente lo era. Noi non abbiamo bisogno di dire quanto grettamente egoistica sia una tale aspirazione, e quanto debbasi nell’interesse generale della nazione e in quello particolare della Sicilia stessa, condannare e combattere.
Tuttavia è un fatto doloroso ma non inquietante, che anche oggidi alcuni dei principali membri dell’aristocrazia siciliana, se non rimpiangono certo il regno del Borbone, tuttavia mostrano rincrescimento nel vedere l’antica monarchia degli Svevi e dei Normanni, divenuta una semplice provincia del regno d’Italia.
Ora noi dobbiamo saper buon grado a quelli tra i gran signori siciliani che hanno saputo spogliare quel pregiudizio — non sapremmo come chiamarlo altrimenti — il quale non ignoriamo come avesse una speciale attrattiva agli occhi loro, per aprire la mente e il cuore alla sublime aspirazione verso l’unità nazionale.
In questo numero appunto si trova il marchese Paternò di Spedalotto, uomo di meriti non comuni, e che per la sua posizione gode di una meritata influenza nell’isola natale.
La sua nomina a senatore è stata adunque una ricompensa meritata e una giustizia vera.